David Parenzo in una foto d'archivio (Ansa)

“Ebreo!” col sorriso

L'autobiografia di Parenzo a teatro, scandita da candele e pane intrecciato

Francesco Palmieri

L'esordio al Parioli del giornalista, con un viaggio monologante tra stereotipi e luoghi tanto comuni quanto insidiosi. Al Foglio racconta: "La trappola è credere che Parenzo faccia Parenzo"

C’è una cosa che a teatro chi non recita per professione può far meglio degli attori: rappresentare se stesso. Non s’ingelosirà perciò Moni Ovadia se David Parenzo ha commesso incursione sul suo terreno con lo spettacolo “Ebreo!”, esordio romano al Parioli, viaggio monologante tra stereotipi e luoghi tanto comuni quanto insidiosi. Tra serissima ironia e verissima autobiografia, per raccontare anche attraverso vicende familiari il senso generale delle feste ebraiche e la necessità del ricordo, per frugare nello scrigno di un’identità dove ritrovi pure le divertenti ma assai poco frivole zuffe che possono animare le dispute rabbiniche (affidate alle voci di Vittorio Sgarbi, Paolo Ruffini, Ale e Franz, mentre Enrico Mentana traduce quella di Dio).

 

“La trappola è credere che Parenzo faccia Parenzo”, dice David, “e sì che nel monologo scritto con Valdo Gamberutti ho lavorato anche sul registro del cazzeggio, però è solo una sfaccettatura del complesso racconto che ho vissuto fino in fondo”. Spiazzante per qualcuno, come il gruppetto di ragazzi che Parenzo ha sentito discutere dopo lo spettacolo, incuriositi forse dall’ambientalismo ebraico del capodanno degli alberi molto prima di Greta, dalla svestizione dei “sentito dire” alla marchese del Grillo, o dall’affetto per certe ricorrenze nutrito anche da chi, come lui tiene a dire, non è un ortodosso “ma un tradizionalista”. “Sono un ebreo italiano che non mangia maiale né frutti di mare, che cerca di conciliare la propria vita con la religione perché il venerdì sera non prendo impegni: accendo le candele e ceno a casa coi miei figli”. Lo fa per loro, per sé, per i suoi genitori: un ebreo non è obbligato, non delega, non deroga, fa quel che sente.

 

Sicché un giorno a Padova, frequentando il liceo, David per ribellione annuncia ai genitori che quell’anno non osserverà il digiuno del Kippur. Crede e non crede o crede poco. Qui Parenzo, non quello della “Zanzara”, racconta per la prima volta: “Mamma rispose: ‘Fai come vuoi anche se mi dispiace, però ti dico una cosa: tua nonna, nel campo di Bergen-Belsen, pur essendo laica ogni giorno metteva da parte un pezzetto di pane per onorare con una porzione più abbondante la sera del venerdì’. Ecco, questo racconto me lo sono tatuato nel cuore. Per me il digiuno del kippur, come il venerdì sera, esprime un doppio amore: per la tradizione e per il sacrificio di mia nonna”.

 

Parenzo lo sa quel che scriveva Léon Poliakov: che ripercorrere le storie, o la storia dell’antisemitismo rischia di “risollevare antichi rancori”; che ogni richiamo ai torti inflitti agli ebrei può contribuire “a mantenere un clima che un giorno potrebbe far insorgere nuove minacce”. Perciò è serissimo ma ironico, o ironico però serissimo. È nell’ossimoro che affonda le radici l’ebraismo, religione della parola senza l’ausilio della suggestiva Biblia pauperum che sopperiva con le immagini all’analfabetismo. “Sia benedetta la disputa, se c’è un maestro che ti ha insegnato a fare le domande”, lui dice ed è perciò che gli piacque fare il giornalista. Sergio Leone, per natura talmudico e sedotto dall’underground ebraico, fa dire al colonnello Mortimer che “le domande non sono mai indiscrete. Le risposte lo sono, a volte”. Parenzo acconsente e ripesca dal patrimonio rabbinico: “Ci sono tre personaggi: il maestro, che fa domande stupende; il cattivo, che fa domande perfide; il sempliciotto, che fa domande banali. Non è il secondo, ma il terzo colui che merita minore considerazione. Perché non esiste una domanda che non si possa fare”.

 

E dunque lo chiediamo, se non accada spesso che le politiche israeliane fomentino anche il latente antisemitismo: “Purtroppo sì, per la consueta confusione tra le azioni di un governo, e le sue supposte colpe, e gli ebrei in generale, sui quali si riversa il risentimento all’estero di chi non sa che la stessa società israeliana è adesso più spaccata che mai”, dice Parenzo. Un antidoto (per chi non ha visto lo spettacolo, che girerà nei prossimi mesi in varie città): “Il metodo dell’ebraismo: so che mia figlia non vivrà il Bergen-Belsen di mia nonna come l’ho vissuto io. Ma quando accenderà una candela o metterà un pane intrecciato a tavola vivrà la propria identità come l’ho vissuta io”. Hazak, Parenzo.

Di più su questi argomenti: