Laurence Olivier e Merle Oberon nell’adattamento di “Cime tempestose” del 1939 

un sublime sfigato

Vita e tormenti di Branwell, fratello perduto delle geniali sorelle Brontë

Francesca d'Aloja

Un talento neanche paragonabile a quello di Anne, Charlotte ed Emily. Che scrivevano sotto pseudonimo e non gli rivelarono mai il successo dei loro romanzi. Non bastò a salvarlo dall'alcol, la droga e la disperazione

Alla National Portrait Gallery di Londra è esposto il solo ritratto conosciuto delle sorelle Brontë. Sul lato destro del dipinto si staglia la figura di Charlotte, severa nello sguardo e nel portamento. Poco distanti, ma unite fra loro, Emily e Anne. Lo spazio che separa la sorella maggiore dalle due più giovani sembra evocare una distanza non soltanto anagrafica, ma l’impressione è fuorviante: quel vuoto è in realtà un inganno. Basta osservare con maggiore attenzione per rendersi conto che in quello spazio è impersonata un’assenza.  L’autore del dipinto è Branwell, il fratello delle sorelle. 

La sua figura, ridotta a ectoplasma, spiccava al centro, in piedi fra Charlotte, Emily e Anne, prima che la mano che l’aveva ritratta decidesse di sopprimerla. E’ forse la scelta di quella posizione, centrale e dunque prominente, a essere parsa incongrua e disonesta a colui che si definiva “un nulla”. Si era dunque autoeliminato, Branwell, quasi non fosse degno di apparire insieme alle sorelle. 

Ed è forse questa rimozione l’emblema della vita breve e disperata di Patrick Branwell Brontë, il fratello perduto.

 

Dipinge il ritratto delle sorelle. La sua figura, un ectoplasma, era al centro prima che decidesse di sopprimerla, quasi non fosse degno di apparire

 

Nato dopo tre sorelle e prima di altre due, Branwell (il cui nome, com’era usanza all’epoca, è il cognome della madre), unico maschio della famiglia, prima di quel dipinto era considerato il favorito, il prescelto sul quale riversare sogni e aspettative. Coccolato e protetto dalle sorelle maggiori Marie ed Elizabeth dopo la morte della loro madre, Branwell deve presto fare i conti con il dolore della perdita. Dopo la mamma se ne vanno anche Marie ed Elizabeth, entrambe uccise dalla tubercolosi. Il cimitero che circonda il presbiterio dove vive la famiglia trasmette la minaccia di un destino ineluttabile. Dalle finestre, lo sguardo infantile in cerca di orizzonti incontra lapidi e croci prima ancora che cielo, nuvole e brughiera. I quattro piccoli sopravvissuti si stringono fra loro, insieme si sentono più forti, uniti saranno invincibili. Il più sensibile è il piccolo Branwell: impressionabile e nervoso, è spesso preda di attacchi di pianto, di tremori. Il padre sviluppa nei suoi confronti un forte istinto protettivo, e sin dall’infanzia si occupa personalmente della sua educazione scolastica, incoraggiato dai talenti precoci di quel bambino dotatissimo che dà prova di sorprendenti capacità: mancino, scrive contemporaneamente con entrambe le mani, possiede una memoria portentosa e sfoggia un’impressionante proprietà di linguaggio. Persuaso che il figlio sia un prodigio, il reverendo Patrick Brontë (anche sulla figura di questo ruvido e colto irlandese, solido come una roccia, che visse fino a ottantaquattro anni dopo aver seppellito una moglie e sei figli, varrebbe la pena soffermarsi…) spinge Branwell a studiare greco e latino, confidando in una brillante carriera da umanista. E’ su di lui che investe il futuro della famiglia, le ragazze potranno mettere a frutto i loro studi diventando istitutrici (sugli eventuali, futuri matrimoni delle figlie, il reverendo non ha mai fatto affidamento) ma il nome Brontë verrà ricordato grazie al genio di Branwell…

 

Coccolato e protetto dalle sorelle Marie ed Elizabeth dopo la morte della madre. Poi se ne vanno anche loro, uccise dalla malattia

 

La scintilla che accende il genio, anzi i genii, è nascosta in una scatola avvolta da un fiocco. All’interno, un esercito di soldatini, che il pastore ha comprato per il nono compleanno di Branwell. Con generosità, e in nome della condivisione che contraddistingue il loro rapporto, Branwell dona a ogni sorella un soldatino a cui verrà dato un nome, una qualifica e un titolo. E’ l’inizio di una saga scritta a otto mani, in una lingua segreta inventata da Branwell (un mix di greco, latino e dialetto dello Yorkshire): il gioco dei Reami e delle Isole nel Regno di Angria. Nell’arco di quindici mesi, i fratelli Brontë trascrivono su minuscoli quadernetti la loro avventura collettiva. A turno, e talvolta in coppia, geni Branni (Branwell), geni Tallii (Charlotte), geni Emmii (Emily), geni Annii (Anne) producono poesie, racconti, drammi teatrali. Disegnano mappe, inventano continenti e luoghi immaginari popolati da personaggi fantastici, tenendosi a distanza dal mondo reale, pieno di trappole e insidie. Da quel momento in poi la scrittura sarà una costante, ma se l’ingresso nell’età adulta affinerà le doti letterarie delle sorelle, per Branwell non avverrà lo stesso. Talvolta il talento si esprime, libero, nel territorio inconsapevole dell’infanzia per poi eclissarsi quando l’età della ragione ne pretende il controllo. Ma il giovane favoloso non può permettersi di ammetterlo e tantomeno si sognerebbe di deludere le aspettative riposte sul suo conto. La pressione e l’intima consapevolezza di non essere all’altezza ne mineranno l’equilibrio. Prima di arrendersi, si giocherà tutte le sue carte, mentre le sorelle, al riparo dai sogni altrui, continueranno indisturbate il loro viaggio nella creatività. 

 

Con le tre rimaste inventa il gioco dei Reami e delle Isole nel Regno di Angria. Poesie, racconti, mappe. La distanza dal mondo reale, pieno di  insidie

 

Branwell si affanna nell’affermazione di sé: scrive novelle, poesie, traduce Orazio. Accecato dall’ambizione e privo di senso critico, si azzarda a scrivere al più famoso poeta del suo tempo, William Wordsworth (che cognome meraviglioso per un poeta, Wordsworth… Paroledivalore o Meritaparole) sottoponendogli una sua poesia accompagnata da una lettera piena di fervore ma ridondante di tanta, troppa enfasi, che il poeta commenterà in seguito come eccessivamente adulatoria nei suoi confronti e sprezzante nei riguardi di altri poeti contemporanei: “Non si trova oggi in giro un solo poeta che valga due soldi…” aveva scritto Branwell, “la strada dovrebbe dunque spianarsi davanti a un uomo dotato di talento.” Wordsworth non gli perdona tracotanza e superbia e non risponde al giovane poeta che si firma: “Il suo umile servitore”. L’entusiasmo, la scarsa consapevolezza dei suoi limiti letterari, e forse l’impeto della giovane età avevano portato Branwell a commettere il primo dei suoi numerosi passi falsi. (Piccola digressione attinente al tema: lo stesso Wordsworth ebbe una sorella scrittrice, Dorothy, il cui talento fu oscurato dalla fama del fratello…).

