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L'indecente Dostoevskij

Marco Archetti

Prolisso, sciovinista, facile al sentimentalismo. Ma ha scavato in se stesso senza reticenze, e specchiarsi in quella vertiginosa profondità è ancora, a 200 anni dalla nascita, la più grande esperienza che possa capitare a un lettore

Trentadue chili di Karamazov: i manoscritti dell’ultimo romanzo di Fëdor Dostoevskij pesano quanto un bambino in età scolare. Certo non sarebbe da meno anche un’ipotetica antologia firmata dai detrattori dello scrittore, compresi quelli riluttanti come Harold Bloom, il quale non rilutta per niente quando si tratta di definire Dostoevskij “oscurantista religioso, fanatico che non capiva nulla imbevuto di un cristianesimo che era solo una malattia dell’intelletto aggravata dal virus nazionalista”, ma poi davanti a questa monumentale opera – i Karamazov, appunto – depone le armi, la celebra pur definendo irritanti alcuni passaggi e definisce shakespeariano il genio dell’autore che l’ha scritta (oddio, a dir la verità dice “quasi shakespeariano”). Tra i detrattori non riluttanti ci fu Vladimir Nabokov: come noto, definì “Delitto e castigo” una spaventosa tiritera, confessò di disprezzare “I fratelli Karamazov” e di non sopportare tutto il mediocre congegno dostoevskiano, alimentato da dispositivi triti, da una grave mancanza di gusto e di stile, da orride sbrodolate a cuore aperto, da un intollerabile sentimentalismo e da un perverso piacere nel crogiolarsi nelle disavventure umane, che Dostoevskij osservava come un entomologo masochista, in ossequio a un gusto – scriveva – “da novella sentimentale”.

 

 

Anna Achmatova, che nel frattempo si godeva Dante in lingua originale, evidentemente trovava il tempo anche per leggere altro, e diceva che le risultava sempre più chiaro come tutti i personaggi di Dostoevskij fossero dei personaggi puškiniani invecchiati – e chissà se intendeva celebrarne la compiutezza o biasimarne la bolsaggine. A consegnarci una schietta fotografia della visione che di Dostoevskij avevano i contemporanei ci pensò invece il principe Dmitrij Petrovič Mirskij, autore di una “Storia della letteratura russa” ancora esemplare per tono, ariosità e profondità. “Lo considerarono come uno scrittore di grandi doti ma di dubbio gusto e di insufficiente disciplina – scriveva – che aveva vedute originali su questioni di interesse generale e una notevole capacità di creare personaggi vivi. Ma ne deplorarono la mancanza di misura, il grottesco travisamento della vita reale, la tendenza agli effetti crudamente sensazionali, ammirandone però la sua enorme conoscenza dei tipi umani morbosi e la sua capacità di analisi psicopatica”.

 

Stefan Zweig, che pure lo amava al punto da dedicargli una biografia, ne “Il mondo di ieri” se la prendeva con gli scrittori prolissi e lo tirava in ballo senza mezzi termini. “Per mancata virtù – scriveva – io sono un lettore impaziente e passionale. Qualsiasi prolissità, qualsiasi vago e nebuloso sentimentalismo, tutto ciò che, insomma, è superfluo e rallenta la narrazione, mi irrita profondamente. Persino nei più celebri capolavori classici mi disturbano i numerosi passaggi farraginosi e stentati, e ho spesso esposto agli editori il temerario progetto di ripubblicare una collana dei maestri della letteratura mondiale – da Omero alla ‘Montagna incantata’, passando per Balzac e Dostoevskij – in una versione con tagli radicali di tutto ciò che è superfluo, così che queste opere, di una potenza narrativa che va senza dubbio al di là del tempo, possano tornare a vivere esercitando la loro influenza sulla nostra epoca”.

 

