Foto di Cosima Scavolini, via LaPresse 

Sorella rondine

L'ultimo saggio di Susanna Tamaro, tra attacchi alla modernità e difesa dell'individuo

Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi

Nella sua ultima opera di saggistica, la scrittrice riconosce nel coronavirus un grande processo di colpevolizzazione collettiva: la malattia è stata vista quasi come un momento di espiazione dei nostri peccati 

Nel suo Tornare umani (Solferino, 2022, 288 pp.), Susanna Tamaro coltiva un francescanesimo darwiniano o un darwinismo francescano, a seconda dei momenti: riconosce che il mondo per così dire appartiene ai microrganismi, che esistono fuori di noi in numeri galattici, ma che anche dentro di noi, come microbiota, sono più numerosi delle cellule del corpo, dove ci proteggono da malesseri e ci aiutano a star bene. Solo un paio di migliaia di microrganismi tra quelli conosciuti causano malattie, in alcuni casi letali. Siccome la vita si muove su una precaria zattera in un mare di entropia, la lotta per l’esistenza o i necessari riequilibri darwiniani si accompagnano ai sentimenti francescani per consimili, come rondini o animali domestici, che eliminano gli insetti killer o che ci nutrono. Grazie, sorella rondine? Il fatto è che nell’evoluzione non esiste un progetto, le zanzare non hanno un “senso”, non ce l’hanno i virus, e i valori del francescanesimo, che tutti apprezziamo e rispettiamo come scelte personali, non sono quelli che ci hanno consentito di cancellare così tanta sofferenza dal pianeta (come, in fondo, Tamaro sa bene). 

 

Se Susanna Tamaro fosse una giornalista o un professore universitario proveniente dal variegato arcipelago delle scienze sociali, dovremmo dire che nel suo libro non mancano le imprecisioni. Tamaro scrive che in Inghilterra nel 1840 le vaccinazioni sono state rese obbligatorie: dimenticando che circa 50 anni dopo l’obbligo vaccinale in quel paese scompare e (per ora perlomeno) per sempre. Parla della spagnola come dell’ultima grande epidemia prima del Covid, scordandosi due grandi pandemie influenzali a fine anni Cinquanta e anni Sessanta (e non è una pandemia, benché silenziosa, quella dell’Aids di cui pure Tamaro spesso scrive?). L’autrice di Tornare umani ha una visione un po’ singolare dell’economia. Suggerisce che il capitalismo sia stato una buona cosa “perché ha permesso di uscire dalla povertà e dalla miseria a miliardi di persone”, ma dimentica che non ha mai fatto uscire dalla povertà tante persone come negli ultimi vent’anni, quando era già quello che lei chiama “squalene”, il regno dell’avidità sulla terra. 

 

Il suo però è un libro strano quanto potente. Gli argomenti si rincorrono nel testo in ordine sparso: invocazioni francescane, darwinismi, sensibilità conservatrici, sprazzi di liberalismo. L’evoluzione si nutre di diversità (non necessariamente le biodiversità di cui parlano gli ecologisti) per cui il coronavirus, una volta diventato un parassita dell’uomo con una certa efficacia di trasmissione, si è lanciato in una corsa darwiniana per fabbricare un numero maggiore possibile di copie di sé stesso, ognuna diversa per virulenza, trasmissibilità, patogenicità, etc. A questa esplosione di vita o semi-vita si è contrapposto il nostro sistema immunitario, che non difende tutti alla stessa maniera, e abbiamo avuto bisogno di vaccini per evitare un numero di morti prossimo a quello della spagnola.

 

La vulgata vuole che questi fenomeni sarebbero marginali, e prevedibili, se noi lasciassimo intatta la biodiversità. Ma non ci sono prove che sia così. Se la vita evolve in ragione della diversità, se i patogeni sono tanti e se le comunità umane devono sopravvivere sul piano economico e alimentare, forse l’unico modo in cui la biodiversità potrebbe proteggerci è riportare il pianeta a com’era circa diecimila anni fa: quando era tutto biodiversità, gli esemplari umani erano complessivamente circa 5 milioni e non avendo inventato l’agricoltura e addomesticato gli animali decine di patogeni ancora non erano agenti infettivi e letali per l’uomo (incluso il virus della rabbia). La biodiversità funziona in alcuni casi da tampone e in altri no: dipende dal contesto climatico, dalla natura del parassita, dei potenziali vettori, etc.

