Quentin Metsys, Il cambiavalute (Le Prêteur et sa femme), 1514, olio su tavola, 70 x 67 cm. Parigi, Musée du Louvre 

Dalla Germania di Hitler a Keynes, dalla Turchia alla Russia: la diplomazia dei denari

Siegmund Ginzberg

Potranno i banchieri e la razionalità economica evitare la Terza guerra mondiale? Tentativi e precedenti storici

Quando le cose si fanno complicate mi capita di frugare nel passato per scovare brandelli che aiutino a riflettere sull’attualità. Talvolta sono miniere. E’ il caso degli anni 30, su cui nel 2019 Feltrinelli pubblicò un libro che continua ad essere citato da Papa Francesco. Le analogie gli sono rimaste impresse. Si intitola Sindrome 1933. Il 1933 è l’anno in cui divenne cancelliere Hitler. Trattava di come si può distruggere una democrazia facendosi eleggere democraticamente. La Germania di Weimar era la democrazia più avanzata in Europa, aveva la Costituzione per quei tempi più bella al mondo. Hitler, a differenza del fascismo in Italia, non era arrivato al potere con un colpo di stato ma grazie a una solida, sebbene minoritaria, affermazione elettorale del suo partito. E, soprattutto grazie all’insipienza politica dei suoi avversari, che avevano tutti insieme una maggioranza elettorale anche superiore a quella che portò i nazionalsocialisti al governo, ma continuavano a battibeccare tra loro mentre la casa andava a fuoco. La legge sui pieni poteri e la fusione improvvisa, alla morte del presidente von Hindenburg, di cancellierato e presidenza della Repubblica nella stessa persona, Hitler, fecero il resto.


Dice Papa Bergoglio che già “stiamo vivendo una terza guerra mondiale a pezzetti”. Tutti speriamo che si sbagli. Ma se si va a vedere l’ultima monumentale fatica dello storico britannico Richard Overy, Sangue e rovine. La Grande guerra imperiale, 1931-1945, (attenti alle date!), Einaudi 2022, 1.360 pagine, l’affermazione potrebbe non essere così iperbolica. Molti si stanno dando da fare per scongiurarlo. Una via non inesplorata ma meno conosciuta è il dialogo tra i grandi custodi del denaro. Che ci riescano è un altro paio di maniche. Ci avevano già provato negli anni 30. E quella volta non ci erano riusciti. Il sentiero tra pace e guerra, tra pacifismo e appeasement dell’aggressione, tra diplomazia e cedimento è strettissimo e scivoloso. 

 

Schacht, banchiere centrale della Germania nazista, e Norman,  governatore della Bank of England, erano amici, si corrispondevano

 
Negli anni 20 e 30, a cavallo della grande crisi che travolse banche, pace mondiale e democrazie, c’era un dialogo costante, un gran via vai di banchieri centrali ed economisti tra le capitali europee e l’America. “Quelli erano gli anni nei quali i grandi uomini d’affari e nella fattispecie i pilastri del genio bancario potevano suggerire con le loro strategie economiche e finanziarie le relative scelte politiche e diplomatiche di un determinato governo. Del resto l’economia conosce strade che spesso la politica non identifica o finge di ignorare, fino a generare una paradossale formazione di mondi paralleli”. Così la conclusione di uno studio di Fabio Casini su Schacht e Norman. Politica e finanza negli anni tra le due guerre mondiali (Rubbettino 2018). Hjalmar Schacht fu il banchiere centrale della Germania nazista. Finì sotto processo a Norimberga per aver finanziato la guerra di Hitler. Si difese facendo notare che nel 1938 aveva rotto con Hitler e per questo era stato mandato in campo di concentramento (e in subordine, più pelosamente, si difese dicendo che aveva protetto degli ebrei, rivelatisi poi “ingrati”). Montagu Norman fu governatore della Bank of England dal 1920 al 1944. Erano amici, si corrispondevano, attraversavano frequentemente la Manica, e poi l’Atlantico per conferire con il presidente americano Franklin Delano Roosevelt e il suo segretario al Tesoro, Hans Morgenthau, ebreo e bestia nera dei nazisti.
Morgenthau e Roosevelt erano amici, si frequentavano assieme alle rispettive consorti sin da quando erano vicini di campagna Upstate New York. Morgenthau era stato tra gli ispiratori del New Deal. Sosteneva con convinzione le guerre contro i giapponesi e Hitler, l’alleanza con Mosca senza la quale non si sarebbe potuto vincerle, proponeva la spartizione della Germania dopo la guerra in tanti staterelli agricoli. Sarebbe stato poi accusato di avere “perso la Cina” favorendo Mao col negare l’oro al governo corrotto di Chiang Kai-shek. Si fece nemica la grande finanza. C’erano scontri durissimi per l’ascolto del presidente, tra lui e le altre “anime” dell’amministrazione Roosevelt, il Dipartimento alla guerra (non si chiamava ancora Difesa) e il Dipartimento di stato.

