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tre scrittori

Desiderio di maternità, vita di coppia, abusi. Tre libri con vista sulla realtà

Lucetta Scaraffia

La letteratura è ancora in grado di dirci quel che accade, senza cedere all’ideologia e al politicamente corretto

Meno male che c’è la letteratura. Perché gli scrittori, quando raccontano la realtà vissuta o immaginata, parlano di circostanze concrete: fatti che fuoriescono dallo stretto perimetro imposto oggi dal politicamente corretto. Se infatti parlano della vita, di quella vera, non possono fare ideologia. Così capita che editori come Bollati Boringhieri ed Einaudi – che nella saggistica non pubblicherebbero mai riflessioni critiche sulle coppie omosessuali con figli, o testi che mostrano come la procreazione assistita sia solo un sogno doloroso che si realizza di rado, o ancora che donne e uomini esistono e sono diversi, molto diversi, anche nell’affrontare esperienze simili come un abuso sessuale – hanno pubblicato tre opere di narrativa su realtà che nessuno vuole dire.

Con i denti: già il titolo fa sospettare che non sarà una passeggiata la storia di due donne sposate che, in Florida, hanno avuto un figlio. Un figlio desiderato, ovviamente, e guardato benevolmente dal gruppo di amici queer che le circondano. Amici che, però, sono poi scomparsi davanti alla realtà di notti insonni e pannolini da cambiare, di stress poco equamente ripartito. Sammi, che ha affrontato il parto, la gravidanza e l’allattamento, è quella che ha rinunciato al lavoro – riducendosi a un part time poco gratificante – per allevare il bimbo, maschio. Monika, l’altra madre, ha invece continuato a fare carriera, viaggiare, incontrare altre possibili partner sessuali. Proprio come succede in molte coppie etero, ma con l’aggravante che qui le due donne sono proprio uguali, e per Sammi la situazione è più difficile da sopportare perché non se lo aspettava, perché l’illusione di parità era più forte. Ma anche perché in fondo le ragioni di invidia sono reciproche: Monika le invidia la gravidanza, il rapporto forte con il figlio.

Entrambe ricorrono all’alcool per sopportare queste tensioni, sempre più forti. La vita quotidiana diventa un inferno, del quale fa le spese il figlio, un bullo insofferente che non fa che ripetere alle due mamme: “Ma non potreste essere almeno un po’ normali?”. È una tragedia, anche confrontata con l’infelicità diffusa nelle famiglie che le circondano. Anche se si svolge in una società in cui le coppie omosessuali godono di tutti i diritti, sono accettate e possono incontrare altre donne come loro nei luoghi di ritrovo dedicati nella città. I problemi che vivono queste famiglie, in aggiunta a quelli che comunque toccano ogni famiglia, non nascono solo dalla reazione della società in cui vivono: il romanzo di Kristen Arnett individua tensioni proprie della situazione specifica, dice quello che non si può dire.

Le numerose recensioni non hanno parlato di tragedia, hanno sorvolato sulle difficoltà, celebrando il coraggio della scrittrice che ha affrontato questa nuova realtà. Il messaggio della realtà non è arrivato ai recensori, si direbbe. O non l’hanno voluto vedere.

L’intento di dire Cose che non si raccontano è esplicito fin dal titolo del libro di Antonella Lattanzi, che racconta con coraggio la sua drammatica storia di ricerca di un figlio ricorrendo alla procreazione medicalmente assistita. Ma forse l’autrice pensa che le “cose che non si raccontano” sono soprattutto la drammatica contraddizione fra un desiderio fortissimo di maternità ritardato ai quarant’anni e l’altrettanto forte desiderio di scrivere e di affermarsi come scrittrice. Ma questi sono temi già dibattuti. Invece un lettore (nel senso anche di lettrice) meno pre orientato sulle tematiche femministe si accorge subito che questo libro racconta soprattutto cose mai dette sulla procreazione medicalmente assistita.

Narra così la preparazione al prelevamento degli ovociti: intervento non privo di dolore, che impone l’assunzione di una elevata dose di ormoni per stimolarne la produzione. Significa sentirsi stanche, con nausea, gonfie, per non pochi giorni. La pesante cura ormonale dovrà poi precedere e seguire la installazione dell’embrione nell’utero e, per una prima parte, l’eventuale gravidanza. Antonella, la protagonista, scopre poi che tutta questa fatica, questo disagio, non garantiscono il risultato: la cura infatti prevede una percentuale bassa di concepimenti (non più del 30 per cento), che cala con l’aumentare dell’età dell’aspirante madre. Per lei, che ha superato i quarant’anni, si prevede una possibilità di successo del 10 per cento. Il che significa che il penoso iter – stimolazione di embrioni, prova di concepimento con relativa cura ormonale – deve essere ripetuto più volte. 

Quando finalmente, dopo mesi di tentativi inutili, Antonella rimane incinta, si tratta di una gravidanza trigemellare, che obbliga a una “riduzione”, cioè ad abortire uno o due embrioni. Il risultato sarà tragico: nessun embrione sopravvive, e per di più non si riesce a fermare l’emorragia. 
Ma nel frattempo esce un nuovo libro, e Antonella, nonostante le fragili condizioni di salute, va in giro a presentarlo, non si risparmia nelle interviste. Anche perché aveva tenuto nascosto a tutti – tranne che al compagno – i suoi progetti. Per una sorta di ritegno personale, per paura che la maternità implicasse di fatto una minore possibilità di presenza nel mondo.

