Rileggere Vilfredo Pareto per capire il tic anticapitalista degli intellò

Luciano Pellicani
A cento anni dal “Trattato di sociologia generale” tra le molte geniali analisi del filosofo merita di essere ricordata quella in cui, con la sua tipica sferzante ironia, denunciò una delle più esiziali superstizioni del suo tempo: l’anticapitalismo viscerale.

Sono passati esattamente cento anni dalla pubblicazione del “Trattato di sociologia generale” di Vilfredo Pareto, universalmente considerato uno dei classici della scienza della società. E giustamente, poiché non poche sono le geniali analisi in esso contenute. Fra le quali merita di essere ricordata quella in cui Pareto, con la sua tipica sferzante ironia, denunciò una delle più esiziali superstizioni del suo tempo: l’anticapitalismo viscerale.

 

Essa suona così: “Ai tempi del fervore cristiano venne in auge la Superstizione pagana, che opponevasi alla Vera religione… Nei tempi moderni, la Proprietà privata contese il primato alla Superstizione; e il Rousseau la denunziò con tremende invettive. Ma ai tempi della Rivoluzione del 1789, tornò regnare la Superstizione, con il suo corteo di molti ministri, cioè il re, i nobili, i preti. Poscia si tornò ad altre speculazioni teoriche, e il Capitalismo succedette alla Proprietà privata, come Giove succedette a Saturno. Beato chi possiede questa chiave del sapere! Ogni fenomeno passato, presente e futuro si spiega con la magica parola Capitalismo. Esso solo è la cagione della miseria, dell’ignoranza, del mal costume, dei furti, degli assassini, delle guerre. Nulla giova citare l’esempio delle discepole di Messalina, che in ogni tempo si trovano; rimane l’articolo di fede che, se non ci fosse il capitalismo, tutte le donne sarebbero caste e non ci sarebbe superstizione. Nulla giova citare l’esempio dei popoli selvaggi, che traggono la vita in perpetue guerre, la nuova fede ci impone di credere che senza il capitalismo non si vedrebbero guerre di sorta… Se ci sono poveri, ignoranti, infingardi, malvagi, alcolizzati, dementi, dissoluti, ladri assassini, conquistatori, è colpa elusivamente del capitalismo”.

 

Ebbene: nulla è cambiato da quando Pareto denunziava l’anticapitalismo viscerale del suo tempo. Ancora oggi intellettuali di grande prestigio ci assicurano che tutti i mali del mondo sparirebbero se fosse cancellato dalla faccia del pianeta Terra il capitalismo. Emanuel Wallerstein, in ogni suo intervento, si dice sicuro che il capitalismo è il responsabile “dell’immiserimento assoluto del proletariato mondiale”; Zygmunt Bauman descrive il capitalismo come un vampiro che, “come tutti i parassiti, può prosperare solo per un periodo quando trova organismi non sfruttati dei quali nutrirsi”; Noam Chomsky è instancabile nel denunciare “la natura predatoria del capitalismo”; Serge Latouche non perde occasione per auspicare la soppressione della logica catallattica, la quale, simile a un cancro, corrode la natura umana, riempiendola di desideri innaturali quanto nocivi.

 

[**Video_box_2**]Tutto ciò soddisfa un desiderio narcisistico molto diffuso, soprattutto fra gli intellettuali: quello di sentirsi puri e incontaminati in una società dominata da Mammona e dai suoi cupidi adoratori. La cosa emerge con la massima evidenza dagli articoli che Pier Paolo Pasolini pubblicò negli anni Settanta sulle pagine del Corriere della Sera. In essi, era ossessivamente ripetuto che “la continuità fra fascismo fascista e fascismo democristiano era completa e assoluta” e che il sistema capitalistico era “il più repressivo totalitarismo che si fosse mai visto “a motivo del fatto che “il potere coatto dei consumi ricreava e deformava la coscienza del popolo italiano fino a una irreversibile degradazione”. In aggiunta, la diffusione del benessere era bollata come uno spaventoso processo di “omologazione”. Così mentre il capitalismo della Seconda rivoluzione industriale – grazie alla prodigiosa lievitazione della produttività del lavoro e alla conseguente crescita della ricchezza nazionale -- faceva uscire milioni di lavoratori dalla miseria più atroce, Pasolini lo stigmatizzava come una perversa potenza, il cui fine era “la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo”. Donde l’inappellabile sentenza finale, secondo la quale “la società dei consumi aveva realizzato il fascismo”. Solo una parte della società italiana non si era fatta contaminare dalla “infezione borghese”: il Partito comunista, il quale “era un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico”. Breve: il Pci era un’oasi di incontaminata purezza morale in un mondo corrotto e corruttore: una sensazione davvero gratificante per tutti coloro che si identificavano con il suo programma rivoluzionario.