Un'immagine dello spettacolo "Pour un oui ou pour un non"

La pièce

Umberto Orsini rilegge Nathalie Sarraute e salva sé stesso (e il teatro)

Sandra Petrignani

Da più di un anno l’attore gira l’Italia riempiendo le sale di grandi e piccoli teatri. Contro la retorica della scrittrice “difficile”, riporta alla luce una commedia sconosciuta con Franco Branciaroli e Pier Luigi Pizzi e fa il tutto esaurito

Quando, una decina di anni fa, ha fondato la compagnia che porta il suo nome, Umberto Orsini non pensava probabilmente di salvare il teatro, in crisi come tante altre arti. Voleva semplicemente “salvare” se stesso e l’idea di lavoro che ha sempre amato e praticato. Era mosso, come ha spiegato lui stesso, dal “profondo desiderio di aggregare al mio nome una serie di persone con le quali ho già lavorato o con le quali avrei sempre voluto lavorare e trasmettere loro tutta la mia passione, la mia esperienza e il persistente desiderio di ricerca e di qualità che ha guidato la mia vita artistica attraverso una seria preparazione professionale”. Un laboratorio permanente, “sul modello del mio maestro Luca Ronconi”. E senza semplificazioni. Perché non si serve l’arte andando incontro ai gusti sempre meno raffinati del pubblico, ma scommettendo sulla qualità, sulla novità, e anche sul divertimento personale. Così quando alla fine del 2021 ha pensato di portare in scena una commedia di Nathalie Sarraute, Pour un oui ou pour un non, praticamente sconosciuta in Italia (sconosciuta la commedia, ma – ahimé – temo anche la scrittrice) sono quasi certa che non si aspettava il successo clamoroso – non è un’iperbole – che lo aspettava. E invece è più di un anno che gira l’Italia riempiendo le sale di grandi e piccoli teatri con roboanti consensi di critica e di pubblico. A Milano, al Grassi, la pièce è stata replicata nel gennaio scorso, al Piccinni di Bari e allo Stabile di Napoli in febbraio, a Roma – al teatro Argentina – dal 20 febbraio al 5 marzo e ora la tournée sta continuando. Dopo La Spezia si replicherà a Venezia a metà aprile. Certo è sostenuto da un trio d’eccezione del nostro teatro: i protagonisti sono Franco Branciaroli e Umberto Orsini appunto, e Pier Luigi Pizzi firma regia scene e costumi. E ora fatemi dire che se Branciaroli è solo del ’47, Orsini ha appena compiuto ottantanove anni, mentre Pizzi ne compirà novantatré in giugno. A onore di età, cultura, esperienza, genialità.

 

E poi naturalmente il testo fa la sua parte. Pour un oui ou pour un non fu pubblicato da Sarraute nel 1982, nella fase finale della sua opera (scomparsa a novantanove anni, lei, scrivendo fino alla fine). Ma di finale la commedia non mostra di avere nulla, anzi sostiene gli attori con il duello incessante su un tema che potrebbe sembrare sfuggente e sa invece essere serrato e coinvolgente: il tema delle parole. I fraintendimenti cui danno adito le parole, e i gesti che le accompagnano, certe sfumature dello sguardo, certe piccole smorfie della bocca.  Insomma il grande tema centrale della narrativa di Nathalie Sarraute, che ha saputo essere fedele a se stessa e alla propria non facile ispirazione per tutta la vita, senza cedere a mode né a semplificazioni, lei che una “moda” – se vogliamo chiamarla così – l’aveva inventata e imposta, quella del Nouveau Roman, ma in modo naturale, perché le veniva da scrivere in quel modo, non per ideologia intellettual-letteraria, anche se certo si era lasciata influenzare dai suoi tempi, quelli innovativi degli anni Cinquanta e Sessanta che la videro in prima fila con Michel Butor, Marguerite Duras, Alain Robbe-Grillet, Claude Simon (insignito col Nobel nel 1985) fra gli altri. Ma lei aveva esordito molto prima, nel 1939 con un libro dal titolo che mette pensiero, quel Tropismi che aveva colpito il quasi coetaneo Jean-Paul Sartre, il quale, qualche anno dopo, avrebbe coniato per i libri di Sarraute la definizione di “antiromanzo” in anticipo sulle posizioni – contro trame e personaggi tradizionali – proprie del Nouveau Roman. E se il Nouveau Roman avrebbe poi toccato – come in Italia la Neoavanguardia – livelli di rottura totale col lettore producendo opere al limite del comprensibile e francamente noiosissime, questo non si può dire per la scrittrice (naturalizzata) francese, capace di conservare sempre un senso attraente, spesso perfino spiritoso, al proprio discorso narrativo. Così spiegava il suo lavoro nel 1959: “Io studio i movimenti psicologici in formazione, allo stato nascente per così dire: azioni non percepibili in maniera chiara e diretta, perché passano rapidissimamente ai limiti della coscienza. Eppure sono proprio queste azioni invisibili ma ben reali quelle che danno senso ai nostri atti e alle nostre parole”. E ancora nel 1987, in un’intervista, conferma di muoversi in un “immenso terreno inesplorato, che nessuno vede e dove in apparenza non succede niente. Prendo la sensazione che si prova quando qualcosa di ignorato sta accadendo e diventa parola”.

