Ben venga il Majakovskij d’amore. Ben venga lo stridore dei timbri, il triviale e il sublime nella stessa lingua – quella mossa, ardente, imperiosamente sghemba del poeta. E ben vengano le gomitate, quelle con cui, obbedienti mentre ci gustiamo questa antologia einaudiana (Poesie d’amore 1913-1930, testo a fronte, cura di Paola Ferretti, 170 pp., 14,50 euro), potremo finalmente farci largo – così ci ha istruito Angelo Maria Ripellino che lo diceva cinquant’anni fa (essere sordi ai maestri è o no un peccato mortale?) – “tra le turbe di glossatori saccenti che continuano a impoverire questo grande poeta d’amore, confinandolo alla sola dimensione politica”. Immagine che i nemici hanno spesso deturpato senza tante cortesie. Bunin, per esempio. Nei suoi Giorni maledetti, diario dell’odiata rivoluzione, racconta un Majakovskij definito poeta solo tra virgolette. “Quella sera si era radunato il fiore dell’intelligenza russa” – scriveva Bunin – “e tra tutti trionfò lui, Majakovskij. Senza che lo avessimo invitato si avvicinò, infilò una sedia tra noi e si mise a mangiare dai nostri piatti e a bere dai nostri calici, la bocca grande come un trogolo. Il ministro degli Esteri Miljukov si alzò per il brindisi ufficiale e Majakovskj si precipitò verso di lui, al centro della tavola. Quindi balzò su una sedia e cominciò a berciare in modo così osceno che il ministro restò di stucco”.
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