  

John Maynard Keynes litigava e al tempo stesso cercava il dialogo con tutti. Gli si rimproverò anche un tentativo di “appeasement”

  
Un altro frequente viaggiatore tra le due sponde dell’Atlantico, e frequentatore di Downing Street e della Casa Bianca, era John Maynard Keynes. Un esperto di Keynes in Italia è Giorgio La Malfa, che dopo aver curato per i Meridiani Mondadori una corposa raccolta di scritti di Keynes, gli ha più recentemente dedicato un assai più agile Keynes l’eretico. Vita e opere del grande economista che ha cambiato l’Occidente (Mondadori Oscar 2022). Keynes litigava e al tempo stesso cercava il dialogo con tutti. Gli sarebbe stato rimproverato di aver tentato, nella prefazione all’edizione tedesca del 1936 della sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, una specie di appeasement col neonato regime nazista. Aveva scritto che le teorie da lui esposte pur “facendo riferimento a condizioni esistenti nei paesi anglosassoni” potevano “adattarsi ancor più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario”. Si era lasciato prendere la mano, forse per ragioni di marketing. Poi si corresse, espurgò quella prefazione dalle edizioni successive. Parlò di “barbarie” a proposito del nazismo. E aggiunse: “Se poi mi si dice che questi eventi [le persecuzioni in Germania] hanno avuto luogo in quanto espressione della volontà generale […] allora ai nostri occhi le persecuzioni e gli oltraggi di cui sentiamo […] sono dieci volte più orribili”. L’economista Joan Robinson fu pungente, al peperoncino: “Hitler aveva già trovato il modo di curare la disoccupazione prima che Keynes finisse di spiegare perché si verificava”. 


Ma veniamo all’attualità. Nel momento di accumulo di tensioni tra la Cina e gli Stati Uniti, una donna, un’economista, Janet Yellen, già presidente della Federal Reserve, ora segretaria al Tesoro di Biden, ha offerto un ramoscello d’ulivo a Xi Jinping. Parlando il 20 aprile alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies, ha rassicurato la Cina che l’amministrazione Biden non vuole il decoupling, lo scollamento economico tra Cina e l’America. Perché sarebbe “disastroso per entrambe le economie”. E si è detta pronta ad andare in Cina non appena Xi avrà nominato le sue controparti. Era un segnale non da poco. Più concreto che dire genericamente che gli Stati Uniti non vogliono una guerra con la Cina. La “linea” sino a quel momento era, nelle parole di un altro esponente dell’amministrazione Biden, il segretario di Stato Blinken, che la Cina è “la più grave minaccia all’ordine mondiale”. Come all’epoca di Roosevelt ci sono pareri e lotte al coltello tra le diverse anime. La posizione della Yellen è probabilmente minoritaria. Ma è impossibile che sia un’uscita estemporanea, che non abbia avuto l’approvazione di Biden. I governatori della banche centrali hanno l’abitudine di pesare le parole. Una di troppo o una di meno possono avere effetti a valanga. E’ evidente che si voleva segnalare una svolta. Da notare che il piatto della bilancia sembra pendere dalla parte delle colombe proprio nel momento in cui Biden annunciava la propria ricandidatura alle presidenziali del 2024. 


