Editoriali
La protesta in Iran va avanti da 100 giorni
"Ne resteremo cento e altri cento" gridano i manifestanti. La loro forza sconfigge la paura, che ora è del regime. Che obblica il calciatore Ali Daei ad atterrare, spezza il braccio di Rahnvard prima dell'esecuzione e ne censura le ultime parole.
Cento giorni di proteste è un tempo lungo ed eroico in un paese come la Repubblica islamica d’Iran, dove la repressione è il metodo di controllo normalmente utilizzato per conservare il potere del regime. Resteremo cento giorni ancora e altri cento, gridano i manifestanti, scandendo i numeri della loro resistenza e delle loro vittime, cinquecento e più, e poi migliaia (quasi ventimila) incarcerati in quelle prigioni in cui avvengono torture, stupri, istigazioni al suicidio di cui difficilmente sapremo la portata – almeno finché c’è il regime.
È la prima volta che in Iran una manifestazione grande e trasversale riesce a durare così tanto, e un po’ la ragione sta nelle divisioni del regime sulla risposta più efficace da dare, un po’ nella repressione silenziosa, appunto, quella lontano dalle esecuzioni pubbliche che mira a stroncare la volontà stessa di mettersi contro il regime, ma un po’ – tanto – anche dalla determinazione di questi giovani, e dei loro genitori e dei loro nonni, che hanno deciso di rischiare tutto perché questo scossone sia quello che cambia davvero e per sempre le cose.
Anche i più cinici, quelli che pensano che questa protesta finirà come tutte le altre (spesso sono gli stessi che dicono che gli ucraini non riusciranno a resistere alla devastazione delle bombe russe), non possono non notare che c’è un effetto contagio incontenibile, che la paura di tornare a come era prima di cento giorni fa è più grande della paura degli spari e delle torture.
E anzi sembra più grande – e quindi spaventosa – la paura del regime di dover davvero fare i conti con un popolo che disprezza e annichilisce: così fa atterrare l’aereo diretto a Dubai su cui viaggia la famiglia dell’ex calciatore della nazionale Ali Daei, che ha sostenuto le proteste, estorce la confessione a un condannato a morte di 22 anni, Mohammad Ghobadlou, spezza il braccio a Majid Rahnavard prima di impiccarlo perché aveva tatuati il leone e il sole, simboli pre rivoluzione khomeinista, e censura le sue ultime parole prima dell’esecuzione: siate felici, ascoltate musica allegra.
Isteria migratoria