Un pittore è per sempre

Un vero conservatore odia le mostre, ma "Rinascimento a Ferrara" fa eccezione

Camillo Langone

Quattro passi all’esposizione al Palazzo dei Diamanti, fra Piero della Francesca e Mantegna. La loro bellezza fa quasi scordare i moniti di Michel Houellebecq e Margaret Thatcher

Odio le mostre, un conservatore è infastidito dal mutamento e le mostre non fanno che mutar posto ai quadri. “Non mi piacciono il desiderio né il movimento”, dice il massimo intellettuale conservatore vivente, Michel Houellebecq. Ma “Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa”, appunto a Ferrara e per giunta a Palazzo dei Diamanti, più che un mutamento è un ripristino (bel concetto reazionario) siccome riporta in patria il Dittico Bentivoglio (1473-1474), strappato all’Italia nel 1871, durante il regno di un Savoia interessato al Risorgimento e non al Rinascimento. Dunque mi risolvo a mutar di posto io, in nome del male minore: Parma-Ferrara sono 140 chilometri di autostrada, Parma-Washington (oggi il Dittico appartiene alla National Gallery americana) chilometri 6.900, autostrada poca, quasi tutto Atlantico.

 

Entro e lo vedo. A fianco, nell’ombra, c’è la signora che gli bada. Tremo per lei: e se un deficiente, un pazzo, un ambientalista decide di vandalizzarlo? Come lo ferma? Lo guardo e subito mi viene in mente (verrà in mente a tanti, credo) il Dittico Montefeltro, il doppio ritratto dei duchi d’Urbino dipinto da Piero della Francesca pochissimi anni prima. Rispetto a Ercole, Piero ha un gran vantaggio: il naso memorabile di Federico da Montefeltro (mentre il profilo di Giovanni II Bentivoglio era normale). Anche la duchessa è impressionante, con quel colore da anemica grave che presto morirà di polmonite. Invece Ginevra Sforza, sposata Bentivoglio, ha belle guanciotte rosee e un accenno di doppio mento, segno che mangia e sta benissimo. Guardo il Dittico, lo riguardo e poi lo fotografo chiedendo scusa innanzitutto alla signora che si rifugia nell’angolo. “Non c’è bisogno! Non la inquadro!” e pronunciando queste parole mi accorgo che suonano al contempo rassicurazione e offesa, come se un corpo ignoto contasse meno, attraesse meno di un simulacro famoso, e la penseranno così gli altri visitatori, io no di certo. Chiedo perdono anche ai signori Bentivoglio che vennero immortalati da Ercole de’ Roberti e adesso sono in balìa di un fotografo scarso. E’ solo un appunto visivo, vorrei dirgli…

 

Un altro motivo per cui odio le mostre mi deriva da Margaret Thatcher, colei che disse: “La società non esiste. Esistono gli individui”. Le mostre collettive tendono a rappresentare società artistiche, collettivi pittorici, e a me interessano le singole opere. Ad esempio, in una stanza prima del Dittico, l’alquanto singolare “Sant’Eufemia” (1454) di Andrea Mantegna, quadro che di solito se ne sta a Napoli al Museo di Capodimonte. Subito non ci avevo fatto caso, troppo scuro, troppo poco contrasto, poi ho notato il leone. Non il leone simbolico di San Marco, non il leone ammansito di San Girolamo, no, no, un leone mordace. Perché Sant’Eufemia è una martire, durante la persecuzione di Diocleziano venne gettata in mezzo all’arena, il leone diede appunto un morso e sentito il sapore della santità sospese il fiero pasto. Mi domando: qualcuno dei presenti ci crede? Queste scolaresche, queste professoresse, queste signore credono nei Santi? Cosa ricava il visitatore ateo o agnostico da mostre composte per tre quarti di arte sacra? Appena uscito corre in chiesa per riaccostarsi ai sacramenti? Figuriamoci. E così ho detto il terzo motivo per cui odio le mostre: io a Sant’Eufemia credo, i visitatori delle mostre no.

 

Ecco la parete di Antonio da Crevalcore ed ecco soprattutto la “Madonna col Bambino e un angelo” (1488-1489), in collezione privata, mai esposta prima d’ora. Chissà cosa avrebbe scritto Arbasino di quel puttone nudo, con indosso soltanto assurdi calzini bucati. Scoprii l’autore, il quadro, il putto stupefatto e stupefacente in uno dei primi libri di Sgarbi (qui curatore, deus ex machina, genius loci), “Il sogno della pittura”, che non ho o non trovo più, maledizione, e allora non riuscii a condividere l’entusiasmo del grande critico e ora capisco il perché. La riproduzione era piccola e in bianco e nero, solo oggi scopro che la tela è un telone, un telero, 170x175 centimetri, elemento centrale di un trittico lungo oltre cinque metri. Odio le mostre eppure a qualcosa servono.

 

Alla fine arrivo davanti a Lorenzo Costa e precisamente al “San Sebastiano” (1492) proveniente dagli Uffizi e trascinante a Sodoma. Capolavoro di sottile pornografia: Sebastiano era un alto ufficiale dell’impero romano, un militare maturo, e questo è un efebo. Bisogna pensare alla potenza erotica di un simile quadro in un’epoca scarsissima di immagini, senza fotografia e senza internet, con pochi dipinti racchiusi in chiese buie e nei palazzi dei ricchi. Bastava pochissimo per eccitare e un Sebastiano dal petto liscio certamente eccitava e non soltanto le donne, com’è noto (“avevano trovato i frati nelle confessioni, donne che nel guardarlo avevano peccato”, racconta Vasari di altra versione del medesimo soggetto). Per fortuna al suo fianco c’è “Venere” (1505-1510), da collezione privata. Quadro meglio proteso, ossia il ravvedimento operoso dell’allievo di Ercole. E tuttavia un po’ meno lussurioso: il viso sembra quello di una ragazza vera (modella, amante, moglie che fosse) ma il corpo non direi e infatti nel catalogo leggo che le sue “proporzioni sono conformi al canone vitruviano delle dieci teste”. E’ una Venere allungata e idealizzata. Poi è chiaro che laggiù nel Cinquecento, per quanto non troppo realistica, funzionava lo stesso.

 

Parlerei anche delle sculture se non stessi scrivendo un libro sulla pittura, non vorrei mi distraessero, e poi devo correre a bere in piazza Ariostea, all’Emporio San Lorenzo. Mi aspetta Mirco Mariotti, massimo esponente del rinascimento enologico ferrarese, il vignaiolo della Duna di San Giuseppe: odio meno le mostre se riesco ad abbinarle alla Fortana frizzante… Prima però il tempo di uno sguardo al potente “San Domenico” di Niccolò dell’Arca (1474-1475): lo scultore è barese e come molti pugliesi odierni per fare fortuna dovette salire al nord… Tutta l’arte è contemporanea, diceva Gino De Dominicis, dice Sgarbi, ed è vero.

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  • Camillo Langone
  • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).