Ma torniamo al nostro protagonista. Incassata la delusione per la mancata considerazione dei suoi scritti, il giovane Brontë si concentra su un’altra inclinazione artistica (ne ha molte effettivamente, sa anche suonare l’organo e il pianoforte): la pittura. Nei suoi disegni, alcuni dei quali davvero belli, spesso ritrae se stesso senza indulgenza: con un cappio da impiccato al collo, incatenato a una sedia con una pietra stretta fra le mani (titolo del disegno: Myself), oppure disteso su un letto soverchiato dalla presenza incombente di un enorme scheletro, la Morte…  Fra i suoi innumerevoli scritti è stata ritrovata la domanda d’iscrizione alla Royal Academy of Arts di Londra dove pare si sia presentato e subito dopo ritirato, una volta constatata la qualità dei lavori altrui, per dirigersi vigliaccamente verso un più appropriato pub nelle vicinanze. Tuttavia non demorde e, pieno di entusiasmo, lascia per la prima volta Haworth per trasferirsi a Bradford, dove si installa in un piccolo atelier sperando di far fortuna come ritrattista. In capo a un anno torna a casa con la coda fra le gambe: nessuno gli ha commissionato un ritratto. Nessuno.

 

Si presenta alla Royal Academy of Arts di Londra e subito dopo si ritira, constatata la qualità dei lavori altrui, per dirigersi vigliaccamente al pub

 

A ventidue anni Branwell si considera un fallito. Mentre le sorelle trovano la loro strada e si rendono autonome (non solo scrivono ma lavorano come insegnanti), lui resta indietro. Il complesso di inferiorità intellettuale (ma anche fisica: per compensare la bassa statura si cotonava la capigliatura fulva, in un goffo e commovente tentativo di apparire più alto) trova consolazione nella droga, il rifugio degli infelici. Comincia con il laudano, un composto a base di oppio, morfina e alcol a cui ricorre per calmare i tic che lo affliggono. Non smetterà più.

Così come non smetterà di scrivere a tutti: invia lettere a poeti, intellettuali, riviste letterarie. Sono pagine irritanti e al tempo stesso commoventi, come le richieste di elemosina da parte di un mendicante. Il solo che gli risponde elogiando la sua traduzione delle Odi di Orazio è Hartley Coleridge, figlio del grande Samuel Taylor e poeta anch’egli (e, aggiungo, personaggio superlativo). Forse intravede in quel ragazzo di vent’anni più giovane il riflesso di un dolore che egli stesso patì per tutta la vita, quel sentimento di inadeguatezza che schiaccerà entrambi, nonostante (almeno nel caso di Hartley Coleridge), il talento indiscutibile. Leggendo fra le righe di queste missive trasudanti elogi, suppliche e superbia malcelata da falsa modestia, emerge prepotente il sincero desiderio di essere ascoltato, di essere considerato. Un grido di dolore ignorato che stringe il cuore: “Nel caso in cui qualcosa in questa mia non sia di vostro gradimento, attribuitela vi prego all’inesperienza, e non all’impudenza”, scrive in conclusione alla lettera inviata a Coleridge. 

Un disperato bisogno di inclusione era stato presumibilmente all’origine, a soli diciotto anni, dell’affiliazione alla loggia massonica delle Tre Grazie, dovuta più che altro all’esigenza di frequentazioni maschili, quasi assenti nel suo orizzonte esistenziale. Appartenere a qualcosa. Appartenere a qualcuno… 

 

Scrive a chiunque. Fra le righe di missive trasudanti elogi, suppliche e superbia malcelata, emerge il sincero desiderio di essere considerato

 

Nella novella Le avventure di Charles Wentworth Branwell rivela le sue frustrazioni attraverso il personaggio di Charles, suo alter ego, al quale fa dire: “Ogni uomo che si inoltra sul cammino della vita non può che discendere. Non posso attardarmi sulle vette dell’infanzia, perché il tempo mi afferra inesorabile la mano e mi trascina con sé, che io lo voglia o no. Ma io rimarrò ai bordi della vita, rifiutando di lasciarmi trascinare verso il basso”.

