Robert Caro alla Authors Night 2017 della The East Hampton Library, New York. (Eugene Gologursky/Getty Images) 

Le lunghe vite degli altri. L'impresa di Robert Caro, biografo del potere in America

Marco Bardazzi

In un’èra digitale e frenetica, l’anziano giornalista non ha mollato di un millimetro il metodo della verifica incessante di ogni dettaglio. Scrive di Lyndon B. Johnson dal ’74, chissà se arriverà alla fine

Richiede più tempo vivere una vita o raccontarla? Dipende dal biografo. Se è Robert Caro, uno dei più celebri giornalisti d’America, l’inventore di un metodo di racconto biografico unico al mondo, allora occorre gran parte della vita per raccontarne un’altra. Prendete il caso di Lyndon B. Johnson, o LBJ come lo chiamano sbrigativamente gli americani. E’ stato il trentaseiesimo presidente degli Stati Uniti ed è vissuto 65 anni, di cui 37 di attività politica. Caro, all’epoca già premiato con il Pulitzer, ha cominciato a lavorare alla biografia dell’ex presidente nel 1974, un anno dopo la sua morte. A quasi cinquant’anni di distanza, non ha ancora finito. Ha pubblicato quattro dei previsti cinque volumi del monumentale racconto dell’esistenza di LBJ (vincendo un secondo Pulitzer), sta lavorando all’ultimo da undici anni e non si sa quando lo completerà. Se lo completerà. Perché non solo c’è il problema degli anni che passano - Robert Caro ne ha ormai ottantasette -, ma anche dei compagni di cammino che scompaiono. 

  

Pubblicati quattro dei cinque volumi previsti su LBJ, ma anche i compagni di lavoro scompaiono: l’editor Robert Gottlieb, un sodalizio celebre

  
Per mezzo secolo Caro aveva lavorato con il più celebre editor di Manhattan, Robert Gottlieb, litigando per decenni sui tagli da fare e sulla punteggiatura, in un sodalizio diventato celebre anche per il riserbo che circondava il loro lavoro insieme. Avevano accettato di parlarne solo di recente, in uno straordinario documentario realizzato dalla nipote di Gottlieb, “Turn Every Page”. Si erano fatti anche riprendere fianco a fianco in un momento di lavoro, ma solo a condizione con non venisse registrato l’audio dei loro confronti segreti autore-editor. Gottlieb però è morto lo scorso 14 giugno a New York, a 92 anni, lasciandosi alle spalle necrologi sterminati, lutto nell’intero mondo editoriale americano, una lista impressionante di nomi di autori di cui era stato l’editor: John Le Carré e Toni Morrison, Michael Crichton e Ray Bradbury, Chaim Potok e Bill Clinton. Di Gottlieb è stato ricordato il periodo in cui è stato direttore del New Yorker e il colpo di genio con cui inventò il fortunato titolo “Catch-22” (Comma 22) che segnò il successo del libro di Joseph Heller. Ma una delle circostanze più citate in occasione della sua morte, è che ha lasciato un lavoro ancora incompiuto sull’ultimo libro di Robert Caro. 

    
Comunque si concluda l’epopea di scrittura della biografia di LBJ, Caro ha già segnato un’epoca. E Gottlieb insieme a lui. In un’era digitale e frenetica, caratterizzata da informazione da consumare in fretta, fake news e scrittura con l’intelligenza artificiale, l’anziano giornalista non ha mollato di un millimetro il metodo della verifica incessante di ogni dettaglio, della caccia all’intervista a ogni testimone, della cura di ogni aspetto di cui scrivere e dell’attenzione a “sfogliare ogni pagina” (turn every page) in tutti gli archivi disponibili. Come aveva imparato da giovane da un caporedattore del giornale newyorchese Newsday, che lo aveva messo per la prima volta a fare il reporter investigativo. Così facendo, ha fatto e continuerà a fare scuola a intere generazioni di giornalisti, storici e biografi, soprattutto quelli alle prese con il tema che è stato al centro di tutta la vita professionale di Caro: il potere e i potenti. Come raccontare cioè una storia che non sia vittima né della “narrativa” - come si dice oggi - di chi detiene il potere, né della fretta, né della resa alla mentalità comune, che finisca per dare per scontate cose che invece richiedono analisi critica. 


Non è un caso che l’ossessione per la verifica e per una scrittura fatta bene, con cura e con il tempo che serve, sia descritta nel giornalismo americano con un neologismo: “Caro-esque”, cioè qualcosa nello stile di Robert A. Caro. Perché oltre ai suoi libri, da molti anni è anche il suo metodo a intrigare e a creare emulazione. L’ammirazione per Caro è diventata culto soprattutto dopo l’uscita nel 2019 di “Writing”, una sorta di breve autobiografia professionale nella quale raccontava i retroscena del suo lavoro (un libro che, come tutti quelli di Caro, non è mai stato pubblicato in Italia, ma lo meriterebbe).  


