Bosch, connivente con il Male quando seduce, e algido col Bene, che rende sempre con tinte troppo incolori (“Il giardino delle delizie”, part.) 

Abbasso la verità

Gli scrittori, bugiardi patologici: Pietro Citati li ha riconosciuti e con la sua critica si è unito a loro

Mariano Croce

Davvero la critica ha il compito di indicare il vero? La risposta è no. Ed è proprio quest’idea di critica renitente all’ordine che viene magnificata in "La ragazza dagli occhi d’oro", l'ultimo saggio in libreria

Se ormai da più di settant’anni si va piangendo la morte del romanzo, la critica letteraria non gode di salute migliore. L’incertezza su cosa abbia senso o persino si possa narrare investe anche gli strumenti e i canoni mediante cui giudicare quanto narrato: crollate le grandi ideologie, e nell’attesa che le neonate superino la fase di svezzamento, non è affatto chiaro quale sia il compito della critica. Convinta della propria connaturata onniscienza e comprovata superiorità morale, un tempo affidava a sé stessa il compito di illuminare, orientare, migliorare l’umanità; oggi, all’opposto, assai più periclitante, va in cerca di nuovi puntelli. Si trova così dinanzi a un bivio: cedere all’istinto di un rinnovato illuminismo oppure cercare altre strade con meno senso del mélo e un grado più intenso di humour. Non che si tratti di un bivio inedito, se è vero che verso la fine del secolo scorso l’incertezza di cui sopra prendeva la forma di una contrapposizione tra schieramenti: chi intendeva la critica come lume e vaglio, tesi a dirimere vero e non vero, contro chi ne faceva uno strumento brioso di letteratura sulla letteratura, che non deve raddrizzare alcun legno storto, ma semmai creare mondi su mondi.

  
Si pensi a quanto Alberto Asor Rosa scriveva nel 1989 a proposito dell’estetica giudicata facile e artata di Pietro Citati. Sotto le sembianze di Tolstoj, Proust, Kafka, secondo Asor Rosa, Citati esaltava quel tipo di genio e quella nozione di sublime che permeavano l’immaginario della “gente comune”, e in particolar modo della classe dirigente, “a cui Citati tiene tanto”. Così facendo, prosegue l’articolo, Citati tradiva il mandato ultimo dell’interprete, quello che conferisce senso e valore al lavoro critico: prendere le distanze dalla gente comune e sottoporne al vaglio censorio tutti gli autoinganni. Asor Rosa ribadiva così la necessità di difendere a denti stretti la garitta della critica illuminata, doppiamente esposta agli attacchi esterni e ai tradimenti delle quinte colonne: “Il povero critico, l’interprete, ha solo il compito di mettere un po’ d’ordine, di portare un po’ di luce” nell’impasto di ingredienti, un po’ buoni e un po’ avariati, che il testo letterario già sempre è (A. Asor Rosa, Caro Citati, non sono d’accordo, La Repubblica, 5 maggio 1989). 

   
Non si capisce se l’ordine di cui si va parlando sia quello del rassetto della casa nelle celebrazioni festive o del servizio d’ordine dei raduni di massa e delle occupazioni, ma è certo che la parola “ordine”, comunque sia, inquieta: l’intento rimane quello di rimettere le cose a posto – al posto cioè che per il critico le cose dovrebbero avere, così da poter determinare qual è l’ingrediente buono e quale l’avariato. Ed è ben possibile che tale sia il compito del critico, ma proprio per questo mi pare operazione di interesse minore quando non si tratti delle ispezioni del Nas – utilissime a evitarci indigestioni, malattie o persino la morte. Ma quando invece si tratta di libri, il mal di pancia, forse, è più utile di una serena digestione, mentre il rassetto della casa è la più molesta delle attività oziose, a cui, è noto, Emily Dickinson preferiva la pestilenza (“House is being cleaned. I prefer pestilence”, scrive nel maggio 1866 in una lettera a Mrs. J. G. Holland). 

  
E’ sul dovrebbero, scientemente corsivato, che qui vorrei insistere. Giorgio Manganelli tornava sulla questione, innestando la polemica tra Asor Rosa e Citati nell’aguzza risposta al disappunto manifestato da Beniamino Placido a proposito di una sua recensione. E se è vero che ogni frammento di Manganelli è un compendio di epistemologia, oltreché una Träumerei metafisica di adamantina meticolosità, le poche righe con cui liquida il lavoro del critico di cui sopra mettono in braghe di tela più di una decade di recente dibattito sulla questione: “Che cosa significa che i libri ‘dovrebbero’ servire a ‘pensare, capire, sentire’? Quel ‘dovrebbero’ significa di più di quei tre verbi, onesti quanto vaghi, che fanno un po’ Russia anni 50. ‘Dovrebbero’, eh? Qui appare, se non sbaglio, quella idea virtuosa, pedagogica della letteratura pensosa e concettosa e affettiva. Idea che fu illustre, fu contestata, e a me pare decidua, o vorrei che fosse” (G. Manganelli, Il rumore sottile della prosa, Adelphi 1994, p. 123). E in un altro pezzo, su argomento affine e dedicato al Kafka di Citati, chiosava che il critico, piuttosto, dev’essere arbitrario, anzi, deve aver torto. Altro che luce o ordine! Il critico è un arraffone, un ciarlatano senza stile né mestiere che “introduce oscurità dove è illusoria chiarezza, porta notte dove è la menzogna del giorno, cattura e tesaurizza l’errore dove apparentemente si dà pertinenza” (Manganelli, Il rumore sottile della prosa, p. 117).