La parabola di questo sublime sfigato alterna momenti di speranza a desolati tracolli. Dopo aver accumulato tele invendute (alcune davvero notevoli) e pagine non pubblicate (tranne una fugace collaborazione con un giornale locale che pubblicò alcune sue poesie, firmate con uno pseudonimo…), Branwell si decide a cercare un lavoro meno artistico e più redditizio. Troverà un impiego presso gli uffici della stazione di Sowerby Bridge, tappa della nuova rete ferroviaria Manchester-Leeds, decisione che solleva l’indignazione di Charlotte. L’antica sodale di avventure nel Regno di Angria considera quella scelta uno spreco per la cultura e il livello intellettuale del fratello. Questo il suo commento sarcastico nella lettera a un’amica: “Un mio lontano parente, tale Patrick B., è andato a cercar fortuna nella folle, avventurosa, romantica e cavalleresca carriera di impiegato delle ferrovie. Dove si trovano Leeds e Manchester? In pieno deserto immagino… proprio come Tadmor o Palmira…” alludendo alla saga esotica prodotta dal loro sodalizio letterario di adolescenti. La sola iniziativa sensata presa da Branwell viene vissuta da Charlotte, Emily e Anne come un tradimento: il fratello adorato è ormai lontano dalla loro casa e dalla loro vita. Le prime due si trasferiscono a Bruxelles per studiare, iniziativa proficua per le loro opere future, mentre Anne resta a Haworth, dove lavorerà come istitutrice.

 

La sola iniziativa sensata presa da Branwell viene vissuta da Charlotte, Emily e Anne come un tradimento: il fratello adorato è ormai lontano

 

L’autostima di Branwell precipita ancora più in basso: non legge, non scrive e passa il suo tempo in compagnia di balordi che gravitano intorno alla stazione. Frequenta i pub locali e beve come una spugna. La parentesi di impiegato delle Ferrovie ha vita breve: dopo pochi mesi viene licenziato per inadempienza.

Il ritorno a casa coincide con una sequela di tragedie. Nel giro di poco tempo muoiono: la zia che si era occupata dei piccoli Brontë orfani di madre, il giovane vicario assistente del reverendo divenuto molto amico di Branwell, e la vicina di casa, punto di riferimento di tutta la famiglia. La morte, di nuovo, circonda casa Brontë. Nel dramma, la beffa: nel suo testamento la zia lascia tutti i suoi averi alle ragazze e neanche uno scellino a Branwell, convinta che se la sarebbe cavata da solo. In un’epoca in cui l’incapacità di autoaffermazione della donna è un fatto scontato, accade che non una ma tre donne di una stessa famiglia (anche se inizialmente dovettero adottare degli pseudonimi maschili per veder pubblicato il primo volume di poesie) rovescino le convenzioni. Currer, Ellis e Acton Bell (i nomi scelti dalle tre sorelle) non avranno più bisogno di nascondersi dietro fittizie identità maschili per veder riconosciuto il loro valore. Ma questo Branwell non lo sa e non lo saprà, per sua fortuna, fino alla fine. Quando le sorelle, con i rispettivi capolavori (Jane Eyre, Cime tempestose e Agnes Grey) dovranno recarsi a Londra per incontrare il loro editore Newby, si guarderanno bene dal rivelare al fratello il motivo della loro partenza. Un pietoso riguardo nei confronti di Branwell (che alcuni biografi smentiscono, sostenendo che lo sventurato, ahimé, avesse capito. C’è da augurarsi che così non sia stato).

Anne, che lavora come istitutrice delle figlie del reverendo Robinson a Thorp Green, tenta un disperato salvataggio del fratello, e lo presenta al suo datore di lavoro nella speranza che venga assunto come precettore del figlio maschio. Branwell, colto e ben educato, sembra essere l’uomo giusto, e l’incarico viene confermato. Anne è felice, l’abitazione dei Robinson è lontana dai centri abitati e dunque dalle tentazioni, e Branwell può trovare un po’ di serenità. 