Un’altra donna le cui parole vanno pesate è Ursula von der Leyen. Non è proprio economista di formazione, ha studiato alla London School of Economics, ma si era laureata in legge. E’ stata ministro della Difesa della Merkel. Ora è a capo del governo europeo. E’ andata in Cina a dire a Xi che l’Europa non è per il decoupling, semmai è per il derisking, cioè per ridurre i rischi di una rotta di collisione tra la Cina e l’occidente. Dico occidente, perché è self-evident che l’Europa non potrebbe starsene a guardare, restarsene fuori da uno scontro tra Usa e Cina. Così come non poteva stare, e non è stata in disparte dallo scontro in Ucraina. L’Europa ha avuto la sua da dire, se l’è cavata mica male, come forse mai prima d’ora, su gestione solidale della pandemia, sostegno alla crescita, emergenza gas dalla Russia, futuro energetico e ambientale. Ma non si sa se nel 2024 ci sarà ancora una maggioranza Ursula.


Non si ha ancora la risposta della Cina. Il fatto che la Yellen dica di attendere che Xi nomini la sua controparte la dice lunga. Il governatore della Banca centrale cinese, Yi Gang, è stato riconfermato a sorpresa nell’incarico. Quando tutti si aspettavano invece che venisse sostituito, penalizzando l’expertise economica rispetto alla fedeltà personale a Xi, come dopo il Congresso del Pcc era successo ad altri addetti ai lavori in economia. Cosa può aver spinto il padrone assoluto della Cina a concludere che con la moneta non si scherza? A Pechino ci sono linee discordanti. Quanto e forse più che a Washington. Solo che non si viene a sapere. Un giorno sembra che Xi si sia finalmente deciso a fare l’uomo della pace nel conflitto in Ucraina. Un altro giorno si sentono dichiarazioni da parte dei giovani “lupi guerrieri” della diplomazia cinese in Europa, tipo quella per cui i Paesi baltici non avrebbero status giuridico per la loro indipendenza, o che la Crimea sarebbe Russia e non Ucraina, esattamente come Taiwan sarebbe Cina. Una delle due: o a Pechino non hanno ancora deciso, ci sono – come del resto in America – scuole contrapposte, oppure sono in ritardo nel comunicare ai loro diplomatici che la Cina non intende scontrarsi con l’occidente.   

 

Gli avvertimenti di Elvira Nabiullina, governatrice della Banca centrale russa, e la sua capacità di spuntare le sanzioni

 
Una terza donna da seguire con attenzione è l’economista Elvira Nabiullina, governatrice della Banca centrale russa. Si è distinta da tutti gli altri dell’entourage di Putin per aver avuto il coraggio di dire chiaro e tondo che la guerra in Ucraina rischia di rovinare irreparabilmente l’economia del paese. E’ l’unica che non ha plaudito all’“operazione speciale” e non si è unita all’orgia di nazionalismo per farsi bella agli occhi del suo capo. E’ l’unica che ha continuato a dare numeri attendibili, dati trasparenti sulle magagne anziché propagandare successi inesistenti. Lo ha fatto a suo rischio e pericolo. Anzi ha dato le dimissioni. Putin le ha respinte. E lei è rimasta al suo posto, dandosi da fare per salvare il rublo. E’ stata dichiarata persona non grata negli Stati uniti, la si accusa di aver finanziato il sogno imperiale e la guerra di Putin. Non è detto che Putin la ringrazi. A fine aprile è stato trasmessa dalla tv di Stato russa un video in cui una coppia di comici russi non nuovi a burle del genere, Vladimir Kuznetsov e Alexej Stolyarov, fingendo di essere il presidente ucraino Zelensky, conversano al telefono con l’attuale presidente della Fed, e successore della Yellen, Jerome Powell. Gli fanno dire, tra l’altro, che la sua omologa russa Nabiullina si è dimostrata eccezionalmente capace di pilotare l’economia russa in mezzo alle sanzioni occidentali, spuntandole.

