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Il Foglio del weekend

Colette: colei che, forte e volitiva, scandalizzava la borghesia benpensante

Valentina Fortichiari

A 150 anni dalla nascita, la Francia celebra un'autrice divenuta immortale. Convinta di non possedere immaginazione - o peggio, di odiare la scrittura - lavorando al meglio di sé con onestà e rigore, diventa scrittrice “quasi senza accorgersene”

Tutti i lavori che non mi piacciono sono quelli che esigono pazienza. Per scrivere un libro ci vuole pazienza, e anche per addomesticare un uomo allo stato selvatico e per mondare l’uva passa destinata al plum-cake. Non devo essere stata né una brava cuoca né una brava moglie” (La nascita del giorno, Adelphi). E invece Colette si sbagliava: lungo l’intera sua movimentata esistenza non solo ha lasciato libri memorabili, ma ha saputo addomesticare uomini e donne e cucinare prelibatezze apprezzate dagli amici. Golosa, avida d’ogni piacere della vita, bellissima fin da bambina, occhi e viso da gatta, il potere di un fascino magnetico arrivò per gradi da esperienze e sconfitte, estasi e dolori. L’anno prossimo la Francia si prepara a grandi celebrazioni: in testa l’idolo Colette a 150 anni dalla nascita. Oltre che a Parigi, sarà certamente festa nel suo paese natale, Saint-Sauveur-en-Puisaye, dove è custodito il grande archivio-museo, pieno di ritratti, di oggetti come la celebre collezione di press-papier, le penne stilografiche, la coperta di lana del divano e le innumerevoli pubblicazioni. La scrittrice si troverà in eccellente compagnia, insieme a personaggi e artisti che hanno fatto grande la nazione: Blaise Pascal (400 anni), il mimo Marcel Marceau e Gustave Eiffel (100 anni), Sarah Bernhardt (100 anni dalla morte).

Colette è nata il 28 gennaio 1873, dopo un interminabile travaglio nella camera che non si riusciva mai a riscaldare, nel vecchio villaggio del dipartimento della Yonne, nella regione della Borgogna povera. In quel piccolo “borgo gretto, avaro e chiuso”, la madre Sido, anticonformista, apriva la sua dimora borghese, una grande casa bassa, a gatti randagi, a vagabondi e a serve incinte. Da lei, donna intelligente, protettiva, Colette assimilò tutto: a tre anni – precocissima – impara a leggere. Trascorre l’infanzia fra giochi maschili in compagnia dei due fratelli amatissimi; cresce abituata a “giochi verbali irriverenti, calembours e acrostici satirici”; impara a occupare poco posto, a fare poco rumore. Vive tra alberi e bestie, acque e venti, boschi e albe. Creatura d’alba, convinceva la madre a svegliarla alle tre e mezza, e si avviava con due panieri vuoti verso le fragole, il ribes nero e il ribes rosso e peloso: “Tutto dormiva in un azzurro primordiale, umido e confuso, e io scendevo per il sentiero sabbioso mentre la nebbia inumidiva le mie gambe e il mio piccolo torso ben fatto prima di salirmi fino alle labbra, alle orecchie e alle narici, più sensibili di tutto il resto del corpo. Ero sola, in uno stato di grazia indicibile” (Sido, Adelphi). Se diventa una creatura tutta occhi, lo deve ancora una volta a sua madre: fin da piccola l’imperativo di Sido è “guarda!”. La bambina ricettiva, curiosa, estrosa, non avrebbe mai dimenticato che dallo sguardo, dagli occhi, passa la percezione prima delle cose e del cuore. Ma impara presto a usare tutti i sensi: poteva udire il rumore dell’erba che cresce, il soffio di ogni filo d’erba che si muove. Con il suo olfatto di cane, sapeva districare gli odori e dare un nome a ogni cosa che il naso percepiva.

