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Mercanti e sapienza

Ricchi, spregiudicati e coltissimi. Ecco gli uomini che fecero grande la storia d'Italia

Maurizio Schoepflin

L’occhio del mercante. Commercio e cultura nel Medioevo italiano, di Gabriella Airaldi sfata uno dei luoghi comuni più diffusi riguardo coloro che si arricchirono mediante la propria capacità di impresa

Scrive Gabriella Airaldi nella Premessa del suo volume L’occhio del mercante. Commercio e cultura nel Medioevo italiano (Edizioni di Storia e Letteratura, 144 pp., 18 euro): “Prima del Quattrocento gli uomini d’affari sono gli unici a lavorare molto dovunque. Ma in questo libro non interessa davvero chi siano, fin dove si spingano per i loro affari. Quel che si vuol mettere in evidenza è che si tratta di persone colte e capaci di scrivere di qualsiasi argomento. All’alba della società di mercato non ci sono dunque capitalisti ignoranti, spregiudicati e affamatori, che hanno occhi solo per l’aureo metallo. Ci troviamo di fronte ad autori di trattati sui numeri, quelli stessi numeri alla base dei loro rapporti di scambio. Soprattutto, abbiamo dinanzi uomini che scrivono di letteratura e storia. L’occhio del mercante è stato essenziale per dar valore al sapere”. Con queste parole l’autrice delinea bene il senso del suo lavoro, con il quale si preoccupa di sfatare uno dei luoghi comuni più diffusi riguardo a coloro che si arricchirono mediante la propria capacità di intrapresa; di costoro, infatti, si è quasi sempre pensato che fossero persone piuttosto rozze, certamente poco colte, attente soltanto al successo economico. Ed è molto interessante che tale tesi venga sostenuta guardando al Medioevo italiano e, in particolare, a tre città – Firenze, Venezia e Genova – nelle quali ricchezza e cultura andarono di pari passo, tanto che Airaldi si sente autorizzata ad affermare addirittura che “l’importanza crescente del denaro favorisce un progressivo diffondersi dello spirito”, cosicché “l’espansione mercantile si accompagna, ieri come oggi, a risonanze artistiche e culturali”.

Nei tredici capitoli del libro, prendendo in considerazione situazioni e personaggi diversissimi, Airaldi offre numerose prove delle convinzioni da lei maturate. Prendiamo, per esempio, il caso di Francesco Balduccio Pegolotti, agente della fiorentina potentissima Compagnia dei Bardi, che agisce in ambito commerciale e bancario. Francesco è attivo nei primi anni del XIV secolo, finché la morte non lo coglie nel 1349. Lo troviamo nelle Fiandre e in Inghilterra, ad Avignone e a Cipro. Tratta delicate questioni economiche relative al commercio della lana e all’attività di prestito. Quando è a Firenze ricopre importanti incarichi cittadini. Tra il 1335 e il 1343 redige un testo il cui titolo, tanto chilometrico quanto curioso, è davvero tutto un programma: “Libro di pesi e misure di mercatantie e d’altre cose bisognevoli di sapere a mercatanti di diverse parti del mondo e di sapere che usano le mercatantie e cambi e come rispondono le mercatantie da uno paese a un altro e da una terra a un’altra e simile s’intenderà quale è migliore una mercatantia che un’altra e d’onde elle vengono e mostreremo il modo di conservarle più che si può”. Pegolotti è consapevole che, se il mercante vuole esercitare il suo mestiere con successo, deve possedere numerose nozioni, che gli risulteranno preziose soprattutto se il lavoro lo porterà in varie parti del mondo.

Dunque l’uomo d’affari medievale diventa scrittore, capace di trattare anche temi non esclusivamente economici. Airaldi sottolinea costantemente il legame che nel Medioevo italiano si viene a creare tra sviluppo della ricchezza e diffusione della cultura: “Nelle carte degli uomini d’affari – ella scrive – non compaiono soltanto danaro e conti, ma anche relazioni di viaggio, novelle e storie d’amore”. Non casualmente, tra i protagonisti delle vicende della blasonata famiglia genovese dei Doria, accanto ad affaristi e guerrieri troviamo storici e poeti.

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