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La rivoluzione nel “dir sciocchezze” di Manganelli a proposito dell'arte

Mariano Croce

Ci sono autori fuori tempo, che mai trovano pieno riscatto. Uno di questi è l'autore di Centuria. Gli scritti di un appassionato sulla stravaganza

Ci sono autori anzitempo che negli anni a venire si rivelano profeti e postumi veggenti. Celebrati, riveriti, diventano oggetto di nuovi culti e a loro si fanno finalmente risalire innumerevoli stirpi che si credevano senza padri né madri. Ci sono all’opposto autori fuori tempo, che mai trovano pieno riscatto: dibattuti con circospetta cautela, temuti e spesso additati, benché sottovoce, come esempi sconvenienti, perché inimitabili e quindi incapaci di iniziare genie. Ed è certo che in questa seconda schiera va annoverato Giorgio Manganelli, il meno imitabile tra gli scrittori del Novecento. Imitabile persino meno di Carlo Emilio Gadda, se è vero com’è vero che questi rimproverò il più giovane collega d’averne imitato stile e timbro. Come leggenda vuole, a pochi giorni dalla pubblicazione di Hilarotragoedia (1964), esordio letterario di Manganelli, Gadda gli fece visita per avere delucidazioni su un libro che egli interpretava come impertinente parodia de La cognizione del dolore. L’accusa era di plagio, con sovrappiù di beffa, da parte di un esordiente che ricalcava il linguaggio e scherniva i temi di uno scrittore che di lì a breve (certo dopo la sua morte, ma in pieno e riconosciuto diritto) sarebbe stato canonizzato autore anzitempo. Per Manganelli, invece, nessuna riscrittura del canone: ora come allora rimane autore fuori tempo, che vendeva pochissimo al tempo e che oggi di certo non smuove la ragion computistica dei librai. 

Questo non dovrebbe stupire in un’epoca, come la nostra, dove il libro è nobile intrattenimento e il suo fine supremo è rassicurare chi legge. Scrittrici e scrittori hanno mandato di attingere a un paniere di idee e aggettivi sobrio, auspicabilmente condiviso, che non obblighi mai a scomode ricerche in archivi sorpassati, quali sono i dizionari, e consenta il ritmo fluido di una lettura in cui tutti debbono potersi riconoscere in forme immediate e immeditate. Né stupisce che un’autrice à la page come Jhumpa Lahiri al recente Salone del Libro di Torino abbia intonato l’elogio di Alberto Moravia per la sua prosa diligente, piana, equilibrata, capace di utilizzare la confusione e il caos del suo tempo in modo tale da sbastirli e rimbastirli in linee narrative adatte a ogni palato. E viene allora in mente la baruffa durata più d’un decennio tra Manganelli e Moravia su natura e scopo della letteratura. Agli occhi del suo “rissoso” avversario, Moravia è lo spirito protettore di una letteratura “umanistica”, che vuole riflettere sulla vita partendo dalla vita, per offrire scampoli di un riscatto a basso costo e che per questo vuol dipingersi come fidata, credibile, coscienziosa. Per Manganelli, la letteratura è tutt’altro: scandalosa, inaffidabile, inoperosa, terroristica persino, indifferente ai valori universali, immorale nella più parte dei casi. Una letteratura di tal fatta diserta le battaglie per il miglioramento dell’umanità e indulge nei vizi dell’insensatezza e della menzogna. 

Non che Manganelli si concedesse i piaceri perversi della rivoluzione permanente. Per un professionista dell’anticonformismo come Pier Paolo Pasolini, ad esempio, Manganelli incarnava lo scandalo vistoso e compiaciuto di una borghesia reazionaria al massimo grado di perfezione, perché sorniona, svogliata, scioperata persino, ma capace di prodursi uno stile. Per Pasolini, lo stile di Manganelli rappresentava l’acme di una controrivoluzione su carta: un modo di scrivere che veicolava un modo di esistere, in cui l’impegno sociale e politico assumeva i tratti importuni di un vizio da ragazzi di strada. E non si può negare che proprio negli anni più caldi del presunto risveglio delle coscienze, Manganelli avesse già individuato il rischio di un intero comparto culturale che si compiaceva di pensarsi come “selezionatore di drammi” per masse (che costoro si figuravano) del tutto incolte, quindi incapaci d’incidere sulla storia. Da aruspice che leggeva le interiora putrescenti di una società sempre a mezzo tra moralità e moralismo, egli aveva intravisto i germi di quella “semplificazione” che ha condotto dove siamo. L’affettuoso didatticismo di chi s’incaricava di riscattare i destini dell’umanità, ai suoi occhi, era la tenia che avrebbe divorato dall’interno il gesto di rivolta di individui desiderosi di scriversi da sé le trame del mondo a venire. La smania salvifica dei padroni della cultura avrebbe divorato quell’esile ma vitale istinto per una rivoluzione davvero utile a chiunque. 