“Sono nata in Balzac” ha spesso ricordato Colette, Balzac letto a 6-7 anni, insieme a Daudet, Shakespeare, Mérimée. A dodici anni le prime sventure e separazioni: una malattia la costringe a studi da autodidatta, la sorellastra si sposa. Sedicenne, con la famiglia oppressa dai debiti, a malincuore lascia la casa natale e si trasferisce a Parigi. Un amico dei suoi, prestigioso giornalista molto più vecchio di lei, Henry Gauthier-Villars, detto Willy, uomo attivissimo, astuto, mondano, viveur nella Belle Époque parigina, frequenta la nuova casa più angusta, portando in dono libri, riviste illustrate, dolci. Gli fu facile mettere gli occhi sulla ragazza e, diciottenne, sposarla. Willy ha un vizietto: oltre alle amanti irrinunciabili, gestisce un’officina letteraria dove schiavizza scrittori che lavorano per lui. Le frequentazioni del marito (Marcel Schwob, Anatole France, Marguerite Moreno, Proust, la bella Otero, Paul Valéry, Ravel, Debussy) emozionano Colette e le aprono un mondo. La coppia suscita curiosità, ma la giovane, refrattaria alla vita da bohème, restava in disparte a guardare, perdendo il contatto con i pensieri, depressa, affaticata da notti disordinate, afflitta dai tradimenti di Willy. Non riusciva a ingannare la madre che vedeva “attraverso le muraglie”: era evidente quanto fosse infelice. E’ questo l’amore? si domandava, troppo acerba per i palpiti del desiderio, ancora troppo romantica e sognatrice. Colette l’aveva osservato da vicino l’amore fra i genitori, leggendo negli occhi materni color della pioggia “quel turbamento, quella fuga vana delle pupille inseguite da uno sguardo maschile”: la passione che, per tutta l’esistenza, unì Sido al Capitano, suo padre. Molti anni dopo, sarebbe arrivata alla conclusione che l’amore, “verdura prediletta” della sua scrittura, è una delle grandi banalità dell’esistenza: “Non amare, bambina. Amare è la più grande sciocchezza, soffrire d’amore è inevitabile ed è uno spreco di energie che ogni donna dovrebbe imparare a risparmiare a sé e alle altre”. Sarebbe stata capace di fuggire lontano da Willy? A quell’epoca, le ragazze di provincia non potevano neppure concepire l’abbandono coniugale; lei, inoltre, non possedeva nulla.

E così, forte di quella sua duttilità che per lei significava il dominio su se stessa, dell’arte di dissimulare, ovvero la paziente arte domestica di saper attendere, raccogliere briciole, ricostruire, cambiare in meglio il peggio, perdere e riconquistare nello stesso istante “il gusto frivolo del vivere”, prende l’abitudine di accoccolarsi a un capo della scrivania, la finestra dietro di sé, una spalla di sbieco, le ginocchia contorte, e si mette a scrivere “con applicazione e indifferenza”. Riempie quaderni simili a quelli di scuola, dai foglietti rigati di grigio, con la linea del margine rossa, il dorso di tela nera. Convinta di non possedere immaginazione, peggio, di odiare la scrittura, lavorando al meglio di sé con onestà e rigore, nasce scrittrice “quasi senza accorgersene”, sperando comunque di diventare qualcuno. Ci prende gusto, al punto che se rimane anche una sola settimana senza scrivere, la sua mano disimpara. Willy la spia, la controlla, suggerisce: “Dovreste buttar giù dei ricordi della scuola elementare. Non abbiate timore dei particolari piccanti, magari potrei ricavarne qualcosa… siamo a corto di fondi”. Ma i racconti di Claudine finiscono nei cassetti e lì rimangono lungamente, finché, di ritorno da una villeggiatura, il marito-editore li ritrova, mettendo ordine tra le scartoffie: uno, due, tre, quattro quaderni annotati fitti con una grafia minuta ma chiara, e si accorge che le storie trasudano spregiudicata sensualità, ammiccante selvatichezza, ricche come sono di pigmenti erotici, più amorali che immorali. 

La vicenda è nota, lo scaltro Willy se ne appropria, pubblica con la sua firma, ladro di scrittura. Colette, caparbia, combattiva (“infinita è la resistenza di una donna. E’ fatta di acciaio!”, La vagabonda) compie un gesto di ribellione: si taglia i capelli lunghissimi, si pettina a caschetto secondo la moda parigina, e diventa finalmente se stessa, donna guerriera e seduttiva, che lascia dietro di sé una scia di verbena, il suo profumo preferito: “Voglio fare quello che voglio. Voglio fare la pantomima e anche la commedia. Voglio ballare nuda. Voglio scrivere libri tristi e casti dove ci saranno solo paesaggi fiori lutti orgoglio, e l’umiltà di adorabili animali che hanno paura dell’uomo. Voglio sorridere in ogni volto amico, e stare lontana dalle persone brutte” (La vigna, 1908). Si disfa del grasso Willy (“c’è un solo letto in casa nostra, troppo largo per te, un po’ stretto per noi due”), lo porterà in tribunale ingaggiando una battaglia legale per rientrare in possesso dei diritti delle sue opere. Da questo momento sarà sempre circondata da una corte di persone adoranti. Si riprenderà tutto della vita: lei, che detesta soffrire per amore, farà innamorare e soffrire; lei, che non ha mai saputo piangere con decenza, facilità e commozione (“le lacrime mi sono crudeli come la nausea”), che rifugge dalla morte (non andrà al capezzale della madre), saprà che l’unica cosa che conta è la capacità di svelare e disseppellire ciò su cui nessun occhio umano si è posato prima del suo. E a questo si applica sino a diventare una delle più celebri scrittrici della storia letteraria del primo Novecento e una donna d’impareggiabile modernità.