 

I tropismi sono quei movimenti impercettibili che le piante fanno per orientarsi verso la luce, o verso altri stimoli esterni, capaci di rendere loro la vita più facile. Le relazioni umane seguono simili aggiustamenti, ma rischiano inciampi e slittamenti. Come succede in Pour un oui ou pour un non, basta insomma un no al posto di un sì, basta un’incontrollata alzata di spalle, una dimenticanza, una distrazione… e l’amicizia va a rotoli, l’altro comprende all’improvviso cosa pensiamo davvero, profondamente, di lui, e si offende. In scena Orsini incalza Branciaroli, che cerca di difendersi, dapprima negando quanto l’amico gli obietta e poi soggiacendo a poco a poco al fuoco di fila di “mancanze”, non detti, superficialità che avrebbe consumato ai danni dell’altro. Così per un’apparente sciocchezza succedono le cose, una sciocchezza che ci lavora dentro finché un autore, come Sarraute, la porta in superficie e la rivela al suo personaggio come al lettore, come allo spettatore. Chissà se il successo dello spettacolo di Pizzi, Orsini, Branciaroli ha convinto qualcuno a scoprire, leggere o rileggere Sarraute, ammesso che i suoi libri si trovino ancora. In libreria è escluso, in rete però sì, qualcosina, e nel grande mare magnum dell’usato. In passato è stata molto tradotta. Era riuscita ad affascinare un palato fine e aperto al nuovo come quello di Oreste Del Buono che ne tradusse nel 1964 per Feltrinelli il libro forse più importante, Il planetario, e lo definì in quarta di copertina: “Punto d’approdo della grande linea del romanzo psicologico moderno, da Dostoevskij a Proust a Joyce” precisando però che: “Il planetario come tutta l’intera opera della Sarraute, fuoriesce dai quadri del romanzo tradizionale: la psicologia in esso ben definita, basata sull’analisi dei sentimenti e del carattere dei personaggi, si decompone e frantuma nella micropsicologia di quegli stati psichici in rapido movimento, in quei sussulti pressoché incoscienti che la scrittrice ha chiamato tropismi intitolando ad essi il suo primo libro”. E dopo quell’esordio tardivo (aveva già una quarantina d’anni) passato dapprima inosservato, ma che l’aveva un decennio dopo imposta grazie alla convinzione di Sartre, è seguita un’opera non sterminata, ma sempre di altissima qualità con molte incursioni nel teatro e nella saggistica. Ancora Del Buono ha tradotto in italiano per Feltrinelli, nel 1983, l’autobiografico Infanzia (ora nelle edizioni Cronopio) in cui la scrittrice racconta, sì, la sua infanzia nomade e i difficili rapporti con la madre, ma ancora una volta in lei è centrale la lingua (nel suo caso le lingue, al plurale, apprese fin da piccola), ma soprattutto, come scrive Ginevra Bompiani nella postfazione: “…il territorio della lingua di Sarraute è una specie di infanzia” perché “l’infanzia (come dice la parola) è il momento della sensazione che cerca la sua lingua”. Le parole per dirlo, insomma, citando il famoso romanzo di Marie Cardinal, non a caso imperniato sul rapporto madre-figlia.

 