Nikolaj Strachov, critico letterario e scrittore, mischiando ingenerosamente le carte biografiche con quelle letterarie, in una lettera a Tolstoj arrivava a dire: “Tutti i romanzi di Dostoevskij sono un’unica autogiustificazione. Dimostrano che nell’uomo le perfidie più orrende possono benissimo coesistere con la nobiltà dei sentimenti. Dostoevskij era cattivo e vizioso. E nonostante una natura di questo genere era incline a un sentimentalismo dolciastro e a sogni umanitari elevati.” Ci fermiamo qui ma si potrebbe far l’alba: il catalogo degli antidostoevskiani – compresi quelli che la buttano sul personale – è fittissimo. I più condivisi capi d’imputazione? Quelli arcinoti: prolissità, facilità al sentimentalismo, tortuosità logica, dialoghi sfinenti. E queste sono le recriminazioni di ordine formale, perché poi, volendo, se ne potrebbero aggiungere altre, di natura più sostanziale. Sempre Zweig: “Mostratemi un solo individuo nell’opera di Dostoevskij che respiri tranquillamente, che si riposi! Nessuno! Tutti corrono. Da tutte le parti, nel gelo e nell’arsura, si manifesta l’ardente bramosia di questi insaziabili, questi sfrenati. Hanno tutti i visi contratti, vivono tutti nella febbre, nella convulsione, nello spasimo. ‘Un ospedale di nevropatici’, in questo modo un grande francese definì, sgomento, l’opera di Dostoevskij”. E così via deprecando, fino all’accusa più drastica che scuote le fondamenta dello spirito dostoevskiano, ossia quella di aver rappresentato irrealisticamente la Russia come una specie di Terra promessa e di aver attribuito al popolo russo, in forza di un messianismo esaltato, il ruolo di redentore dell’umanità.

 

Per farsene un’idea basta leggere il famoso discorso su Puškin pronunciato l’8 giugno del 1880 – discorso che Ivàn Aksakov, uno dei maggiori riferimenti per il mondo slavofilo, definì “un avvenimento” – in cui Dostoesvkij si fa prendere la mano e sostiene che Puškin tende alla “rispondenza universale” più di Shakespeare e Cervantes proprio perché è russo, e che il genio e l’animo russo sono i più adatti, tra quelli di tutti i popoli, a racchiudere in sè – in quanto “tratto morale nazionale” – l’idea dell’unione di tutta l’umanità, dell’amore fraterno e la “sana concezione di perdonare al nemico e appianare le contraddizioni”. Non solo lo afferma in quel celebre discorso, ma lo ribadisce in una lunga chiosa che si può leggere nel primo capitolo della sezione “agosto 1880” in “Diario di uno scrittore”. (Appunto a margine: certamente Dostoevskij fu uno sciovinista che ebbe opinioni offensive su altre nazionalità e forse anche un’idea sbrigativa dell’Europa, ma seppe rappresentare meglio di chiunque altro sia le qualità visionarie sia le contraddizioni nichiliste della russità secondottocentesca, incline a una visione apocalittica del mondo e anche della Storia: se non si parte da qui, si va a finire fuori strada, o chissà, al prossimo giro, in un giardinetto pubblico ad abbattere una statua).

 

Tornando a noi. Difficile non essere d’accordo col contenuto delle critiche mosse a Dostoevskij. In fondo, nessuno tra questi detrattori dice cose sbagliate. Tutti sottolineano aspetti innegabilmente presenti nella scrittura di Dostoevskij e comprendere le ragioni per cui non lo sopportano non è difficile: è facilissimo. Il punto, però, è un altro. Ed è che la stazza di Dostoevskij è tanto monumentale e smisurata che i suoi difetti sono solo un sassolino in un ingranaggio colossale, una minuscola parte di tutto ciò che va afferrato, compreso e meditato per avere un’idea anche solo vaga di tutto il resto, che conta davvero: la portata di un’opera che ha pochi uguali nella letteratura universale. Tuttavia, non ci si nasconderà: anche a chi lo ama è capitato di non amarlo. Anche chi lo ama ha vissuto momenti di fragilità, in cui la pazienza è stata messa a dura prova. Anche chi lo ama ha dovuto fronteggiare certi passaggi in cui il profluvio emotivo, tutti quei tuguri putrescenti e l’ennesima febbre cerebrale hanno scosso l’incrollabilità dell’amore. Ma allora perché, alla fin fine, amarlo è inevitabile? Perché Dostoevskij, attraverso le sue opere, “crea” il Lettore. Dostoevskij pretende tanto, chiede tutto, ma restituisce centuplicato. Tra le sue pagine prendono vita le domande prime e ultime che siamo obbligati a guardare in uno specchio di vertiginosa profondità. Nei suoi romanzi ci sono il tormento, il cruccio, l’enigma morale. C’è l’uomo che rotola in basso e poi anela al sublime mentre ancora è inzaccherato di fango. C’è la disperazione che si fa santità e una santità che si nutre di disperazione. C’è l’uomo che bestemmia una preghiera e santi che somigliano a bestemmiatori. Ci sono assassini laidi, asceti scalzi, studenti febbricitanti, pigionanti squallidi e pedofili improvvisamente munifici. C’è Svidrigajlov che si suicida per i rimorsi e Raskol’nikov che sogna la ripetizione del delitto. C’è Dmitrij Karamazov che si dibatte tra degrado ed elevazione. C’è l’oscuro tormento di Stavrogin. Ci sono la città, gli anfratti, il sudiciume. C’è la bellezza con la sua essenza enigmatica e sempre demoniaca. E ci sono le idee, perché alla fine le vere protagoniste dei romanzi di Dostoevskij sono sempre le idee. Ci sono turbini infuocati di idee, un furente accavallarsi di destini ed epifanie maieutiche: ogni romanzo di Dostoevskij è un’ambiziosa impennata, la messinscena letteraria di un problema dello spirito.

 

Dostoevskij è un’esperienza radicale e gli devono corrispondere lettori radicali, disposti ad accedere a un mondo in cui ogni istante è decisivo e inesorabile, in cui si confondono la notte col giorno, in cui c’è la massima concentrazione della vita e sfolgora un’accelerazione – tragica, tutta teatrale – delle particelle esistenziali. Un mondo in cui tutto è divorante e pronto a divorare. Un mondo in cui le verità sono dinamiche e mai definitive, in cui la più pura fede e il più puro nichilismo barcollano e si toccano, si sfiorano, si confondono. Non si dà letteratura di Dostoevskij al di fuori del processo dialettico imbastito continuamente tra i personaggi, il cui unico scopo, spesso, sembra unicamente quello di scaraventarsi fuori dalla propria stanza, raggiungere qualcuno, sottoporgli urgentemente la propria visione del mondo e far scoppiare una battaglia dialettica intorno a una serie di grandi domande. Perché l’uomo “non è un tasto d’organo”: l’uomo pensa, crede e vuole, e la sua via è la via della libertà, ossia la via del dolore, la via di un calvario che passa attraverso tenebre e sdoppiamento. E il suo cuore ne è squassato.

 

Poi certo, ci sono le lungaggini… Ci sono le pagine in cui l’autore ha la febbre più dei suoi personaggi, ma potrebbe essere altrimenti? Anzi, in ossequio all’idea che la letteratura non sia solo una somma di ingredienti squisiti forgiati in un’accademia – e che un romanzo non valga tanto per come è scritto ma, soprattutto, per quel che significa – nell’anno del duecentesimo anniversario della sua nascita si può affermare una piccola verità da dostoevskiani non timorati: Dostoevskij è certamente la più grande esperienza che possa capitare a un lettore, ed è quel che è non solo grazie, ma anche nonostante se stesso. Alla fine resterà solo quel che deve restare, cioè la gratitudine per uno scrittore che ci ha portato così lontano e così nel profondo. Ma Dostoevskij è anche la dimostrazione che il valore di un’opera è la sua persistenza nell’anima: leggete “Memorie del sottosuolo”, “I demoni” o “Delitto e castigo” e provate a dire di non averci pensato per settimane, per mesi. O per anni. Quel “buio rembrandtiano” di cui parla Zweig, il buio in cui sono immersi i suoi personaggi mentre, nottetempo, si confessano l’un l’altro cercando maledizioni e assoluzioni, vi resterà addosso.

 

 

Leggere Dostoevskij è leggere la vita che, in quel buio, si fa e si disfa. Entrando nel mondo di Dostoevskij si entra in un mondo cruciale, irreversibile, che non ci restituisce a noi stessi tali e quali eravamo prima di entrarci. Dostoevskij è il prima e il dopo Cristo di ogni Lettore. E a proposito di Cristo: leggere Dostoevskij disancorandolo dall’orizzonte cristiano, significa leggerlo a metà. Dostoevskij è una domanda continua, la domanda di un uomo disperato e tentato dal nulla che anela, lottando contro il caos in se stesso, all’unica risposta possibile: Cristo. Non Gesù. Cristo, cioè il Salvatore. Dostoevskij ha un’idea molto chiara di dove stia la verità, e se la verità non fosse con Cristo, scrive, “io starei con Cristo e non con la verità. Io credo in Cristo e lo confesso. Il mio Osanna è passato attraverso il grande crogiuolo dei dubbi.” Dostoevskij non crede nell’uomo tout court: crede nell’uomo che si specchia in Cristo, se anche Cristo non fosse la Verità. Fëdor Dostoevsij era, insomma, uno scrittore indecente. La sua indecenza è aver scavato in se stesso senza reticenze, rischiando come rischiano solo i veri grandi scrittori. E averci detto che “l’indifferente non ha alcuna fede, tranne la cattiva paura”. Perché, come scrisse il 22 dicembre 1849 al fratello dopo la commutazione della pena capitale in quattro anni di lavori forzati, “essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo sempre, qualsiasi disgrazia capiti, senza lamentarsi, senza perdersi d’animo: ecco in cosa consiste la vita, ecco qual è il suo vero scopo”.

 

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