Tutto è cominciato con Robert Moses. Il giovane Caro, ancora reporter di Newsday, negli anni Sessanta si trovò a scrivere articoli su Moses, che da quarant’anni era l’uomo che disegnava New York. Nella sua veste di “commissioner” del dipartimento parchi della città, un ruolo in apparenza solo da burocrate, Moses nel ventesimo secolo è stato il vero protagonista della trasformazione di New York, costruendo strade, ponti e autostrade, abbattendo interi quartieri, cambiando la mappa della città e di tutti i sobborghi fino a Long Island. Ciò che colpì Caro fu il fatto che un uomo senza una carica elettiva e con un incarico apparentemente secondario, fosse in realtà uno degli uomini più potenti e meno raccontati d’America. 


L’ossessione per capire il fenomeno Moses assorbì totalmente Caro, che si mise a indagare a tempo pieno su di lui e il suo mondo, lasciando anche il lavoro a Newsday per scrivere la biografia del grande burocrate. Quello che doveva essere un progetto di nove mesi divenne un’impresa durata sette anni, per la testardaggine di Caro di non dare niente per scontato. Continuava, per esempio, a leggere articoli e documenti nei quali si citava il fatto che la costruzione delle grandi strade soprelevate volute da Moses avesse spesso “sconvolto la vita dei quartieri che ne venivano attraversati”. Era una generalizzazione inaccettabile per Caro: che significa “sconvolto”? Quante vite? In che modo? Decise di approfondire con un approccio empirico. 


Individuò un tratto di un miglio (1,8 chilometri) della Cross-Bronx Expressway che attraversava il quartiere newyorchese di East Tremont e per mesi e mesi andò a cercare uno ad uno le persone e i negozianti che abitavano la zona e che erano stati sloggiati dalla superstrada. Raccolse tutte le storie e scrisse un memorabile capitolo della biografia di Moses, che documentava per la prima volta, attraverso le vite delle persone, quale fosse l’impatto umano delle infrastrutture che rendevano moderna la città. Poi intervistò Moses (sette volte) e tutti quelli che avevano lavorato con lui, le autorità cittadine, i politici. Un totale di 522 interviste che servirono a tracciare un affresco enorme non solo su Moses, ma più in generale su quali siano i meccanismi del potere di chi amministra una città. Il risultato fu “The Power Broker”, il libro del 1974 che gli valse il primo Pulitzer e che lasciò un segno profondo in America, perché portava alla luce dinamiche del potere non solo newyorchesi, ma che valevano a livello nazionale. 


Fu anche l’inizio della collaborazione con Gottlieb, incaricato dall’editore Alfred A. Knopf (che da allora è la pazientissima casa editrice delle opere di Caro) di fare il lavoro di editing. Fu l’incontro tra due maniaci della perfezione. Gottlieb alla fine tagliò un terzo delle pagine scritte da Caro e nonostante questo “The Power Broker” uscì come volume di 1.200 pagine. 


Insieme a Gottlieb, l’altra complice delle avventure di Caro è sempre stata la moglie Ina. Mentre il marito era impegnato a indagare su Moses, senza portare a casa per sette anni uno stipendio, era stata lei a tenere in piedi la famiglia vendendo anche la casa – all’insaputa del marito – per permettergli di completare l’opera. “Quando uscì un’anteprima del libro sul New Yorker - ha raccontato Caro - e mi arrivarono i primi soldi, Ina mi disse serenamente: ‘Bene, adesso posso ricominciare ad andare in lavanderia’. Solo allora ho capito cosa avesse passato in quegli anni”.  

 

Johnson resta uno dei presidenti più discussi del XX secolo: le leggi storiche sui diritti civili e sul welfare, ma anche il disastro in Vietnam

  
LBJ fu l’obiettivo successivo su cui si concentrò Caro. L’idea era sempre quella: documentare i meccanismi del potere in America, stavolta puntando a una figura nazionale. Il personaggio era perfetto, perché Johnson resta uno dei presidenti più complessi e discussi del ventesimo secolo. Subentrato a John F. Kennedy dopo l’assassinio di Dallas e poi eletto con una valanga di voti, è stato il presidente delle leggi storiche sui diritti civili, quello che più apertamente ha sfidato e messo fine alla segregazione razziale nel sud, quello che più si è spinto sul terreno dei grandi programmi di welfare americani. Ma fu anche il presidente del definitivo impantanamento degli Usa nella guerra del Vietnam e quello sulle cui spalle ricadono buona parte dei 58 mila soldati americani morti nel conflitto. Non c’è forse figura storica negli Usa del ventesimo secolo che racchiuda tutte le complessità di LBJ, grande riformatore e grande responsabile di una guerra fallimentare. Un soggetto ideale per il “metodo Caro”.