 

Susanna Tamaro non è però una collega universitaria: è uno dei grandi narratori italiani del nostro tempo e, se ci è permesso dirlo, forse l’unica fra essi che, quando interviene nel dibattito pubblico, lo fa evidentemente perché sente di avere qualcosa da dire, libera dall’eterna malattia di chi scrive che è la vanità. Ha poca passione per le opinioni degli uomini, come dice lei stessa, e sarebbe sbagliato cercare in questi appunti trasformati in saggio una coerenza cristallina. Tornare umani è una grande invettiva. Ma è anche qualcosa di più prezioso: un libro che fa pensare, perché è un esercizio appassionato di pensiero critico. Non “critico” di questo o di quello, anche se è palese che per Tamaro il governo italiano è stato tutto fuorché un modello nella gestione della pandemia. Critico nel senso di costantemente impegnato a ridiscutere ogni luogo comune, ogni idea data troppo velocemente per scontata. Verrà forse liquidato, dal lettore dabbene, come un libro no vax, e l’autrice non si preoccupa di mettere le mani avanti, portando sia argomenti che fanno parte del dibattito consueto al di fuori delle sette, incluse quelle degli scienziati, sia critiche alle politiche vaccinali ispirate non dalla fede ma dalla disperazione, disperazione per quella che Tamaro chiama, con una chiarezza per nulla scontata e nemmeno gratuita, la deriva totalitaria della società italiana.

 

In larga misura, il saggio di Tamaro è una difesa della “saggezza popolare” contro governanti ed esperti. Talvolta questa saggezza si mescola con il retrospettivismo, che significa giudicare il passato migliore, in più sensi, del presente. Nondimeno, il senso comune non è solo quello che durante la peste di Milano per Alessandro Manzoni costringeva il “buon senso” a star “nascosto”. Sul piano della soluzione dei problemi, insegnava Karl Popper, è un imprescindibile punto di partenza (“il senso comune appartiene più allo spirito che non le idee false” diceva Madame de Staël).

 

Tamaro pensa che i bambini che si immunizzavano contraendo naturalmente i patogeni stessero meglio di quelli che vivono in ambienti sterilizzati. Il nesso causale non è così chiaro, altrimenti l’aumento dell’asma nei paesi industrializzati, dove i bambini muoiono e s’ammalano di meno perché meno esposti a parassiti ma comunque esposti a nuovi fattori ambientali, e si vaccinano, si potrebbe considerare un peggioramento della loro salute, rispetto a quelli che abitano nelle periferie di Nairobi, senza che si registrino casi di asma infantile perché sono infestati da vermi parassiti.

 

Nondimeno è pertinente l’esempio che discute Tamaro e che riguarda quei giorni tristemente indimenticabili, in cui quel poco o quel tanto di credibilità di politica, media ed esperti venne picconato dalla faciloneria con cui questi ultimi dettarono la linea ai primi. Le mascherine servono solo in ospedale, guai ad accaparrarsene, così ci veniva detto. La “saggezza popolare” si mette in moto da sola, le mamme cominciano a sferruzzare, le imprese ad adattare linee di produzione per fabbricare dispositivi di protezione individuale.

 

Tempo qualche giorno e le mascherine sarebbero diventate imprescindibili per quegli stessi esperti che avevano spergiurato che fossero inutili. Oggi, si tratta ormai dell’equivalente di quello che una volta era farsi vedere con l’Unità sottobraccio. Chi si mette la mascherina anche all’aperto, quando cammina in solitudine, vuole segnalare un’appartenenza politica. E ci mancherebbe, è un suo diritto come lo è fare la stima che crede dei rischi che corre e tarare i suoi comportamenti di conseguenza. Il guaio è che la pandemia è stata anche, come scrive Tamaro, un grande processo di colpevolizzazione collettiva: la malattia è stata vista, quasi fossimo rimasti mentalmente fermi a un mondo magico-tribale, come un momento di espiazione dei nostri peccati e il contrasto al contagio è passato per una continua divisione della società in buoni e cattivi. Prima gialli, arancioni e rossi, poi “green” come il lasciapassare che siamo stati costretti a esibire. Un po’ lo pensa anche Tamaro, per cui il Covid ci ha presentato il conto delle nostre più varie dissennatezze: dalla vita in ambienti urbani, all’eccessiva dipendenza da farmaci, etc. Ma non c’è pagina dell’arringa di Tamaro in cui i conti che ci presenta il pianeta siano una colpa per cui crocifiggere la concreta libertà degli individui.

