Bruce Lee (1940 - 1973) - foto Getty Images 

Più della diplomazia poté Bruce Lee, a riconciliare oriente e occidente

Francesco Palmieri

Cinquant’anni senza il Piccolo Drago, ma la sua gloria non s’è affievolita, tra serie tv e videogiochi, gadget e pubblicità. La sua biografia si sovrappose alla sua vita sullo schermo. Né l’una né l’altra ebbero per scontato il lieto fine, come non l’hanno avuto i ribelli di Hong Kong

Il tifone di quest’anno si chiama Talim, cinquanta estati fa lo battezzarono Dot. Soffiò su Hong Kong con la furia di un drago dal 14 luglio al 20 e nel giorno in cui smise la colonia britannica fu scossa da una notizia più forte dei venti: la morte improvvisa di Bruce Lee, eroe cinematografico, campione irregolare del kung fu, corpo perfezionato come macchina che avrebbe compiuto appena trentatré anni il successivo 27 novembre, data in cui i registri meteorologici del ’73 – curiosa coincidenza – dichiararono conclusa la stagione dei tifoni.

  
La sua fama già brillava nel sud-est asiatico e lambiva l’occidente sulla scia dei kung fu movie seriali prodotti dall’industria hongkonghese. Sarebbe divenuta globale subito dopo, con la première di Enter the Dragon al Teatro cinese di Hollywood. Per un pugno di giorni lui non poté godersela. Nei cinquant’anni da allora la gloria di Lee non s’è affievolita: Rai 4 ne rimanda i film, la serie tv Warrior alla terza stagione è ispirata a una sua idea, l’account Instagram gestito dalla figlia Shannon ha più di 10 milioni di follower e a Bruce Lee hanno intestato videogiochi, gadget, documentari, fumetti, mostre e pubblicità mentre la Cina quindici anni fa lo onorò con imbarazzato ritardo in cinquanta episodi sull’emittente statale Cctv.

 
Quella del Piccolo Drago non è la sorte di Marilyn e Elvis, di James Dean e Jim Morrison, di Che Guevara e Lady Diana, iconizzati nel pantheon per imbalsamazione popolare. Chi assistette da ragazzo all’assunzione di Bruce Lee alla fama occidentale sapeva che era già morto e ogni fotogramma o scatto o storia postumi costituirono un tassello in più a dispetto della fine. Tutta vita supplementare trasferita da una generazione all’altra: mentre qui s’invecchia lui splende intatto e nel 2019-2020, con la massima taoista “Be water”, ha ispirato i giovanissimi di Hong Kong a ribellarsi nelle piazze per la libertà.


Le leggi possono imprigionare persone e città e decretare sui miti. Ma con Bruce Lee non ci sono riuscite. Nato a San Francisco e cresciuto a Hong Kong, il Piccolo Drago fece spola tra est e ovest riconciliando sull’Oceano Pacifico due mondi che non s’erano capiti o s’erano parlati male. Più della diplomazia del ping pong, che doveva aprire il dialogo tra i governi, fece lui col suo corpo perché riaprì il dialogo tra le culture: basta con le caricature del codino e della “elle”, con la perfida fisicità mandarinale di Fu Manchu. Per la prima volta i ragazzi occidentali assumevano un cinese addirittura a modello e ne respiravano i pensieri, perché nella brevità della vita Bruce Lee fece in tempo a studiare la filosofia occidentale in America, a confrontarla con quella orientale, a sunteggiare Krishnamurti e Napoleon Hill, Cartesio e i taoisti.


Tutti ammirammo Muhammad Ali ma sapevamo che era impossibile essere lui né potevamo accontentarci della poesia “Me, We”, buona a stupire Harvard ma non chi conosceva “M’illumino d’immenso”. Bruce Lee invece, adolescente miope un po’ secchione un po’ teppista, sul metro e settanta, una gamba leggermente più corta, tornato a diciott’anni in America con cento dollari in tasca poteva sì essere emulato. Sembrava uno qualsiasi di noi, e anche se nessuno lo avrebbe eguagliato era il dito che indica la luna. Bello fu ciò che accadde percorrendo il sentiero, dagli ematomi alla scoperta di Confucio. Bello sarà. 

 
Si sovrappose, la biografia del Piccolo Drago, alla sua vita sullo schermo e né l’una né l’altra ebbero per scontato il lieto fine, come non l’hanno avuto i ribelli di Hong Kong. E’ la differenza tra dramma e commedia, tra i Jackie Chan che divertono e i Bruce che ispirano bianchi e neri, ricchi e poveri, slavi e giapponesi. La prima statua gliela eressero i bosniaci di Mostar nel 2005 precedendo gli hongkonghesi, che intanto lasciavano decadere in un albergo a ore e poi demolire la villetta del Piccolo Drago anziché trasformarla in un museo dove oggi affluirebbero da tutto il mondo.

 
Mentre il South China Morning Post ancora ieri s’interrogava sulle cause della morte di Lee, dovuta secondo il referto ufficiale all’ipersensibilità a un analgesico, e fonte di ininterrotte congetture da cinquant’anni, c’interroghiamo noi sull’apparizione di un corpo incantato, supereroe senza costume a dispetto delle fragilità nascoste. Se le avesse accettate sarebbe vissuto più a lungo, magari oggi sarebbe ancora oscuramente vivo, perché il destino non sempre perdona l’insolenza di chi per piegarlo asserisce “no limitation as limitation”.

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