Due misteri in particolare accompagnano da decenni la figura di LBJ. Il primo è come abbia fatto a conquistare il suo potere in Texas, ascendendo velocemente dalla politica locale a un posto di senatore a Washington. Il secondo è quali siano le ragioni profonde che spinsero Johnson nel 1968 a rinunciare a correre per un secondo mandato, spianando la strada alla vittoria del repubblicano Richard Nixon. 


Il quinto e ultimo volume a cui sta lavorando Caro dovrebbe sollevare un velo definitivo sulle vicende del 1968. La versione comune è che Johnson si sia accorto dopo le primarie in New Hampshire di quanto fosse debole la sua candidatura. Quando poi era sceso in campo contro di lui anche Robert Kennedy (che poco dopo fu assassinato), LBJ capì che non ce la poteva fare a ottenere la nomination democratica e decise di rinunciare. Ma Caro è celebre per la pazienza con cui passa al setaccio le versioni ufficiali, andando a cercare ogni più piccolo documento e ogni testimone che aiuti a ricostruire cosa è accaduto. Non è escluso dunque che il volume finale, se mai vedrà la luce, contenga qualche importante rivelazione.


Qualcosa di analogo a quello che era successo con il secondo volume, quando Caro aveva risolto il mistero dell’elezione del 1948 in Texas che aveva visto Johnson vincere per soli 87 voti contro il candidato rivale e conquistare un posto in Senato a Washington. Da decenni circolavano voci di un broglio di LBJ, legato in particolare a una cassa di voti, la Ballot Box 13, misteriosamente scomparsa. Caro ci ha lavorato per anni e alla fine ha rintracciato in Messico, in una casa mobile, l’uomo che aveva nascosto quella cassa per conto di Johnson, che a 84 anni gli ha raccontato tutta la verità: sì, il presidente delle grandi riforme, l’uomo che aveva messo fine alla segregazione razziale, aveva vinto barando le elezioni che avevano segnato il suo decollo politico. 


Per arrivare a mettere tutto nero su bianco nei suoi libri, Caro impiega anni perché il metodo ormai mitologico non prevede sconti. Quando si presentò la prima volta alla biblioteca presidenziale che raccoglieva tutte le carte di Johnson, gli spiegarono che la documentazione consisteva in 40 mila scatole da circa 800 documenti l’una, per un totale di 32 milioni di fogli da esaminare. Senza scoraggiarsi, Caro e sua moglie Ina da allora li hanno sfogliati uno per uno, più volte, prendendo appunti a mano su block notes. Il metodo prevede poi che Caro cominci a buttare giù i propri testi a mano, riscrivendoli in tre successive versioni. Quando arriva il momento della quarta e ultima versione, si siede alla macchina per scrivere elettrica, rigorosamente una Smith-Corona Electra 210: ne ha una decina, sono tutti cimeli fuori produzione da anni e ci sono piccole aziende artigiane che ormai realizzano solo per lui i nastri inchiostrati necessari per farle funzionare. 

  

Caro si trasferì con la moglie in Texas per tre anni, per capire com’era la vita rurale al tempo del giovane Johnson. Una ricerca maniacale

  
Ma la scrittura è il momento finale di un percorso che dura anni e sul quale fioriscono aneddoti che fanno parte della mitologia “Caro-esque”. Come quando, all’inizio del lavoro su Johnson, si rese conto che non era corretto per un newyorchese come lui presumere di poter scrivere sulla vita rurale del Texas degli anni Trenta o Quaranta stando comodamente a Manhattan. Per questo si trasferì con Ina per tre anni a vivere nel Texas più rurale e per tutto il tempo girò di contea in contea a farsi raccontare dagli anziani del posto com’era la vita ai tempi del giovane Johnson. Serviva per capire come era riuscito quel ragazzo a conquistare migliaia di voti (brogli a parte) semplicemente facendo arrivare l’energia elettrica o le tubature d’acqua ad alcuni distretti rurali. 


Un giorno glielo spiegò una vecchietta della zona. “Sei un ragazzo di città. Che ne sai di quanto era pesante un secchio d’acqua?”. Johnson aveva risolto il problema dell’acqua per quella donna, lei lo votava per questo e Caro, per immedesimarsi, fece ricerche al ministero dell’Agricoltura e stabilì che negli anni Quaranta ogni persona in quella zona aveva bisogno ogni giorno di 40 galloni d’acqua (circa 150 litri) per bere, lavarsi, cucinare, fare il bucato. Andavano trasportati da pozzi e ruscelli con pesanti secchi che le donne del Texas trasportavano con una specie di giogo da bestiame. 


Provò a svolgere quell’attività per un po’ di giorni e finalmente capì perché le donne in massa avevano votato per Johnson, il giovane deputato dello Stato che le aveva liberate dal giogo.

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