“Frutta e verdura di stallo”, Frans Snyders, 1618

Il neoliberismo è un feticcio agitato dalla politica immobile

Alberto Mingardi
“E’ tutta colpa del liberismo”. Mingardi illustra origine storica, foga ideologica e svarioni fattuali dietro il mantra che ormai domina il dibattito pubblico americano e italiano

 

 

Nuova Storia
Contemporanea
Pubblichiamo ampi stralci di un saggio di Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, che comparirà in versione integrale nell’ultimo numero di “Nuova Storia Contemporanea”. La rivista, diretta dal professore Francesco Perfetti ed edita da Le Lettere, è in edicola e in libreria.

 

 

 


 

Gli ultimi trent’anni sono diventati l’oggetto di una leggenda nera. La “leggenda nera” è grossomodo questa. Nel corso del Novecento, le istituzioni della socialdemocrazia avevano addomesticato il capitalismo, facendone “un agnello che va tosato e non ucciso”. Al mercato il compito di produrre ricchezza, alla politica la sua distribuzione. L’una cosa e l’altra hanno garantito crescita e pace sociale nel secondo dopoguerra. Un rallentamento dell’economia, nei primi anni Settanta, ha però aperto la porta a forze reazionarie, incarnate dai due principali leader del mondo occidentale nel decennio successivo: Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Thatcher e Reagan hanno appicciato la miccia di un’autentica contro-rivoluzione, il cui esito è stato un repentino e ingiustificato ripudio delle conquiste sociali del passato. Le forze della reazione hanno rapidamente preso possesso delle principali agenzie del consenso. Grazie a un’efficiente propaganda, il crollo del muro di Berlino ha indotto negli elettorati un ingiustificato ottimismo circa l’“ordine spontaneo” determinato dal libero incrociarsi di domanda e offerta. I vent’anni che sono seguiti, contrassegnati da un progressivo abbattimento delle frontiere, da una crescente deregolamentazione e dal declino dell’imposizione fiscale sui ceti elevati, hanno condotto il mondo due volte sull’orlo del baratro: prima, con la crisi finanziaria del 2007-2008 e poi, quel che più conta, con una persistente divaricazione sociale. Questa nuova polarizzazione delle società occidentali in haves e have-nots non sarebbe un incidente della storia ma l’esito di un programma, di un sistema di idee: quello che passa sotto l’etichetta di “neo-liberalismo” o, in Italia, “neo-liberismo”. Ci sono troppe cose che la “leggenda nera” non spiega. Come abbiano fatto gli odiati Reagan e Thatcher a essere eletti, per esempio, se i successi della socialdemocrazia erano così acclarati. O come sia possibile ricondurre a uno stilizzato modello di deregulation gli apparati regolatori complessi, pervasivi e in continua espansione che contraddistinguono tutti gli Stati occidentali. Ma una leggenda non ha bisogno di essere accurata o precisa. Dev’essere avvincente: e la leggenda nera lo è. Proprio grazie all’invenzione del neo-liberismo, che serve a unire tutti i puntini. Il neo-liberismo è il maggiordomo dei vecchi gialli, l’assassino che il lettore identifica a colpo sicuro. Un’efficace trovata romanzesca.

 

Il neo-liberismo

 

La parola neo-liberismo ha una storia curiosa. Originariamente veniva usata per denotare un liberalismo “nuovo”, più attento alle istanze sociali. Il neo-liberalismo doveva dunque servire a superare ciò che oggi si addebita al neo-liberalismo: una rivendicazione della libertà d’intraprendere così convinta da non curarsi delle condizioni di vita di chi non appartiene all’1 per cento più ricco della popolazione. Quando Walter Lippmann scrive che la dottrina di Adam Smith e dei “grandi liberali del XVIII secolo è divenuta nel nostro tempo la dottrina che difende e giustifica molte ingiustizie e molte oppressioni. Negli ultimi anni di vita di Herbert Spencer, il liberalismo era divenuto una negazione mostruosa che si elevava come barriera contro ogni istinto generoso dell’uomo”, egli esprime un punto di vista all’epoca diffuso. La società di mercato funziona per creare ricchezza, ma ne inibisce una migliore distribuzione.