Ma questa è storia passata, in cui Manganelli deve annoverarsi tra gli sconfitti. Oggi però, forse per quel piacere metamorfico che nelle sue pagine si fa spazio con sempre scarso equilibrio, la sua scrittura è davvero capace d’innescare una rivoluzione. E va a merito della casa editrice Adelphi l’insistito proposito di ripresentarne con regolarità le opere, e merito ancora più grande se il libro più recente ci presenta sortite nel campo a lui meno familiare della critica d’arte. Egli fu infatti competentissimo saggista e recensore senza rivali, curioso viaggiatore, prodigo epistolografo, tagliente corsivista e perito consulente editoriale, ma sulla critica d’arte faceva valere una condiscendente naïveté – come fa notare Andrea Cortellessa nel saggio che chiude Emigrazioni oniriche. Scritti sulle arti (Adelphi 2023). Non già perché non fosse interessato all’arte – basta un giro per la biblioteca conservata al Fondo Giorgio Manganelli di Pavia per trovarvi molti libri d’arte e in molte lingue. Piuttosto, egli godeva del piacere di “andar vagabondando ad adocchiare tele e disegni, e dir sciocchezze, come viene viene” e, proprio perché non faceva il critico di professione, poter “indulgere ad una imprecisione affettiva”. Interessante è questo richiamo all’imprecisione e al suo legame con gli affetti, perché è questa, ad avviso di chi scrive, la chiave della rivoluzione manganelliana: una capacità di attenzione nuova, in cui né si ribassano le competenze tecniche né le si presuppongono, mentre chi guarda (o legge o ascolta) si procura per sé una nuova, certo meno comoda, capacità di individuare i dettagli.

È per questo che perlopiù si loda la peculiare ecfrasi del Nostro – termine che nella Grecia antica indicava il procedimento retorico mediante cui l’opera d’arte viene trasposta in parole con quell’instancabile rigore che ne riproduce l’esperienza e persino la rafforza. Eppure, come per ogni attività che contempli l’uso della lingua, l’ecfrasi in Manganelli tradisce il suo mandato originario. In Emigrazioni oniriche essa è del tutto contraffatta, adulterata, tale da creare tutt’altra opera, in piena e studiata rottura con quanto si vedrebbe se il lettore s’incomodasse a reperire l’immagine delle opere di cui tratta. Tutt’altro che pedante, l’autore si dà a una descrizione puntigliosa delle opere che nei dettagli non ne cerca mai il vero dell’esperienza diretta. Questo spiega perché tra le parole più inflazionate del libro figuri “fantasma” – quegli ectoplasmi che sanno esigere ed ottenere “una partecipazione autentica”. L’insistito richiamo di Manganelli è alla realtà che “non esiste”: non certo la presa d’atto della fatuità della vita o dell’inesattezza dell’esperienza umana, bensì l’invito a “un commercio esatto con l’errore”, che inneschi un esercizio di diserzione fantastica – sapersi creare da sé qualcosa che sappia sempre tradire il suo modello.   

