(foto Ansa)

Letteratura e rivoluzione

Azar Nafisi e le donne di Teheran, che vedono il futuro negli occhi delle loro madri

Giuseppe Fantasia

"L'Iran non si può riformare. Ora più che mai ci si è resi conto che non esiste un'alternativa alla rivoluzione". Intervista alla scrittrice iraniana

“Sto prendendo appunti e alla luce di quello che sta accadendo in Iran mi piacerebbe rivisitare il rapporto che esiste tra occidente e oriente, soprattutto attraverso la cultura. La cultura ci salverà”. A Roma, Azar Nafisi, l’autrice del bestseller mondiale Leggere Lolita a Teheran, guarda e pensa al suo paese d’origine con un sentimento che non è mai rinuncia né tantomeno accettazione, ma una reazione continua e una speranza “che non muore mai e ci salva”. In quel celebre libro pubblicato da Roberto Calasso e dalla sua Adelphi nel 2004, ci faceva scoprire l’anima delle sette giovani protagoniste che erano lo specchio della condizione femminile sotto un regime integralista, nonché figlie di una generazione appartenente a “un sistema tra i più avanzati al mondo riguardo alla condizione femminile”. “In Iran – ha spiegato lei che è oggi cittadina americana – la lotta di liberazione delle donne risale all’inizio del secolo scorso ed è lì che hanno ottenuto il diritto di voto prima di alcuni cantoni della Svizzera. In Iran le donne combattono non perché sono occidentalizzate, ma perché vanno indietro nel tempo a quando erano libere”. 

 

In quelle pagine che si sono rivelate essere uno dei più toccanti atti d’amore per la letteratura mai professati, spiegava a ragazzi e ragazze esposti in misura crescente alla catechesi islamica una delle più temibili incarnazioni dell’occidente: la sua letteratura. Nel frattempo, da due decenni c’era stata la rivoluzione di Khomeini e in quel periodo difficile, come il presente, le strade e i campus di Teheran erano teatro di sanguinose violenze. Decise così di chiamare La repubblica dell’immaginazione il celebre seminario clandestino (da cui l’omonimo libro pubblicato da Adelphi nel 2015) in cui, durante il regime degli ayatollah, insegnava alle sue migliori allieve dell’Università di Teheran i grandi autori di lingua inglese. “Adesso che non potevo più pensare a me come un’insegnante, una scrittrice – disse – adesso che tutto ciò era diventato illegale, mi sentivo evanescente, artificiale, un personaggio immaginario scaturito dalla matita di un disegnatore che una gomma qualsiasi sarebbe bastata a cancellare”. 

“La letteratura – ripete anche a voce durante l’incontro pubblico romano con il Premio Pulitzer Jhumpa Lahiri – ha bisogno di essere difesa, diffusa e studiata strenuamente, quale vero antidoto alla “pigrizia dell’intelletto”.  In Le cose che non ho detto (Adelphi 2009), faceva una lista di cose segrete che aveva stilato nel suo diario e che si rimproverava di aver taciuto a tutti. A queste – tra cui “innamorarsi a Teheran”, “guardare i Fratelli Marx a Teheran” e “leggere Nabokov” – aggiungeva un ritratto di suo padre, già sindaco di Teheran all’epoca dello scià, e di sua madre, fra le prime donne entrate al Parlamento iraniano. Il libro racconta la storia dei tradimenti di lui, del mondo fantastico in cui lei a poco a poco trasforma la realtà insopportabile che la circonda, e della forzata, dolorosa connivenza dell’autrice con il genitore, ma anche – e soprattutto – la rivelazione di come a volte le dittature sembrino riprodurre i silenzi, i ricatti, le doppie verità su cui si regge il primo, e più perfetto, sistema totalitario: la famiglia. Un altro ritratto – “necessario”, ripete a voce – è stato quello fatto proprio a Nabokov e contenuto nel suo libro più recente, Quell’altro mondo, cui si aggiunge il ricordo della rivoluzione del 1979, quello dell’abusata parola “confisca” – che ricorreva nelle riflessioni sul nuovo destino – e quello della Repubblica islamica che aveva infatti confiscato la storia dell’Iran, la sua cultura e la sua tradizione, e insieme l’identità di ogni individuo. 

 

“Oggi – aggiunge – la situazione non è migliorata, ma con le donne e i giovani scesi in strada e con i loro slogan, qualcosa è cambiato. Lo slogan è sicuramente originale e unico, ma non contiene nulla di politico o di ideologico. Questi giovani sono stati privati non solo dei loro diritti politici, ma del loro diritto a esistere come esseri umani decenti e questo è ciò che chiedono. Sono sicura che riusciranno a cambiare non soltanto l’Iran, ma avranno un impatto in tutta la regione e in tutto il mondo”. 

“La lotta dell’hijab – continua – è diventata una battaglia per ottenere e vedere riconoscere qualcosa di più profondo che si è sviluppato. Il regime lo scelse perché era il simbolo più scontato della conquista dell’Iran. Se le donne camminavano in strada con il velo, significava che il regime aveva vinto. L’hanno fatto capire sin dall’inizio che quello era il loro obiettivo, ma gli si è ritorto contro perché le donne iraniane hanno conquistato così tante cose al tempo della rivoluzione, avevano così tanti diritti, che possono guardare al loro passato e vedere quello che ebbero le loro madri, le loro nonne e quello che non hanno loro oggi. Le donne iraniane, dunque, vogliono oggi la libertà che avevano le loro madri e le loro nonne. Non ho idea di come questo regime possa resistergli”.

E in proposito, sull’ayatollah Khamenei, tiene a precisare che “non è certo l’esempio di una leadership”. “Se parliamo della leadership di questa gente, è un problema. Lui non ne mostra alcuna, al contrario mostra solo molta rabbia e continua e dire che non negozierà, che non farà compromessi. E’ uno che si è messo spalle al muro da solo”. “Anche perché in Iran oggi non è più il popolo ad avere paura, ma è il regime ad averla e il popolo si rende conto che è in gioco la sopravvivenza. In più di quarant’anni, da quando esiste la Repubblica islamica, ci sono state altre manifestazioni e proteste e si auspicavano delle riforme. Ma l’Iran non si può riformare. Ora più che mai ci si è resi conto che riformare il paese vuol dire realizzare una rivoluzione e non ci sono vie di mezzo. Non si tratta solo di una rivoluzione politica, perché se fosse solo così basterebbe uccidere o imprigionare dissidenti, leader dell’opposizione e finirebbe come al solito. Parliamo di decine di migliaia di giovani che si riversano nelle strade e nelle piazze: gli sparano contro e loro il giorno dopo ci ritornano in quelle piazze. Di certo non li puoi ammazzare tutti, né arrestare”. 

 

Netta e decisa la posizione di Nafisi anche sul rapporto Russia-Iran, “da sempre ambivalente”. “Da una parte abbiamo la loro splendida letteratura, dall’altra il fatto che la Russia rappresenta un pericolo per l’Iran e ovviamente per l’Ucraina. La democrazia dovrà prevalere in entrambi e se questo succederà, non potrà che contribuire a promuovere e rafforzare la democrazia a livello mondiale. Per combattere la Russia – conclude – non bisogna farlo solo con le armi, ma anche dal punto di vista ideologico”. 

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