Dura poco più di un anno. A interrompere i buoni propositi di Anne, le parole lapidarie scritte da Mr. Robinson in una lettera indirizzata a Branwell: “Essendo stato informato delle vostre reprensibili azioni, vi intimo, per scongiurare uno scandalo, di interrompere ora e per sempre i vostri rapporti con i membri della mia famiglia.”. 

Cosa aveva combinato Branwell?

“And here’s to you Mrs Robinson, Jesus loves you more than you will know… wo wo wo”… Non è un caso se la donna matura che seduce il giovane e impacciato protagonista de Il laureato Dustin Hoffman si chiami Mrs Robinson. Un’omonima del secolo precedente, anch’essa sposata e di parecchi anni più grande del nostro eroe, fu la ragione del licenziamento in tronco.

 

Anne lo sistema in casa Robinson come precettore, poi Mr. Robinson lo caccia per le sue “reprensibili azioni”. Cosa aveva combinato?

 

I dettagli dell’affaire Robinson non sono mai stati chiariti. Nella sua biografia di Charlotte Brontë del 1857, Elizabeth Gaskell afferma che Branwell era stato “sedotto da questa donna matura e malvagia”. La versione di un Branwell sedotto e abbandonato sembra essere la più accreditata, non si sa bene se per convenienza rispetto ad altre illazioni ben più scandalose che suggerirebbero invece entrambi i figli dei Robinson quali oggetti di “reprensibili azioni”… A noi interessa la versione di Branwell, o perlomeno quello che egli stesso riferisce nella moltitudine di lettere inviate allo scultore Joseph Leyland, conosciuto ai tempi della permanenza a Bradford e divenuto compagno di bevute nonché fedele (e paziente) amico. Leyland sarà destinatario di confessioni, deliri di autocommiserazione, suppliche e spesso anche richieste di denaro per i debiti accumulati in anni di sregolatezza. Una porzione sostanziosa di queste missive descrive un Branwell afflitto per il dolore di un amore contrastato, costretto a rinunciare alla donna della sua vita prigioniera di un matrimonio infelice, braccato dalla malasorte. Il romanticismo, cifra costante di tutti gli scritti di Branwell Brontë (i temi ricorrenti di quasi tutte le sue poesie sono la morte, il dolore e la sofferenza della vita terrena) trova il suo apice nelle lettere scritte all’amico. “C’è una donna vestita di nero che si chiama Sfortuna. Mi cammina sempre accanto, appoggiandosi affettuosamente al mio braccio, come una moglie legittima. E come molti mariti, avrei fatto volentieri a meno della sua presenza”. Nel melodramma del delirio amoroso brilla la luce di una speranza: Branwell si augura che l’imminente trapasso del signor Robinson, provato da una grave malattia, renderà i due amanti finalmente liberi di ricongiungersi. Non sappiamo quanto prevalga l’autocompiacimento sulla cronaca reale, sappiamo però con certezza che la signora Robinson, raggiunto l’agognato statuto di vedova, non si getterà fra le braccia di Branwell ma sceglierà quelle meno vigorose e ben più convenienti di un anziano, facoltoso vicino di casa, con il quale convolerà a nozze di lì a poco. Per liquidare il giovane amante, Lydia Robinson si era inventata un’inesistente clausola nel testamento del marito secondo la quale ogni eventuale contatto con Patrick Branwell Brontë avrebbe causato l’immediata perdita dell’eredità. E non si era nemmeno degnata di comunicarglielo a voce, ma aveva delegato al suo cocchiere l’onere del benservito.

E’ il colpo definitivo. Senza amore, senza soldi, senza prospettive per il futuro, il ragazzo che si credeva straordinario sprofonda nella depressione e nell’autodistruzione. “Ho trascinato il mio corpo fino alle porte dell’inferno” scriverà all’amico Leyland. 