Insomma, l’effetto della scrittura di Manganelli rimane quello poco rassicurante dello straniamento, con una fedeltà a quanto descritto che è a un tempo minima e massima. Minima, perché il détour cui obbliga il lettore ha un’attinenza tanto scarsa con l’opera d’arte da farlo trovare altrove. Massima, perché – ha ragione Manganelli – in questo ritrovarsi altrove, in fondo, sta la natura più profonda dell’opera d’arte. Così, per descrivere le mascotte che artisti come François-Victor Bazin e René Lalique dedicano all’automobile, di questa fa un oggetto magico assai simile alla barca dei faraoni e magnifica la qualità mitica del “tecnico del traffico”, il vigile, che “di fronte alla macchina è San Giorgio con il drago, è Sigfrido, è Teseo”. Oppure, mentre illustra gli effetti della mostra viennese sul manierismo, d’improvviso vira sul gatto, sulla sua “danzante ambiguità del felino, i suoi occhi stupefatti e orrorosi, la callida pigrizia”, per concludere che, sì, il gatto, quella “tigre tascabile”, “è un trionfo di manierismo”. E il gatto si fa poi simbolo che incarna l’universo non di Satana, “perché Satana è, bisogna pur dirlo, un fallito, sia pure un fallito numinoso”, ma di Arimane, che nella religione fondata sugli insegnamenti di Zoroastro incarna lo spirito del male: “Dio negativo, ma di grande dignità. Molto cerimonioso”. Proprio l’amore per il lambicco, la piega barocca, la cerimonia quasi fine a sé stessa sta l’elemento che per Manganelli accomuna il manierismo, il gatto e il malvagio spirito dello zoroastrismo, e che risalta fulgido nel quadro più rappresentativo della mostra, l’Autoritratto nello specchio del Parmigianino: “Non v’è traccia di accumulo oggettuale; ma vi trionfa l’eccesso, la maestria tecnica esibita con una stupenda impudicizia, il ‘saper fare’ come culmine di un maneggio di fantasmi”. 
Eccesso, tradimento del vero oggettuale, spiriti imprigionati in uno straniamento che non cede mai al sogno – perché quest’ultimo è sempre troppo ingombro di una smania illusionistica, in cui l’esperienza viene lasciata andare in un risveglio incline a subitanea cancellazione. Il piano su cui s’intrattiene Manganelli è quello di una realtà che si discosta dal reale nella misura in cui deve poter contiene tutto e il suo contrario. Questa il motivo della sua passione per il manierismo, che riflette più d’ogni altra sensibilità artistica e letteraria quel “decoro del deforme, la squisitezza dello stravagante, in breve la beltà del brutto; assai più ardua che non la scolastica grazia dell’armonia delle parti”, tanto lodata in Dall’inferno (Adelphi 1985). La realtà che vive dei suoi scritti è quella coincidenza degli opposti che ritrova nei quadri di Giacomo Ceruti, detto il Pitocchetto per la persistita esaltazione di reietti e vagabondi (appunto quei pitocchi cui mancava ogni mezzo per assicurarsi la dignità di una vita meno scomoda). Con mano sapiente e sapida, Ceruti ricerca “il deforme, fin sulla soglia, ma mai oltre, del mostruoso”. Proprio come Manganelli, Ceruti è a caccia di fantasmi, l’“immagine che esiste grazie all’occultamento” ed è in questa sorta di divinazione che risalta il suo sforzo descrittivo, che si fa opera d’arte sull’opera d’arte. Sull’opera descritta, Manganelli innesta quella stessa libertà descrittiva che brilla nei vagabondi del Pitocchetto, figli di un’anarchia linguistica e morale che non conosce indirizzi sistematici e mai rispetta i protocolli.

Questa allora è la stilla della rivoluzione di cui andavo parlando poco sopra. Manganelli non vanta la prossimità con specialismi, e anzi ne ricusa bellezza e necessità. Al contempo, non si attarda in contemplazioni comode, che potrebbero dar l’idea di essere esperti, lui come noi tutti. Ci si inespertisce, egli sembra suggerire, con la parola che frange contro oggetti per descrivere i quali non si padroneggiano confortanti linguaggi tecnici, e che quindi richiede uno sforzo soprannaturale – superiore almeno alle naturali capacità del non-critico, nel non-tecnico. Tutto l’opposto di quanto si mette a valore oggi nel discorso culturale (e ancor più politico), secondo l’idea per cui ci s’improvvisa, sì, ma senza fatica, in un gioco di specchi che perlopiù risponde al disperato bisogno di un riconoscimento sociale comodo, generalizzato e, ove possibile, di successo. Nessun successo attende invece Manganelli, che va predicando una rivoluzione faticosa, individuale, mai sufficientemente social.  Come la berninesca Estasi di santa Teresa d’Avila, nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria, oggetto “elusivo, inquietante, insieme disagevole ed inafferrabile”. Nel volto di Santa Teresa “dimora la morte, ma non è letale; essa ha solo il compito di ‘uccidere’ il volto: cioè di lasciarlo identico ad un volto umano, e tuttavia togliergli ogni qualità antropomorfica”. 

Tema, questo, che ritorna in molte pagine manganelliane sotto forma di “perdita dell’io” – una perdita che si ottiene attraverso la ritualità manierista del gesto cerimoniale. E proprio in questa cerimonialità ostinata si trova la chiave dei barocchismi di Manganelli: la ridda di aggettivi insoliti e avverbi arrischiati che abitano la sua scrittura non è che una sequela di gesti ripetuti che, una volta ripetuti, sono un po’ diversi gli uni dagli altri e arricchiscono così il nostro repertorio degli oggetti. Ogni aggettivo e ogni avverbio, pur nella prossimità dell’uno all’altro, esprime qualcosa di diverso, inatteso, inanticipabile. Il che è a dire, se si vuol semplificare, che la lingua non si può semplificare. E anzi risulta tanto più carica di energia vitale quanto più la si avvicina ai suoi limiti espressivi. No: per Manganelli e per la sua rivoluzione forse non c’è alcun futuro nel nostro presente. Sicché sarà meglio, nel parere di chi scrive, trovare riparo nel suo linguaggio, che, come ogni linguaggio – si dice in Letteratura come menzogna (Adelphi 2004) – “non serve a conoscere una eventuale realtà, ma a sfiorarla, a ‘non vederla’ – pur sapendo esattamente dove si trova, anzi presupponendo appunto che questo si sappia in modo indubitabile, e calcolando i modi dell’elusione su codesta distanza”.

 

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