 

Uno dei pochi individualisti rimasti in circolazione, Ernest Benn, aveva ben compreso dove stesse il problema: “La rivoluzione industriale è stata dipinta a falsi colori”. Costretti sulla difensiva dall’imporsi delle grandi ideologie di massa, nazionalismo e socialismo, i liberali introiettarono la narrazione della Rivoluzione industriale dei loro avversari. Erano pochissimi coloro che scrivevano, nel 1927, che “tutto ciò che ha creato ricchezza nella nostra epoca dev’essere ricondotto alle istituzioni capitalistiche”, come Ludwig von Mises. Uno storico dell’economia quale John Clapham poteva a ragione segnalare che “dopo il crollo dei prezzi avvenuto nel 1820-21, il potere d’acquisto dei salari era decisamente superiore di quello precedente alla Rivoluzione americana e alle guerre napoleoniche”, aggiungendo che questo fatto era talmente in contrasto con la lettura tradizionale della rivoluzione industriale che “veniva raramente menzionato, giacché i lavori statistici in materia di prezzi e salari vengono costantemente ignorati dagli storici della società”.

 

In un contesto nel quale “persino i più scettici nei confronti dell’interventismo pubblico ammettevano che le possibilità che l’opinione pubblica potesse sposare una filosofia vicina al laissez-faire apparivano a dir poco esigue”, l’idea di un liberalismo “nuovo” cominciò a prendere piede. Il termine è un conio di Alexander Rustow: l’ambizione dei teorici della scuola di Friburgo era quella di costruire un liberalismo più attento alle istanze sociali e pertanto meno inviso alla società tedesca. Philip Mirowski sostiene che l’etichetta rientrasse appieno nel guardaroba ideologico dei soci della Mont Pelerin Society, l’associazione fondata da Friedrich von Hayek nel 1947 per tenere assieme i cocci del pensiero liberale, in ritirata su entrambe le sponde dell’Atlantico. Lo stesso Mirowski ammette che a un certo punto essi “smisero di sostenere la necessità di una rottura con le dottrine del liberalismo classico”. Lo si potrebbe leggere come una conseguenza dell’irrobustimento della posizione dei neo-liberali, che smettono il “neo” come una maschera che non serve più: ma è una tesi che è difficile sostenere. I testi più significativi della cosiddetta “rinascita del liberalismo” nel secondo dopoguerra, ovvero “Capitalismo e libertà” di Milton Friedman, “La società libera di Hayek” e “Il calcolo del consenso” di James Buchanan e Gordon Tullock, vedono la luce quando nulla sembra impensierire il keynesimo trionfante. E’ vero, invece, che il problema segnalato da Benn trovò soluzione: emerse una storiografia diversa sulla rivoluzione industriale, che riconobbe che essa aveva accresciuto il benessere delle fasce più umili della popolazione. Come tutte le cose umane, il capitalismo è indubitabilmente pieno di difetti. Ma l’osservazione di Mises è cominciata a sembrare sempre meno una bizzarria, e sempre più un’accettabile descrizione degli eventi degli ultimi due secoli: “Se la grande massa dei nostri contemporanei può godere oggi di un tenore di vita superiore a quello che ancora poche generazioni or sono era possibile soltanto ai ricchi e ai ceti particolarmente privilegiati, lo dobbiamo solamente (...) agli elementi di capitalismo contenuti nella nostra società”.

 

La grande cospirazione

 

Gli avversari del neo-liberismo credono nella democrazia, non c’è dubbio: non fanno che parlarne. Questioni all’apparenza altamente specifiche, ai loro occhi chiamano in causa proprio i fondamenti del sistema democratico. Nondimeno faticano a raccapezzarsi quando il demos fa di testa sua. Quando gli inglesi votano per David Cameron, i tedeschi per Angela Merkel e gli argentini per Mauricio Macri, qualcosa non torna. Innanzi a tanta cecità, la deduzione è automatica: dev’esserci qualcuno che ha spento la luce. Questo qualcuno è stato identificato in un “intellettuale collettivo”. Si tratta della Mont Pelerin Society, l’associazione fondata da Hayek. Secondo Luciano Gallino, “verso il 1980, le dottrine economiche e politiche neoliberali avevano occupato tutti gli spazi essenziali nelle università e nei governi. [...] Peraltro i soci non si sono limitati a pubblicare articoli e libri. Molti di loro sono giunti a occupare posizioni centrali nell’apparato governativo dei maggiori paesi”. Gallino notava come alla fine degli anni Novanta i membri della Mont Pelerin Society fossero all’incirca un migliaio: evidentemente dotati del dono dell’ubiquità, se tanti bastano per “occupare tutti gli spazi essenziali nelle università e nei governi”. In precedenza, era stato il romanziere Manuel Vázquez Montalbán a tratteggiare, nel suo “L’uomo della mia vita”, una setta “Monte Pellegrino” composta di gente che lotta “per il potere ovunque si presenti: nei partiti politici, nelle banche e persino nel Barcelona Futbol Club”.

 

Su che cosa si basa, l’ipotesi di una grande cospirazione neo-liberale? Nella forma mentis dei nemici del neo-liberismo c’è poco spazio per l’amaro pensiero che le cose, ogni tanto, semplicemente accadono. Che ogni cambiamento sociale debba essere l’esito di una deliberata decisione politica è in parte un auspicio, in parte una convinzione profonda che li porta a cercare una trama anche dove non ce n’è nessuna.

 

La Mont Pelerin Society è un consesso di accademici e intellettuali pubblici, ha un sito internet sul quale reclamizza i propri convegni, bandisce premi di studio per consentire che vi partecipino giovani studiosi. La sua storia è oggetto di crescente attenzione. Si è diffusa l’opinione che dalle discussioni fra i suoi membri siano sortite le ricette, neo-liberali, che avrebbero battuto il ritmo del mondo occidentale negli ultimi trentacinque anni. Lasciamo perdere l’assunto, un po’ curioso, che un club d’intellettuali si muova con la compattezza di una falange tebana, e non veda al suo interno scontri anche molto accesi. “Le idee hanno conseguenze”: le idee di alcuni soci della Mont Pelerin Society (Friedrich von Hayek, Milton Friedman, Ronald Coase, Gary Becker…) ne hanno avute. Ma se le policies, di un genere o di un altro, possono essere ispirate a una filosofia politica, è improbabile che la ricalchino appieno.Roberto Michels osservava che “la partecipazione al potere rende conservatori coloro che vi sono giunti”. Ciò vale sia che ci si arrivi “da destra” sia che ci si arrivi “da sinistra”. Se anche i neo-liberisti avessero davvero conquistato, mille appena che erano, “tutti gli spazi essenziali nelle università e nei governi”, non si capisce come avrebbero fatto a sconfiggere quelle tendenze alla conservazione tipiche di ogni regime politico. O meglio, lo si capisce soltanto prendendo per buona l’ipotesi che il neo-liberismo sia un vestito ritagliato addosso agli interessi dominanti nella società.

 

Sostenere che i neo-liberisti avrebbero preso il controllo dell’accademia è essenziale per chi ha fatto del neo-liberismo un feticcio: è coerente con l’immagine di una lotta fra le sparute forze dei lumi, e l’onnipresente esercito dell’oscurità. Ma è patentemente falso, e non solo in Italia. Guardiamo al paese e alla disciplina nei quali il fenomeno dovrebbe essere più pronunciato: ovvero agli Stati Uniti e all’economia. Gli economisti americani interpellati, in un sondaggio del 2003, affermavano per il 58 per cento di votare per il Partito democratico e solo per il 23 per cento di votare per il partito Repubblicano. Da una serie di domande volte a esplorarne gli orientamenti politici risultava che solo “l’8,3 per cento dei membri dell’American Economic Association sono sostenitori del libero mercato”. Si dirà che più che il numero dei pastori conta la qualità del pulpito. Prendiamo i Nobel per l’economia degli ultimi quindici anni. Gli unici che sia possibile etichettare come neo-liberali senza sfidare il ridicolo sono Eugene Fama (2013), Christopher Pissarides (2010), Oliver E. Williamson (2009), Edmund S. Phelps (2006) e Vernon L. Smith (2002), il fondatore dell’economia sperimentale. Di questi, Fama non si è mai occupato di questioni normative, Smith è l’unico membro della Mont Pelerin Society ma è pure un eccentrico rispetto al mainstream della disciplina e Phelps, che molto enfatizza il dinamismo dell’economia di mercato, si proclama discepolo del filosofo John Rawls. Nell’ultimo quindicennio hanno altresì ricevuto il Premio della Banca nazionale di Svezia Robert J. Shiller (2013), Paul Krugman (2008), George A. Akerlof e Joseph E. Stiglitz (2001): tutti autori cari ai critici del neo-liberismo.

 

La pietra angolare della leggenda nera, l’idea che gli elettori abbiano subito un lavaggio del cervello ad opera dell’intellettuale collettivo neo-liberale, è un bello stratagemma narrativo. E null’altro.

 

Laissez-faire ad alto tasso di interventismo

 

Sbagliare a identificare il colpevole non significa necessariamente che il delitto non abbia avuto luogo. Levato di mezzo l’intellettuale collettivo montpeleriniano, è vero o no che siamo in un’epoca di rampante neo-liberismo? Per rispondere, bisognerebbe avere ben chiaro che cosa sia, il neo-liberismo. In realtà, nel momento in cui il neo-liberismo viene accusato di tutte le nefandezze possibili, esso potrebbe essere qualsiasi cosa. Ipotizziamo che la leggenda nera associ ai diabolici Reagan e Thatcher politiche di deregolamentazione, e al periodo storico che ne è seguito una tendenza alla liberalizzazione dell’economia. La crisi finanziaria del 2007-2008 e l’esplosione delle diseguaglianze, con il continuo assottigliamento del ceto medio e la polarizzazione della società in (pochi) haves e (moltissimi) have-nots, è correlata con un aumento della “libertà economica”?

 

Parlando di “libertà economica” si finisce inevitabilmente nel mondo del pressappoco. Due economisti che curano uno dei più importanti rapporti sullo stato della “libertà economica” nel mondo, Gwartney e Lawson, spiegano che “gli elementi chiave della libertà economica sono la scelta personale, lo scambio volontario, la libertà di fare concorrenza e la tutela della persona e della proprietà. Quando esiste la libertà economica, sono le scelte degli individui a decidere quali beni e servizi vengano prodotti, e in quale quantità”.

 

La “libertà economica” è dunque intesa come quell’insieme di precondizioni che consentono gli scambi volontari fra individui. Queste precondizioni sono eterogenee: la non interferenza con la libera concorrenza è un mero “non fare” per il potere pubblico, mentre al contrario la tutela dei diritti di proprietà richiede apparati complessi, dal catasto a un buon sistema di giustizia civile. Tutto ciò però contribuisce a facilitare gli scambi. Al contrario, quanto più lo Stato interviene nella vita economica di un paese, tanto più ne riduce lo spazio. Attraverso la tassazione, si appropria di risorse sulle quali i privati cittadini perdono controllo; acquisendo e controllando direttamente imprese o interi settori industriali, limita la disponibilità di capitale per iniziative private; attraverso regolamentazioni vieppiù minuziose, aumenta i costi delle transazioni e, pertanto, riduce il numero degli scambi che potenzialmente potrebbero avvenire.

 

Un elemento cruciale della leggenda nera è la credenza che, a un certo punto, la tendenza endemica del capitalismo a produrre crisi e scompensi fosse stata messa sotto controllo da un’energica azione di regolamentazione. I neo-liberisti hanno aperto la gabbia e liberato le fiere.

 

A salma ancora calda, Romano Prodi scaricò sulle spalle di Margaret Thatcher la responsabilità della crisi finanziaria. Prodi probabilmente pensava al cosiddetto “Big Bang” del 1986, una serie di provvedimenti da molti considerati il taglio del nastro della “finanziarizzazione” dell’economia britannica. Un attento studioso inglese, Philip Booth, ha sottolineato come la Thatcher non liberalizzò la City: invece sostituì norme di carattere pubblicistico a regole che si erano evolutivamente sviluppate, in seno al settore privato. I governi Thatcher hanno privatizzato la telefonia, l’industria automobilistica, la produzione di energia elettrica, il trasporto aereo. Ma, in campo finanziario, è proprio in quegli anni che in Inghilterra l’insider trading diventa reato, che le assicurazioni sulla vita vengono regolamentate per la prima volta, che è introdotta l’assicurazione obbligatoria sui depositi. Il “Big Bang”, spiega Booth, ha agevolato le grandi concentrazioni e consentito in certa misura una maggiore creatività imprenditoriale in campo finanziario. In ultima analisi, però, ha ridotto il peso dell’autoregolamentazione allargando lo spazio della regolazione pubblica. Il che segna una riduzione, non una crescita, della “libertà economica”.