  
Se è vero che non è questo lo spazio per decidere le sorti della gigantomachia critica appena schizzata, il limite di caratteri, compreso quello dello scrivente, permette di palesare simpatie senza l’onere di sostanziarne le ragioni. Nel rinnovarsi odierno della contrapposizione di cui sopra, la domanda più pressante è se davvero la critica abbia il compito di rischiarare, far capire, indicare il vero; se davvero, chiuso il Novecento, sia il caso di riesumare un titanismo tanto velleitario. La risposta, a mio avviso, è netta ed è un no – ma con il corollario, tutt’altro che trascurabile, secondo cui questa propensione a un canone minore garantisce alla critica un ruolo nuovo e persino più espansivo. Ed è proprio quest’idea di critica renitente all’ordine che viene magnificata nel libro di Pietro Citati, La ragazza dagli occhi d’oro (Adelphi 2022).

  
Una traccia ha destato l’interesse vivo di chi scrive: per tre volte, nel libro, compare una locuzione tanto curiosa quanto rivelativa: “Era sempre altrove” (pp. 280, 324, 329), riferito via via a Lev Šestov, Giorgio Manganelli e Alberto Arbasino. Per Šestov, questo altrove si declina in deliberate contraddizioni, da cui sole egli traeva la spinta per il nuovo: “Diceva una cosa, la contraddiceva, la ripeteva, la contraddiceva di nuovo; ma quando diceva la medesima cosa per la centesima volta, essa sembrava nuovissima” (p. 280). E di Šestov Citati apprezza la tendenza a sbarazzarsi di sé, a liberarsi dei suoi stessi pensieri, cui non si tiene mai fermo nel rifiuto reiterato di quella certezza che si principia sulla fedeltà a un’idea. Ironia e indecisione, piuttosto, sono le fondamenta di un’etica dell’infermezza che ha poco interesse a tenersi in piedi su convincimenti granitici, che quando troppo compiaciuti lambiscono l’infantile. Per Arbasino, invece, la cifra dell’altrove è opposta: non si sbarazza di sé, ma si appropria dell’altro: “Arbasino era sempre in movimento. Leggeva, leggeva, leggeva, appropriandosi di ogni cosa” (p. 329) – d’altro canto, con atto di volontaria mimesi, Citati parlando di Arbasino parla molto di sé, con minuziosa applicazione della tecnica appropriativa. Ma questa opposta declinazione dell’altrove conduce nello stesso posto: la scomparsa del pronome personale, secondo il dictum di chi è all’origine della genia qui convocata, che biasima l’io come “il più lurido di tutti i pronomi”, a loro volta “pidocchi del pensiero”.

  
Ma non stupisce che l’altrove più vorticoso e rapido sia quello di Manganelli, l’unico “più veloce di Arbasino” (p. 329). Perché per Manganelli “tutto, tutto – ogni centro” dipende dall’altrove. E si chiarisce cosa sia questo altrove: la capacità di muoversi tra gli opposti, mobilitando tutta un’ontologia dell’inesistenza, in cui certo il primo che ne esce con le ossa rotte è l’io, ma assieme a questo viene giù poi tutta la consolidata credenza nella realtà per come i nostri sensi permettono di esperirla. Perché per Manganelli, sostiene Citati, “lo scrittore è anche un’assenza, un vuoto, una negazione, una mancanza, una tenebra. Qualcosa che non esiste” (pp. 325-326). La letteratura, quindi, come catalogo infinito di oggetti inesistenti e chi scrive come somma inesistenza: la letteratura ambisce a partorire il libro “capace di generare infiniti libri, capitoli ingegnosamente solidali, classificazione e descrizione di ciò che non esiste” (G. Manganelli, La letteratura come menzogna, Adelphi 2004, p. 61). Un Grande Mentitore che distrugga il verisimile, come sintetizza Citati (p. 325). Perché nulla è più mortificante di chi, inabile alla fandonia, si dedica alla caricatura del reale tentandone una trascrizione veridica. Non perché si abbia in spregio il vero, ammesso una qualche sua definizione sia possibile dopo tre millenni di tentativi falliti, ma perché tentare di portarvi ordine e luce non gioca a suo favore. 

 
Non è gesto disimpegnato e sbarazzino, quasi fosse un postmodernismo compiuto già prima della sua comparsa ufficiale nella filosofia di professione. C’è piuttosto una teoria onerosa e superba del rapporto tra la letteratura e la realtà. Se la letteratura appartiene all’ordine della menzogna, infatti, questa non è del tipo che si oppone alla verità, ma quella che si sottrae alla socialità educata e perbene che pretende che una verità sia data. Chi fa letteratura è un sedizioso: fabbrica un ordigno destinato a esplodere con la clandestina speranza che finirà con l’offendere. E se la letteratura mente per professione è solo perché spera di indurre il dubbio su tutto, gonfiando le faglie del reale con semi di irrealtà pronti a farsi foreste che colonizzino il mondo e restituiscano l’essere umano a una vita pre-sociale perché si procuri una vita nuova. Per riuscire, il letterato non deve mai far corrompere il proprio stile col gusto mimetico tipico della critica illuminata. Chi scrive non può scegliere “di balbettare delle verità”, laddove è “suo compito declamare delle fluenti menzogne” (Manganelli, Il rumore sottile della prosa, p. 58). Non può lasciarsi persuadere che quello che fa abbia qualcosa a che fare col mondo in cui vive, che il romanzo abbia il compito di riflettere il reale, come fosse uno specchio, o sul reale, come fosse un filosofo di accademia. La letteratura rimane scandalo: richiamo forte alla consapevolezza che la realtà è “un concetto puramente moralistico”.

 
E’ la menzogna, quindi, l’altrove in cui, secondo Citati, si ricacciano Šestov, Manganelli, Arbasino, ma anche Groucho Marx (che non ammette “nessuna differenza tra verità e menzogna o tra i suoi libri e quelli copiati dagli altri”, p. 252), Cervantes, Charlotte Brontë o l’autore anonimo de Il Lazarillo de Tormes. Una menzogna deliberatamente sovversiva, che incipria il vero con abili colpi di falso per strapparsi all’idea del racconto come didascalia. La letteratura rimane una macchinazione artificiosa, che libera dinamiche fantastiche pronte a deflagrare. Una creazione di cui non fidarsi mai, come fa Balzac, che nel suo progetto monumentale di commedia umana “condivideva tutti i punti di vista e si identificava con loro”, al punto che gli era impossibile ritrovarsi a lungo e per intero in alcuno di essi. Balzac: vero iniziatore di questo altrove, “presente ovunque e dappertutto e da nessuna parte” (p. 188). 

 
L’altrove, quindi, come vertiginosa ubiquità, onnipresenza che richiede una velocità spossante per trovarsi in ogni punto. Inclinazione delittuosa che vanta scarsa familiarità con la morale. Ed è seguendo traccia su traccia questa inclinazione della letteratura che la critica può farsi essa stessa opera narrativa, in un movimento per cui narrazione e critica si avvicendano con ammirevole costanza. Una critica dell’altrove e dell’ubiquo che si faccia deliberatamente mitomania, bugia che ha del patologico e se ne fa vanto: elaborazione intenzionale di esperienze ed eventi poco probabili, futili, facilmente contestabili; abituale e reiterata produzione di mistificazioni in grado di produrre in chi legge un inquietante senso dell’irrealtà. Nulla che abbia da realizzarsi con sforzo di sovrumana inventiva, perché questo non è che il precipitato di quanto si trova in Bernhard, Flaiano, Gadda, Landolfi, Lispector, Manganelli, Ortese, Valéry, Wilcock – e la lista, benché orientata, potrebbe seguitare a lungo.

 
Beninteso: questo non prelude a un ripiego borghese e salottiero, che rende la critica una forma di arte, inutile come tutte le arti. C’è piuttosto la stessa inclinazione all’ambiguità, la connivenza col Male che Citati intravvede in Hieronymus Bosch, arrendevole alle lusinghe di Lucifero, quando tenta, seduce, corrompe, e algido col Bene, che rende sempre con tinte troppo incolori (pp. 75-78). Perché non c’è uscita dal guado dell’ambivalenza, da una mitomania che sfida il reale senza pretendere di insufflarlo di aspirazioni al vero, nella consapevolezza che ogni giudizio è sempre macchiato dalla pregiudiziale adesione a canoni di moralità troppo inclini al piacere di sé. La diversione dall’idea virtuosa e pedagogica della critica, che si crede illuminata e portatrice di lume, è possibile non tanto col sospetto sul proprio quarto di nobiltà quanto con la prontezza a non farsi mai trovare nello stesso posto, collocarsi sempre nell’altrove che richiede spostamenti velocissimi. Per questo La ragazza dagli occhi d’oro ci consegna a un compito difficilissimo: la “fuga dai sistemi” (p. 280), quelli in cui il perimetro ripiegato su assiomi e teoremi si crede consenta un punto di vista sull’infinito, mentre non fa che ricalcare pregiudizi di parte. Assai meglio, come Arbasino, Balzac, Cervantes, Flaiano, Fellini, Manganelli, Šestov vivere di un’impossibilità a credere in quel che si fa, in una naturale propensione a dire e disdire, nel gusto del paradosso e nelle vesti del guastafeste. Questa la critica felice, dove il divertimento s’imbrica con la diversione, e le parole sono deliberatamente impure, fatte in modo tale da procurarsi odi, studiate da coloro che criticano perché si risulti arbitrari, perché si abbia torto.

Di più su questi argomenti: