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lezioni dal sottosuolo

Dostoevskij aveva capito che è sempre al buio che si scopre la verità

Marco Archetti

I perfidi complimenti di Nabokov al “coccodrillo”: un autore con individabili lampi umoristici non perseguiti; ovvero il grande scrittore russo come un bravo "a sua insaputa"

Sarà anche stato un interior designer cupo e ripetitivo (ogni tugurio è lo stesso tugurio, e sono sempre e solo tuguri, mentre tra l’uno e l’altro si affanna un febbricitante, per raggiungere un altro febbricitante, con l’urgenza di esporre un dilemma filosofico senza dono della sintesi – l’agenda Dostoevskij è questa) ma l’autore delle Memorie del sottosuolo e di Delitto e castigo aveva capito tutto di tutto. E soprattutto una cosa: è sempre al chiuso e al buio che divampa la verità. Mai all’aperto, mai alla luce del sole. Ma quale sole? È sempre in stanze che “sembrano armadi” o in avanzi d’angolo affittati per cifre irrisorie, nicchie umide e gelide tra le pareti delle quali palpita una fiammella che resterà accesa per tutta la notte.

 

Serena Vitale ha curato Il coccodrillo, squisita barzelletta dostoevskiana forse incompiuta da poco uscita per Adelphi (97 pp., 12 euro) e anche qui è innegabile quanto il buio e il chiuso abbiano la loro rilevanza: è nelle viscere del rettilone che il funzionario Ivan Matveicč – sullo sfondo di una Pietroburgo gremita di funzionari e sottofunzionari, ginepraio di fantasmi e nasi e cappotti in cui il caso e il destino fanno giochi di prestigio e calano l’ascia di condanne definitive – diventa filosofo.

 

Gli basta una gitarella al Passage, la galleria commerciale inaugurata sulla Prospettiva Nevskij nel 1848, per andare ad ammirare (a pagamento, il coccodrillaio è un tedesco ovviamente avido e spregevole) il curioso “animale fossile”, “sonnacchioso abitante del regno dei faraoni”. Lo fa in compagnia della civettuola mogliettina e di un amico, voce narrante di questo scherzo letterario. Tra un cinguettio di spavento da parte della moglie, qualche galanteria approssimativa del Tedescone Proprietario e impavide affermazioni del funzionario che sarà filosofo, la storia procede.

 

“Tutto andava per il meglio ed era impossibile prevedere quanto avvenne dopo”, scrive a un certo punto Dostoevskij, lasciandosi sfuggir di mano la sua passione per il tell, don’t show. E infatti, un urlo terribile squarcia la stanza: l’urlo di Ivan Matveicč, abbrancato dalla fauci del coccodrillo e già ingoiato fino ai fianchi, che agita disperato le gambette. E qui, per un momento, anzi, per le tre, quattro pagine seguenti, agli occhi del lettore balena il Dostoevskij che Dostoevskij non è mai stato, o per lo meno non è stato del tutto, stando a Nabokov, ossia un autore con invidiabili lampi umoristici non perseguiti (Nabokov gli fece questo complimento col tono perfido di chi in realtà stava malmenando, riconoscendo sì una qualità indubbia allo scrittore, ma denunciandone l’ottusità nel non comprenderla; sintesi un poco sbrigativa ma forse non lontana dal vero: si diede a un parziale riconoscimento dell’esistenza di un Dostoevskij bravo “a sua insaputa”). 

 

La scena del coccodrillo che inghiotte Ivan è ragguardevole, ha tutti i requisiti per essere proposta come pagina di scrittura umoristica esemplare. E c’è tutto: le fasi ridicole dell’inghiottimento, le pose tragicomiche dell’inghiottito, la sua umiliazione in quanto smargiasso (“non ci può fare niente” aveva finito di dire), l’egoismo dell’amico che pensa “fortuna che non è toccato a me”, il comico parapiglia e il serrato a botta e risposta che ne segue, mentre tutti litigano per ragioni molto bieche.

 

Da lì in poi – vera grande sorpresa – ecco tutti i temi dostoevskiani, tutti i dispositivi che conosciamo perfettamente e che amiamo, giocati in chiave comica: la descrizione del “piccolo studio” di Timofej Semënyč, il capo di Ivan, da cui si reca l’amico dell’Inghiottito per cercare di garantirgli continuità di stipendio e una soluzione; il loro dialogo “maieutico”, parodia del dialogo dostoevskiano qui al servizio non del dilemma filosofico ma di dilemmi volgari; e soprattutto il delirio di Ivan, il quale, dall’interno del coccodrillo, finalmente libero da preoccupazioni e forte del suo nuovo status di nullafacente, cioè di filosofo, può finalmente capovolgere le sorti dell’umanità e darsi all’elaborazione di massimi sistemi. In un giorno dichiara di averne partoriti tre. “Se non Socrate”, proclama senza ironia, “sarò almeno Diogene” – e ne annuncia un quarto.

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