Non era dunque riuscito a opporsi alla discesa verso il basso il povero Brannie, desideroso di tutto e destinato a fallire in ogni campo. La parabola della sua vita, contrapposta a quella delle tre sorelle, è un eloquente apologo sul significato di talento, quel dono misterioso e capriccioso che ha la facoltà di scegliere e non può essere scelto, colpisce chi non lo desidera e fugge chi lo brama. 

“E’ giunto per me il momento di essere qualcosa, mentre in realtà non sono niente. Mio padre non può avere ancora molti anni di vita, e alla sua morte la mia sera, che ora è crepuscolo, sarà per forza notte. Forse la mia costituzione mi terrà in vita per chissà quanti anni di disperazione e tortura, anche se ogni singolo istante pregherò che mi sia concesso morire”.

Sarà la sola preghiera esaudita di Branwell Brontë, che poco dopo aver scritto queste righe comincerà a lasciare il mondo terreno. L’abuso di alcol e droghe, divenuto incontrollabile nell’ultimo periodo, lo riduce a un fantasma. Le sorelle alternano rabbia a disperazione, Charlotte è la più severa nei suoi confronti: “La facoltà di autosufficienza è, temo, quasi distrutta in lui”. Emily, timida e riservata, soffre in silenzio ma sarà la più provata dalla fine di Branwell. Nel romanzo che la renderà immortale, Wuthering Heights, il personaggio di Hindley Earnshaw, fratellastro rivale di Heathcliff, che scivola nel degrado e nella perdizione dopo la morte della moglie, è ispirato a Branwell. Ma molti elementi del carattere dello stesso Heathcliff lo ricordano. E’ stata più volte ventilata l’ipotesi che l’autore di Cime tempestose fosse in realtà Branwell stesso, forse perché pareva inconcepibile che una ragazza cresciuta nella brughiera dello Yorkshire potesse trasmettere tali livelli di sensualità e pathos. A me pare ancor più inverosimile attribuirne la paternità a Branwell, più plausibile che abbia contribuito all’ideazione di alcuni passaggi di quel romanzo inarrivabile. Emily Brontë era una creatura misteriosa, e in quel mistero sta la sua grandezza.

 

Una parabola sul talento, dono capriccioso che ha la facoltà di scegliere e non può essere scelto, colpisce chi non lo desidera e fugge chi lo brama

 

Gli ultimi mesi di vita di Branwell Brontë sono impietosi. Preda di deliri, dice e scrive frasi senza senso, mendica soldi agli amici per comprarsi da bere, ha le allucinazioni. Una sera dà fuoco al letto perché dimentica di spegnere la candela. Il padre lo trasferisce nella sua stanza, come quando era bambino. Notte e giorno il reverendo Brontë si stringe a quel figlio amato del cui tracollo si sente in parte responsabile. Si pensa che l’aggravarsi delle condizioni di salute dipenda dai vizi con cui Branwell ha sfibrato il suo corpo, in realtà a stroncarlo sarà la tubercolosi, il male che falcidia quasi tutta la famiglia. Volendo cimentarsi in un’ultima, disperata e insensata prova di forza, Branwell rifiuta di morire disteso e decide di rimanere in piedi fino alla fine, come “dimostrazione del potere della volontà umana”. Resiste così fino all’ultimo, per poi spegnersi fra le braccia di suo padre, a soli trentun anni. In tasca le sue ultime poesie dedicate a Lydia Robinson.

Tre mesi dopo, dando prova dello stesso cocciuto stoicismo, Emily raggiunge il fratello dopo aver rifiutato qualsiasi tipo di cura. Anne li seguirà a distanza di sei mesi. Charlotte scrisse altri tre romanzi e si occupò di curare le edizioni dei romanzi delle sorelle. Sposò un uomo il cui nome, per ironia della sorte, era lo stesso da lei utilizzato come pseudonimo. Bell. Poco dopo le nozze, a trentanove anni, e a causa dello stesso male, si unì per sempre ai suoi fratelli.