 

I quali per l’autrice di Va’ dove ti porta il cuore sono stati indeboliti dalla pandemia non tanto nel corpo: “nell’anima”. Psicologicamente, non c’è dubbio. Confusi dalla cacofonia di esperti e politici (“non ti vaccini, contagi, muori o fai morire”), purtroppo narcisi e intellettualmente sciatti gli uni e gli altri. Così come la perdita dell’illusione dell’infallibilità della medicina, la triste riscoperta della mortalità e della morte, ci ha reso un paese di ipocondriaci, che ha imparato ad avere paura del virus indipendentemente dalle conseguenze. E che tutt’oggi guarda con sospetto chi dà un colpo di tosse o fa uno starnuto.

 

C’è molto da meditare, nel testo di Tamaro, anche e soprattutto per chi ama la società libera. Che ha bisogno di spiriti indipendenti, di personalità consapevoli dei rischi che vivono e non avulse dal mondo in cui abitano. Ha ragione Tamaro quando nota che ormai non sappiamo più niente dei prodotti che compriamo sul mercato e rischiamo quindi di credere che caschino dal cielo: che dietro non ci sia la fatica, e la responsabilità, degli esseri umani. E ha ragione di nuovo quando sottolinea che la società dell’immagine implica una sorta di regressione evolutiva, che ci porta a credere che tutto quello che vediamo sia vero e viceversa (uno dei bias che erano potenti nel mondo dell’evoluzione pleistocenica ma tra i più ingannevoli per navigare nelle società complesse), perdendo il senso di interrogarci sul mondo e diventando creduloni di massa.

 

E, ancora, anche chi non crede deve ammettere che l’ablazione della dimensione religiosa dalla vita umana rischia davvero di travolgere l’idea della dignità del singolo: se non altro perché mentre esisteva la fede dei semplici, un mondo senza credenze profonde rischia di essere un mondo nel quale le persone abbracciano acriticamente la prima pseudo-fede che incontrano. Ci saremmo aspettati, nel suo libro, qualche parola in più sulle autorità ecclesiastiche che hanno consentito così repentinamente a chiudere le chiese, in piena pandemia, fissando un precedente pericolosissimo anche per chi, fra i laici, non dimentica che tutte le libertà nascono sul calcolo della libertà religiosa. 

 

Giustamente Tamaro scrive che è assurdo “credere” nei vaccini, espressione infelicissima che ben segnala quello che è stato il dibattito pandemico: uno scontro politico, a tratti para-religioso. E fa bene a criticare il mantra altruistico che ci si deve vaccinare per gli altri, quando in realtà si scopriva che i vaccini non proteggono tanto gli altri ma soprattutto chi li assume. Ancor meglio fa Tamaro a ricordarci l’assurdità di norme che hanno immaginato “muri” fra regioni (che paragona al muro di Berlino) o l’impossibilità di uscire dal comune di residenza: quando i nostri governanti sono riusciti a dimenticare che l’Italia non è solo Roma e Firenze ma anche “migliaia di comuni i cui confini sono compresi in una manciata di chilometri e i cui abitanti sono stati costretti per mesi a camminare in circolo come Paperone nel suo deposito di dollari”.

 

Mettiamo solo le cose in prospettiva. Prima del Covid, l’aspettativa di vita per un over 65 in Italia era, nel 2018, di 21,3 anni: dopo il Covid, nel 2021, 20,8. I valori sono più o meno gli stessi in tutt’Europa, con l’eccezione della Svezia: 20,4 nel 2018 e 20,9 nel 2021. Il paese meno “lockdownista” è quello che per primo ha recuperato il tempo perduto. Il che ci suggerisce due riflessioni conclusive. La prima è che il mondo della scienza moderna avrà i suoi vitelli d’oro, da cui stare in guardia, ma tutto sommato mantiene molte delle sue promesse.

 

La seconda è che il paese che ha meno costretto i suoi cittadini “a camminare in circolo come Paperone nel suo deposito” non è quello dove gli esiti sanitari sono stati peggiori, anzi. Per capire come e perché la pandemia abbia colpito più alcuni che altri ci vorranno anni di studi, e non è detto che suffraghino le ipotesi di Tamaro o quelle di altri. Ma senz’altro, come suggerisce il suo francescanesimo darwiniano dai riflessi liberali, il mondo è un ecosistema complesso e così sono, anche se fortunatamente meno, le società umane. La libertà personale è parte integrante della capacità autoregolatrice delle nostre società complesse. Non andrebbe trattata come un rubinetto che si possa aprire o chiudere alla bisogna.

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