 

In Turchia, Kiliçdaroglu potrebbe battere Erdogan: gli avversari puntano sull’impopolarità degli economisti come lui

  
Anche in Turchia la grande novità vede protagonista un economista. Ha una vaga somiglianza con l’apostolo della non violenza Gandhi. Si chiama Kemal Kiliçdaroglu. Attenzione a quel che succede alle elezioni del 14 maggio.  Secondo i sondaggi della vigilia la coalizione che si è raccolta attorno al suo nome aveva i numeri per scalzare, per la prima volta da vent’anni a questa parte, il sultano Erdogan e il suo Akp, il partito islamico “della Giustizia e dello Sviluppo”. Kiliçdaroglu si presenta come “servitore dello Stato”. Faceva il funzionario del fisco. Negli anni 80, sotto il premier conservatore-liberale Turgut Özal, era stato scelto per guidare una task force contro la corruzione, e per aprire le porte della Turchia all’integrazione con l’Europa. Gli avversari puntano sull’impopolarità degli economisti, e di chi ha l’ingrato compito di far pagare le tasse, lo definiscono “l’uomo degli americani”. In politica era entrato dopo essere stato corteggiato dal Partito della Sinistra democratica. Poi era invece divenuto leader del partito kemalista, nazionalista laico, Chp (Partito popolare repubblicano). Quel che conta è che è riuscito a riunire una coalizione di tutte le forze che si oppongono a Erdogan. 


C’è un gran via vai di proposte, di controproposte, di diplomazia, di scontri, di mediazioni, di possibili compromessi (ma anche possibili rotture) sulle più scottanti questioni economiche, a livello planetario, in Europa, tra Italia ed Europa. Mes, vincoli di bilancio, Pnrr, debito, inflazione: c’è una certa confusione, difficilmente comprensibile ai non addetti ai lavori, quanto erano concitate le discussioni tra politici e banchieri degli anni 30 sul debito della Germania e come far quadrare egoismi nazionali, stabilità delle monete e conseguenze della grande depressione. Speriamo bene.     


Non saprei se la diplomazia dei soldi possa avere una chance. Negli anni 30 non la ebbe. Nel secondo dopoguerra sì, il piano Marshall funzionò, fondò la nostra Europa di oggi (ma Marshall era un soldato, non un economista). I soldi sono antipatici. Ma più antipatico è che non ce ne siano. Non sono per niente popolari gli economisti (dismal science, scienza triste, l’aveva definita Thomas Carlyle). Non parliamo dei banchieri. Odiati dalla sinistra, ma ancor più dalla destra. Fascisti e nazisti ce l’avevano con la “plutocrazia”, la grande finanza internazionale (immancabilmente per loro “ebraica”). Ma senza soldi non si combina niente. Senza economisti si rischia il fallimento. Non sono molto amati i governatori delle Banche centrali. Non hanno carisma, anche perché il loro ruolo è spesso stringere i cordoni della borsa. Difficile che vengano acclamati capipopolo. Non vengono osannati nemmeno quando salvano il loro paese sull’orlo di un baratro. Non erano popolari nemmeno Luigi Einaudi, o Paolo Baffi, o Carlo Azeglio Ciampi. Mario Draghi, da governatore della Banca centrale, ha salvato l’euro, l’Europa, e la permanenza dell’Italia in Europa. Ha guidato l’Italia in un momento difficilissimo, tra crisi e pandemia e guerra in Ucraina, grazie all’autorevolezza acquisita. Ma non sappiamo come se la sarebbe cavata all’esame diretto dell’elettorato.