 

Concediamo pure che un cambio di passo ci sia stato, con Thatcher e Reagan – ma senza che i neo-liberisti abbiano occupato “tutti gli spazi essenziali nelle università e nei governi”. E’ un’ovvietà che il processo di deregolamentazione non abbia potuto abbracciare uniformemente tutti i settori economici. Tirando in qualche modo le somme del “decennio d’oro” della deregulation negli Stati Uniti, già Sam Peltzman notava come “il movimento della deregulation è stato selettivo: molti settori di regolamentazione sono sopravvissuti indenni, altri (come la regolamentazione dei contratti di lavoro e l’assistenza sanitaria) sono perfino cresciuti”. Quali furono i casi acclarati di deregulation degli anni Ottanta, negli Stati Uniti? Il settore ferroviario, il trasporto su gomma, le aviolinee, la telefonia. Questo il palmares del Reagan deregolamentatore.

 

Ecco perché, in America, la leggenda nera trova la sua Thatcher in Bill Clinton. A Clinton si deve infatti l’“abolizione” del Glass-Steagall Act, norma varata ai tempi di Roosevelt e che pertanto consente un’elegante simmetria. Da una parte, la sinistra “buona” che mette le briglie al capitalismo. Dall’altra, quella “degenerata” che si lascia condizionare da potenti interessi economici. Ma che cosa prevedeva il Glass-Steagall Act? Il dispositivo univa quattro elementi rilevanti: “La Sezione 16 in generale proibisce alle banche di sottoscrivere e di trattare titoli di Borsa, mentre la Sezione 21 vieta alle società di intermediazione finanziaria di accettare depositi. Le due Sezioni rimanenti, la 20 e la 32, vietano alle banche di affiliarsi con società che siano principalmente o primariamente attive nel settore della sottoscrizione o nella mediazione di titoli. Nel 1999 il Gramm-Leach-Bliley Act abrogava le Sezioni 20 e 32, permettendo così alle banche di affiliarsi con società di intermediazione finanziaria, ma le Sezioni 16 e 21 sono rimaste intatte”26. Il che significa che il divieto, per le società d’intermediazione finanziaria, di raccogliere depositi non è mai stato in discussione. Il Gramm-Leach-Bliley Act ha consentito a banche d’investimento e banche commerciali di far parte di una medesima holding. Che le due tipologie siano rimaste ben distinte, lo dimostra il fatto che, nel 2008, Goldman Sachs e Morgan Stanley chiesero e ottennero di diventare banche commerciali, per poter così accedere alla finestra dei prestiti a tasso di sconto della Fed.

 


“Mercato del pesce”, Frans Snyders, 1618


 

Per la felice simmetria di cui già abbiamo detto, la leggenda nera sostiene che “prima” dell’“abolizione” della Glass-Steagall fosse impossibile alle banche trafficare in derivati, al contrario di quanto avvenuto dopo. Peter Wallison ricorda che il Glass-Steagal Act non aveva mai “proibito alle banche di acquistare o vendere crediti interi, anche se un credito poteva essere visto come un titolo, una security. Quando venne escogitata la cartolarizzazione (securitization), le banche avevano il permesso (anche nell’ambito delle norme del Glass-Steagall) di convertire in titoli i propri crediti e venderli sotto tale forma.

 

Analogamente, le banche avevano sempre avuto la possibilità di vendere e acquistare titoli garantiti da asset (quali un mutuo). Parimenti il Glass-Steagall permetteva alle banche di sottoscrivere e scambiare titoli pubblici, o titoli garantiti da un governo”.
La crisi finanziaria, come tutti i fenomeni complessi, ha avuto più che una singola causa. Anche un avversario del neo-liberismo quale George Soros sottolinea come “il denaro a buon mercato ha generato la bolla immobiliare, un’esplosione di leveraged buyout, e altri eccessi. Quando il denaro è gratuito, chi lo presta in maniera razionale continuerà a prestarlo fino a quando non c’è nessun altro che concede prestiti”. Le politiche monetarie espansive sono difficilmente attribuibili al neo-liberismo. E’ inoltre impossibile dimenticare che la crisi è esplosa nel mercato immobiliare. In ultima analisi, essa si deve alla proliferazione delle ipoteche a rischio concesse a mutuatari sotto-qualificati. Gli erogatori di mutui ipotecari hanno smesso di preoccuparsi del rischio di rimborsi: cedevano i crediti a operatori che li avrebbero trasformati in titoli da rivendere nel mercato mobiliare. Ma essi hanno potuto farlo perché, perlomeno dagli anni Settanta, lo Stato americano ha fatto di tutto per incentivare la proprietà immobiliare: dalla creazione di government-sponsored enterprises (Gse) votate all’intermediazione dei mutui, a incentivi fiscali ad hoc.

