"Concerto dentro un uovo", Hieronymus Bosch (Wikipedia)

Il libro di Johan Huizinga

Potere, giustizia e società: le ombre del Medioevo sull'età moderna

Antonio Gurrado

Il Medioevo descritto da Huizinga è un’epoca crepuscolare, che già in sé racchiude i prodromi del cambiamento poi volgarizzato sotto il nome di Rinascimento. Bisognerebbe parlare di questo, più che della collocazione politica di Dante

Non Dante ma la veemenza della vita è ciò che lega i nostri giorni al Medioevo. Della presunta collocazione politica di Dante abbiamo sentito dibattere a iosa. Della veemenza della vita – espressione cui Johan Huizinga intitolò il primo capitolo del suo classico L’autunno del Medioevo – facciamo invece esperienza quotidiana senza batter ciglio. “Quando il mondo era più giovane di cinque secoli”, esordiva Huizinga, “tutti i casi della vita avevano forme esteriori molto più violente”. Il suo termine di paragone era il Novecento sorto da poco, che gli pareva discostarsi dalla fine del Medioevo soprattutto a causa del garbo, della distanza con cui le passioni venivano espresse sia in pubblico sia in privato.

 

Il Medioevo descritto da Huizinga è un’epoca crepuscolare, che già in sé racchiude i prodromi del cambiamento poi volgarizzato sotto il nome di Rinascimento. Con esso lo storico ravvisava una solida continuità, a fronte del contrasto netto e un po’ scolastico di un Burckhardt, che a un Medioevo trascendentalista e teocentrico aveva contrapposto tout court un Rinascimento immanentista e antropocentrico. Più sottile, il sottotesto della teoria di Huizinga era che l’età moderna avesse insegnato all’occidente a stemperare la veemenza della vita, e che il Novecento si fosse disfatto, come di un passato infantile, di quel tempo in cui “tutto ciò che si provava aveva ancora quel grado di immediatezza e di assolutezza”.

 

Oggi possiamo ancora guardare a quell’epoca col distaccato interesse entomologico che Huizinga riservava alle sue manifestazioni umane, sociali e culturali? Sin dalle prime pagine L’autunno del Medioevo individuava alcune specifiche differenze rispetto ai tempi dell’autore. Il clamore, anzitutto, “cortei, grida, lamenti e musica” che accompagnavano qualsiasi attività, fosse essa l’arrivo di un venditore ambulante, di un corteggiatore o di un funerale. Quindi l’effetto pressoché magico della parola sul popolo, ben testimoniato dalla credulità verso predicatori e imbonitori di ogni risma; Huizinga non lesinava un certo snobismo nello scrivere che “noi lettori di giornali possiamo farci a malapena un’idea del formidabile effetto della parola su uno spirito famelico e ignorante”. Poi la tipizzazione dei governanti secondo un limitato catalogo a tinte forti, tratto dalle semplificazioni della narrativa anziché dalla complessità della realtà: il principe nobile, il principe fuorviato, il principe vendicatore, il principe in disgrazia. Infine, l’amministrazione della giustizia pressoché esclusivamente nei due estremi della grazia estemporanea o della morte: o pena massima o annullamento.

 

Noi lettori di giornali, per rubare l’espressione a Huizinga, non possiamo fingere di non accorgerci che queste quattro caratteristiche si ripropongono con prepotenza ai nostri giorni, col sensazionalismo sentimentale sui social o in tv, con la credulità complottista, con l’adesione degli stessi leader a tipologie politiche semplificate, con la retorica del “buttiamo la chiave” alternata a un capriccioso perdonismo. Il Medioevo prossimo venturo preconizzato da Roberto Vacca, con un libro di ormai cinquant’anni fa, non allunga la propria ombra solo per via dell’apocalittica crisi energetica di cui si parlava già allora bensì, a sorpresa, soprattutto a causa di un’involuzione culturale e cognitiva che ci sta riconducendo ai tempi in cui la gente comprava piume di cappone credendole cadute da un angelo e si appassionava al leitmotiv dei figli del Re che litigano a morte per una partita a scacchi. 

 

Huizinga chiudeva L’autunno del Medioevo nel 1919, e non si può dire fosse un anno in cui essere oltremodo ottimisti né sulle prospettive geopolitiche né sul progresso dello spirito umano. Non è quindi colpa delle circostanze – come Petrolini e Alberto Sordi, a noi ci ha rovinato la guerra, e prima ancora il Covid – se siamo regrediti rispetto allo spirito di inizio Novecento; è colpa di scelte e abitudini tutte nostre. Quanto meno siamo ringiovaniti di sei secoli, questo sì.

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