Era nata in Russia il 18 luglio del 1900 Nathalie, e il suo nome era Natal’ja Il’inicna Cernjak, in una famiglia ebrea piuttosto agiata. Ma a soli due anni la madre divorzia e la porta con sé in Svizzera e poi in Francia, e la bambina un po’ sta con questa madre cui la figlia pesa, e soprattutto col padre, risposato e padre di un’altra bambina. Ma restando intimamente estranea a entrambe le figure genitoriali. E appena può, diventata grande, studia altrove, storia in Inghilterra, sociologia in Germania, diritto a Parigi, e diventa avvocato. E sposa un altro avvocato, francese, Raymond Sarraute. E come un’altra Natalia, la nostra Ginzburg, nata Levi, sceglierà il nome del marito, nella vita privata come in quella pubblica, firmando i libri col cognome da sposata, anche dopo il divorzio, avvenuto nel 1941 (ma dovuto al bisogno di proteggere Raymond, perché coniugato con un’ebrea). E forse non è un caso che Nathalie abbia messo al mondo tre figlie, quasi a riparare con le loro infanzie, quella che a lei era mancata. Ma mentre si sistema così nella vita, scopre il suo vero interesse, la letteratura, contemporaneamente al fatto che per le leggi razziali francesi contro gli ebrei, nel 1940, viene espulsa dall’ordine degli avvocati. Gli autori che ama di più sono i tre grandi innovatori: Marcel Proust, James Joyce, Virginia Woolf. Approfondisce il lato psicologico del proprio narrare studiando altri tre grandi: Fëdor Dostoevskij, Franz Kafka, e la sua contemporanea inglese Ivy Compton-Burnett (ne ha parlato nel saggio L’età del sospetto, del 1956). Risale a quell’anno cruciale (il 1940) anche l’amicizia con Samuel Beckett, che ospita e aiuta a fuggire con la moglie, perché ricercati dalla Gestapo in quanto resistenti. Lei stessa fu costretta in quel difficile periodo a cambiare indirizzi e identità. È stata lucida e attiva fino alla morte, avvenuta a Parigi nel 1999 tre mesi dopo il suo ultimo compleanno e intendeva scrivere la sua settima commedia. Aveva del resto pubblicato solo quattro anni prima un nuovo romanzo, Ici, il decimo, che come i precedenti era stato accolto calorosamente dal pubblico.

 

Certo, i lettori francesi non sono come gli italiani (nemmeno adesso che sono passati diversi anni e l’attenzione alla letteratura cosiddetta alta è un ricordo un po’ dappertutto): hanno sempre permesso agli scrittori di poter essere originali e “difficili”. Non a caso vantano almeno tre dei narratori più interessanti (e anche popolari) del momento, Emmanuel Carrère, Michel Houellebecq, Yasmina Reza. Secondo i parametri comuni Nathalie Sarraute è un’autrice difficile. Ma basta trovare la giusta chiave d’ingresso, basta abbandonarsi alla sua musica (ce n’è tanta nella sua prosa), basta ascoltare il fluire dei pensieri dei suoi personaggi, che sono pensieri spezzati, a volte incoerenti, come sono del resto i veri pensieri. L’ha spiegato benissimo la scrittrice americana Mary McCarthy in un saggio che le ha dedicato nel libro La scritta sul muro: “Se riuscite a immaginarvi una pantomima uditiva, eccovi nel singolare mondo di Nathalie Sarraute. Una pantomima alla rovescia, dove, invece di azioni e gesti eseguiti in punta di piedi, abbiamo vocaboli, per così dire, che parlano un linguaggio muto, un linguaggio fatto di segni. Nella pantomima, lo spettatore ‘comprende’ un dialogo o un soliloquio dai segni fatti dall’attore; nel mimo di Nathalie Sarraute, un’azione o una trama invisibile, cioè una relazione, viene compresa attraverso frammenti di discorsi colti al volo, così che la parola torna in un certo senso alla sua prima funzione di segno o di indicatore”. Mi dispiace adesso non riuscire a riassumere nemmeno una trama dei libri di Sarraute, così, per darne un’idea. Ma è un’impresa sinceramente impossibile. Chi è Martereau, per dire, personaggio chiave (ma forse no) dell’omonimo romanzo del ‘53, tradotto in Italia da Einaudi nel ‘66? È un deus ex machina venuto a illuminare le chiacchiere inconcludenti degli altri o solo un fantasma inghiottito dal nulla della vita e degli scambi sociali? “Sono cose che non si spiegano, che bisogno c’è di spiegare queste cose…” si chiede un altro personaggio in Tra la vita e la morte, uscito in Francia nel ‘68 (da noi vent’anni dopo, pubblicato da SE). Nessun bisogno quando ci si affida solo a quella specie di sotto-conversazione, come anche è stato definito lo stile di Sarraute, che nasconde e rivela i pensieri meno dicibili.

 

Non è esattamente ciò che succede nella commedia Pour un oui ou pour un non? Non è ciò che succede pure nella realtà quando cerchiamo le parole per spiegarci e la verità di un discorso è la somma che l’altro fa delle frasi spezzettate che abbiamo emesso? Orsini e Branciaroli in scena sono timidi, sono spavaldi, riluttanti, espliciti. Uno accusa, l’altro si difende. Uno accenna, l’altro finge di non capire. Uno insiste, l’altro minimizza. Sono due grandi attori, ma hanno per le mani un testo che può fare davvero la gioia di due grandi attori. “Sono sempre, disperatamente, alla ricerca di un insuccesso” ha rivelato Orsini in un’intervista a proposito della scelta di Sarraute. “Lo dico con civetteria, certo, ma con un fondo di verità: preferisco scegliere qualcosa che, sulla carta, non sia sicuro”.  E se poi diventa un successo c’è ancora più soddisfazione. Per gli attori, certo. Ma anche per chi li ascolta e li guarda. E anche per chi ama il sottile, misterioso, ironico modo di esprimersi di Nathalie.

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