 

[**Video_box_2**]Nelle sue dinamiche, la crisi offre numerosi esempi di politiche intraprese in nome di un certo obiettivo, che hanno dato risultati imprevisti. Persone di destra e di sinistra possono trovarsi d’accordo nell’auspicare che la proprietà immobiliare si diffonda anche fra i ceti più umili. Per gli uni, una società di proprietari è più responsabile e più attenta al peso del prelievo fiscale. Gli altri riterranno che una casa di proprietà, per quanto modesta, serva a ridurre alcune delle più pressanti preoccupazioni della vita. C’è chi pensa che tutto ciò non sia stato che una cospirazione, dal momento che “i ricchi sono azionisti o proprietari di obbligazioni della banca che effettua prima il prestito e poi il sequestro [al mutuatario inadempiente], di modo che essi, lungi dal rimetterci dalla perdita di valore delle case, acquisiscono pure la comproprietà dell’immobile e del mutuo”. Questo passo di Luciano Gallino è davvero rivelatore. Da una parte, i nemici del neo-liberismo non riescono a venire a patti con l’idea che le politiche hanno conseguenze inintenzionali, perché dovrebbero rinunciare a nessi casuali semplici e lineari per qualsiasi fatto sociale: forse non è stato il maggiordomo! Dall’altra, essi restano convinti che non ci sia che un modo per diventare ricchi: derubare i poveri. Questa idea ci appare in tutta la sua grottesca inverosimiglianza proprio pensando alla crisi dei mutui. Perché mai gli azionisti delle grandi banche avrebbero dovuto essere interessati a mettere le mani su appartamenti a dir poco modesti, il cui valore sarebbe ulteriormente diminuito una volta scoppiata la bolla?

 

La leggenda nera racconta che la deregolamentazione è un processo continuo. Dai tempi di Thatcher e Reagan a oggi, la politica avrebbe continuato a cedere terreno, riportandoci di fatto a una situazione di laissez-faire. E’ vero che sempre più frequentemente appaiono nuove imprese che danno scacco a interi apparati regolatori: è il caso della cosiddetta sharing economy. L’arrivo di Uber ha reso obsoleto il contingentamento delle licenze dei taxi, AirBnB mina il castello di norme che presidiano affitti e attività alberghiera. In un caso e nell’altro, stiamo parlando di aziende che non offrono un prodotto ma mettono in comunicazione domanda e offerta: riducendo i costi delle transazioni, rendono possibili scambi che prima non lo erano. Si tratta di realtà che non sono state per nulla agevolate dal quadro regolatorio esistente (e preteso neo-liberista): anzi che talora sono del tutto incompatibili con esso.

 

Si prenda l’andamento della “libertà economica” in alcuni Paesi occidentali (Francia, Germania, Italia, Regno Uniti, Stati Uniti) a partire dal 1975, per come misurato nell’indice Economic Freedom of the World promosso dal Fraser Institute di Vancouver. Pur senza esaminare in dettaglio i parametri che costituiscono la “libertà economica”, è abbastanza chiaro che è difficile parlare di un trend uniforme. La stagione di Thatcher e Reagan ha coinciso con un periodo di “liberalizzazione”: ma anche in Stati Uniti e Gran Bretagna osserviamo che il tasso di “libertà economica” è andato diminuendo in anni più recenti, con le amministrazioni Bush e Blair.

 

La notizia del trionfo del neo-liberismo è abbondantemente esagerata. Negli Stati Uniti l’Amministrazione Obama ha varato in media 81 nuove “major regulations” l’anno e prima di essa l’Amministrazione Bush si contentava di tenerne a battesimo 62 l’anno30. È difficile considerare l’Unione europea un territorio a basso tasso di regolamentazione: secondo il think-tank OpenEurope, “se l’Unione europea continuerà a legiferare seguendo il ritmo attuale, di qui al 2020 l’acquis communautaire sarà più che raddoppiato, raggiungendo le 351.000 pagine”. Non parliamo poi del nostro paese, dove da anni la semplificazione normativa, che non coincide con la deregolamentazione tout court ma ne è la logica premessa, è l’eterno auspicio di destra e sinistra. Se davvero l’intellettuale collettivo neo-liberale esercita una qualche sorta di egemonia, essa è sorprendentemente sterile. (…)

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