Se la contraddizione, spesso nascosta, intorno al desiderio di maternità fa sicuramente parte delle donne contemporanee, ancora più taciuto è sicuramente il racconto delle prove fisiche a cui va incontro una donna che alla fine della giovinezza vuole finalmente diventare madre. Nella nostra società, infatti, queste esperienze dure e dolorose non si raccontano mai, così come non si dice mai che tutti questi ormoni non fanno certo bene alla salute dell’aspirante madre e neppure, successivamente, all’eventuale bambino. Della scienza si vuole vedere solo il lato positivo, l’aspetto miracolistico.

Anche i recensori non ne parlano, non è un argomento interessante. Ma la scrittrice, nel raccontare la sua storia, non può tacere questo calvario, se non altro perché è una prova tangibile di quale ossessione sia diventato il suo desiderio di maternità. Quante donne arrivano a questo punto alla fine dell’età fertile? Quante sopportano questi trattamenti dolorosi nella speranza, purtroppo poco fondata, di avere un figlio? Perché nella nostra società, in cui si parla con leggerezza di diritto al figlio quando si discute di utero in affitto, non si fa nulla per consentire alle donne che lavorano di avere figli in età fertile?

Sempre Einaudi ha pubblicato un altro bellissimo romanzo di Ian McEwan, Lezioni. Si tratta di uno scrittore a cui non è possibile attribuire una chiara militanza civile: non rilascia dichiarazioni, non firma appelli, non commenta ciò che accade. Ma i suoi romanzi sono pieni di riferimenti alla contemporaneità, non solo a quella storico-politica, ma anche ai cambiamenti bioetici. Solo per ricordare uno dei più recenti, Nel guscio, McEwan immagina i pensieri di un feto durante i mesi che vive nell’utero della madre. Senza mai prendere di petto la questione, questa attribuzione di umanità al feto costituisce una risposta al “diritto” di aborto e all’utero in affitto.

Questo ultimo romanzo che, come hanno scritto i suoi recensori, tratta della vita di un uomo debole, che si lascia travolgere da quanto gli accade, senza avere mai il coraggio di prendere in mano la sua vita, presenta in realtà un rovesciamento del discorso prevalente sugli abusi e sul rapporto fra donne e maternità. Sì, è vero, Roland è un uomo ricco di doti – eccezionale pianista, bravo tennista e capace di scrivere bene – che non riesce a coltivare per ottenere un posto nella vita. Rimarrà un artista da piano bar, un maestro di tennis, un giornalista a tempo perso, un poeta mancato. La ragione di questa mancanza di coraggio, di questa difficoltà ad affrontare esami e ad assumersi responsabilità, sta in una serie di episodi accaduti fra gli undici e i sedici anni.

Si tratta di abusi sessuali subiti dalla maestra di piano, che per alcuni anni diventa la padrona della sua vita. Anche se, in extremis, Ronald riesce a fuggire per cercare di vivere una vita propria, il male ormai era compiuto. Lo scrittore spiega così come su un ragazzo l’abuso sessuale eserciti un effetto molto diverso che su una ragazza: lo illude di essere una sorta di superman, migliore dei coetanei perché vive esperienze da adulto, e lo sottopone a esperienze di piacere così totalizzanti da segnarne per sempre il rapporto con le donne e più in generale le aspettative verso la vita.

Roland così non finisce gli studi, non combina niente sprecando le sue doti, e viene poi abbandonato dalla moglie con un neonato da accudire. La moglie lo lascia per inseguire il sogno di diventare scrittrice, progetto che realizzerà, ma a costo di cancellare il figlio dalla sua vita. Sono vicende di sottomissione e di fallimento che siamo abituati a vedere con donne come protagoniste, ma qui McEwan capovolge tutto. E in questo modo ci dice molte cose, per esempio che gli abusi hanno un effetto molto diverso su un ragazzo che su una ragazza, perché la sessualità maschile è molto diversa da quella femminile. Anche quando vive un destino tipicamente femminile, cioè di abusato e poi di padre abbandonato, Ronald è diverso, reagisce in modo diverso. Senza fare polemiche sul gender, lo scrittore apre gli occhi del lettore sulla diversità costitutiva degli esseri umani.

Ma nessuno se ne accorge, o almeno fa mostra di accorgersene. E per fortuna, se no McEwan finirebbe nel libro nero come Joanne Rowling, la povera autrice del maghetto.

La differenza fondamentale nei tre libri – che ci aprono una finestra sul mondo reale, senza cadere in ideologie – è che Arnett e Lattanzi sembrano inconsapevoli di cosa rivelano le loro narrazioni, mentre l’elaborata struttura di McEwan, in questo come in altri libri, lascia trasparire una profonda consapevolezza. In ogni caso, consapevole o no, la letteratura è ancora in grado di dirci qualcosa di ciò che accade. Per fortuna.