Roma Capoccia

In territorio ostile, la Roma di Giorgio Manganelli. Un libro

Andrea Venanzoni

Nella Capitale lo scrittore si è trasferito negli anni Cinquanta. Un rapporto, quello con la città, denso di una stratificata, dolorosa vertigine. Poi l'incontro con la figlia, raccontato dalla stessa Lietta Manganelli

"Scusi, lei è il professor Manganelli? Allora io sono sua figlia”. Potrebbe apparire un calembour romanzesco, ed invece è un reale episodio storico-biografico. Avvenuto a Roma. 
Siamo nel 1964 e alla porta dell’abitazione di Giorgio Manganelli suona Lietta, sua figlia. Non si sono visti dalla nascita della giovane, persi in una deriva che ora Roma, temporaneamente, riconduce a ragione, come ricorda la stessa Lietta nel volume “Giorgio Manganelli. Aspettando che l’inferno cominci a funzionare” (La nave di Teseo).
E come se non bastasse la mitografica potenza espressiva di un incontro così intenso e surreale, ecco presentarsi, nella stessa abitazione, nello stesso giorno, Carlo Emilio Gadda che sorprende padre e figlia intenti a riconciliarsi dopo tanto silenzio e dopo tanta assenza: lo scrittore non è in visita di piacere, perché teme che il romanzo manganelliano “Hilarotragoedia” possa essere una cinica parodizzazione del gaddiano “La cognizione del dolore”. Ne nasce una furiosa lite, che vedrà Manganelli chiudere sul terrazzino la figlia per non farla assistere all’episodio.

 

A Roma Giorgio Manganelli si è trasferito negli anni Cinquanta, iniziando una via crucis di traslochi tra appartamenti e quartieri. Lavora in Rai, insegna inglese, si occupa di cultura collaborando con Eco, Ceronetti, Arbasino, Calvino e diviene paziente, come Cristina Campo, dello psichiatra junghiano Ernst Bernhard.

 

Il rapporto tra Roma e Manganelli è da subito conflittuale, irrisolto. Denso di una stratificata, dolorosa vertigine. Persino il pendolarismo insensato sui bus, da capolinea a capolinea, lo sottolinea Patrizia Carrano nel delizioso volumetto ‘Un ossimoro in lambretta – labirinti segreti di Giorgio Manganelli’ (Italo Svevo editore), non pacifica un profondo senso di ostilità e di estraneità alla sensibilità dello scrittore degli appartamenti dentro cui vive nella Capitale.

 

E forse, proprio nel caos della Città eterna Manganelli scorge i lineamenti gelidi, intrisi di ghiaccio e silenzio, dell’inferno, visto come un labirinto che tutto avvolge e tutto imprigiona. Inferno e labirinto che saranno centrali nella riflessione manganelliana.

 

Ne “La palude definitiva”, Manganelli osserva “ogni strada è una strada, ma è anche una allucinazione, una strada verso un obiettivo, così pare, ma poiché l’obiettivo, quale sia, non è mai conseguito, eccetto che nel caso in cui si tratti di una ulteriore strada, è possibile che ogni strada sia un inganno”.

 

Sembra quasi di sentire la eco ombrosa delle vie irradiate dall’ultimo domicilio di Manganelli, nel quartiere Vittoria, a via Antonio Chinotto, non lontano dalle immote sponde del Tevere, nella eleganza di un quartiere da sempre istituzionale, ricco e impenetrabile.

 

Manganelli a Roma fu spirito inquieto e irrequieto. Cambiò diverse volte abitazione e quartiere, con una marcata predilezione per il quadrante occidentale di Roma Nord. 
Visse a via Gran Sasso, in zona Montesacro, a via Germanico, in Prati, a via Monte del Gallo, a pochi passi da via Gregorio VII, a via delle Coppelle, in pieno Centro storico e a via Senafè, nel quartiere Africano, proprio a ridosso di Villa Leopardi.

 

La Roma di Manganelli, fotofobico e appartato, era una Roma di ellissi, di chiaroscuri, legata a un insondabile appetito per la invisibilità che nutriva il grande intellettuale e che lo aveva portato a insegnare negli istituti tecnici capitolini, proprio per starsene ai margini, lontano dai riflettori.

 

Nel bellissimo necrologio vergato da Pietro Citati, dopo la morte di Manganelli avvenuta il 28 maggio 1990, l’autore di “Concupiscenza libraria” appare come una figura dai tratti animali. “Aveva sempre saputo che uno scrittore, se vuole discendere nell’immensa zona desolata, dove si annidano le ombre dell’inconscio e dell’essere, deve diventare animale”. 
D’altronde proprio un accadimento occorso a Roma, prisma esoterico capace di innescare scintille abissali ed evocazioni notturne, fece esclamare a Manganelli, “su un’immagine di labirinto che è stata trovata a Roma su un sarcofago, stava scritto in greco: ‘Ho imparato che la via diritta è il labirinto’. Credo non vi sia nulla da aggiungere.”

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