La riuscita di una creazione è per Colette una questione di incontro di parole, non soltanto di pensiero: il piccolo miracolo che lei chiamerà uovo d’oro, bolla, fiore, si svelerà anche solo in una frase, se degna di quello che avrà voluto raccontare. Scrivere sempre tra Balzac e Proust sarà il suo credo, sia pure prediligendo una forma breve, lampi di immaginazione e di rivelazioni: lo dimostrano libri perfetti, capolavori come La vagabonda, Mitsou, ovvero come le fanciulle diventano sagge, Il grano in erba, Il puro e l’impuro, Il mio noviziato, Sido, una letteratura senza aggettivi, come raccomandava lei stessa. E’ formidabile nel mettere a nudo il cuore nelle lettere, bellissime, sensuali: le scrive su quei peculiari fogli di carta azzurrina che sul tavolo buio guidavano la sua mano come fossero fosforescenti. Lettere a Missy, la marchesa de Morny, una delle sue amanti, che dopo la rottura le lasciò, spoglia di mobili, la casa bretone di Rozven acquistata nel 1910, anno del divorzio da Willy. Un edificio a due piani immerso nel verde, con grandi finestre affacciate sulle dune e sulle maree, che Colette, nuotatrice possente, temeraria, sfidava senza costume; dimora in estate piena di luce e di ospiti, artisti col dono di sentir muovere i pensieri. Lettere al secondo marito, il diplomatico Henry de Jouvenel, uomo gentile, riservato, inutilmente inseguito (“sai benissimo che io posso essere solo molto triste o molto felice a causa tua. Tu conosci il mio desiderio. Ne ho uno soltanto. Ha il tuo viso e la tua forma e come limite la mia vita”), il quale la tradì più volte ma ne fu ripagato, anzi scandalosamente sostituito nel cuore di Colette dal figliastro: il sedicenne Bertrand de Jouvenel, dal fascino di un uomo che si andava formando sotto i tratti ancora acerbi di adolescente. Colette, a quarantasette anni, ancora piena di misteriosa attrattiva, lo sedusse nel 1920 in Bretagna con lezioni estive di nuoto, sesso, letture, scrittura, vita. Furono cinque anni di passione autentica.

Si deve a Marcel Proust uno dei più significativi apprezzamenti di Colette. In una lettera le confessò di essersi commosso dopo tanto tempo leggendo guarda caso le lettere di Mitsou al suo tenente: “Le due lettere finali sono il capolavoro del libro”. Onori e riconoscimenti non le mancavano: si sarà infine convinta di essere diventata qualcuno? Quel che è certo è che non avrebbe mai rinunciato al tempo dedicato alla scrittura, eppure, quando dovette scegliere fra una gravidanza e un romanzo, non esitò a sacrificare il secondo: scodellò Colette Renée de Jouvenel (la piccola Bel-Gazou – cinguettina), figlia di Henry, la affidò a governanti e infine tornò in fretta a scrittura e teatri. Questa donna vigorosa, volitiva, che aveva calcato senza veli le scene al Moulin Rouge; che durante la Prima guerra, bardata da pilota, si era alzata in volo sull’ultraleggero Caudron per una ricognizione su Parigi, di cui avrebbe steso un reportage per il Matin, a ottant’anni è ormai gloria della Francia e d’oltreconfine: medaglia della città di Parigi, nomina a Grande Ufficiale della Legion d’onore, prima donna in assoluto, presidente dell’Académie Goncourt, membro onorario del National Institute of Arts and Letters di New York. Invecchiata, sofferente anche per la perdita dei suoi animali, la gatta certosina e il bulldog Souci, afflitta dall’artrite, riceve amici e notabili mollemente adagiata sul divano-zattera in una stanza del Palais Royal, dove le fu concesso di vivere l’ultimo anno. Si spegne il 3 agosto 1954, gli occhi fissi sui giardini fuori dalle finestre. 

Lei, che non era interessata alla morte, neppure alla sua, quale patto avrà intrecciato con se stessa per divenire immortale? Avrà forse voluto riscattare il sogno del padre di diventare scrittore? Alla morte del Capitano era sparita la spilla di Balzac che lui teneva sempre con sé, talismano di tentativi letterari abortiti, ma soprattutto venne alla luce un tragico segreto: decine di volumi cartonati, duecento, trecento pagine ciascuno, una bella carta spessa, centinaia di fogli interamente bianchi, muti. Un’opera immaginaria, il miraggio di una carriera di scrittore, con una dedica, l’unica pagina redatta e firmata: “Alla mia cara anima il suo sposo fedele, Jules-Joseph Colette (1829-1905), capitano zuavo in congedo, sprovvisto di senso pratico”. Sido, la moglie, usò la carta per le cotolette al cartoccio, per foderare cassetti, per cancellare la prova di un’impotenza. La figlia Colette si sentì in dovere di coprire quella scrittura invisibile, mai nata, una filigrana di formiche che soltanto lei poteva intuire, innamorata dell’uomo che celava in sé la “profonda tristezza dei mutilati”, di cui, quand’era sola, cercava di imitare lo sguardo. Non a caso – come autrice – Sidonie Gabrielle volle chiamarsi per sempre Colette, dal cognome paterno.

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