"La Venere elettrificata", l'esperimento di Georg Matthias Bose (Wikipedia)

Vivere elettrico

"La vita intensa" alla ricerca costante di un'esperienza nuova. Un saggio di Tristan Garcia

Antonio Gurrado

Con la scoperta dell'elettricità l'uomo decise di intensificare ciò che non poteva dilatare, la propria vita. Oggi anche noi siamo intensi, dall'amore ai social. Ma bisogna evitare di aspettarsi sempre qualcosa in più da ciò che viene

Sono trascorsi quasi tre secoli da che Georg Matthias Bose mise in mostra la Venere elettrificata. In tournée per i salotti colti del Settecento, prendeva la più avvenente spettatrice e la collegava a un generatore, isolandola dalla corrente prima di spargerle le labbra di un blando conduttore. Chiedeva quindi al pubblico se qualcuno ardisse baciarla; e al primo cicisbeo che si prestava all’atto si drizzavano letteralmente i capelli quando avvicinava il viso alle labbra della bella. “Siete riempita di un fuoco”, spiegava Bose alla Venere di turno, “che non vi procurerà dolore finché lo custodite ma sentirete se lo comunicate ad altri”. Ripesca questo remoto episodio della storia della fisica il giovane filosofo francese (e formidabile romanziere) Tristan Garcia, nel saggio “La vita intensa” che Raffaele Alberto Ventura ha appena tradotto per Nottetempo.

L’elettrificazione della persona segna l’avvio di una tendenza, oggi estremizzata e volgarizzata, al voler vivere intensamente. Non è una metafora, spiega Garcia. La scoperta dell’elettricità e dei conseguenti giochini ha risollevato l’uomo occidentale dalla crisi depressiva in cui era caduto accorgendosi che l’estensione, la materia che occupava spazio, non prevedeva difformità, e che per la natura un chilo di marmo pregiato era identico a un chilo di carne marcia; insomma, che non esisteva sostanza o quidditas come favoleggiato dai filosofi premoderni. Accorgersi a un certo punto che i corpi potessero trasmettere una scossa indusse l’uomo a ripensare la materia in nuovi termini, di intensità; ripensò così anche se stesso pretendendo di intensificare ciò che non poteva dilatare, la propria vita. La trascendenza che generava l’ambizione alla santità venne tradita in nome della pretesa di intensificare l’immanenza.

Il libertino sadiano è un uomo intenso, che cerca scosse sempre più intense dal proprio piacere (o dal dolore altrui); è intenso il romantico svenevole, il futurista guerrafondaio, il divo dello spettacolo, l’eroinomane di Rogoredo, il praticante di sport estremi, l’utente che sui social mostra la superficie della propria vita nei momenti sotto i quali vuol far intuire lo scorrere di un’elettricità emotiva incontenibile. E, oramai, siamo intensi tutti quando ci innamoriamo e ci disamoriamo, quando ci prendiamo e ci lasciamo: poiché il comandamento intensivo, dice Garcia, è “vivi e ama più che puoi! Alla fine non conterà altro che questa intensità vitale”. Essere quello che si è, amare ciò che si vuole, sono imperativi scaduti nel luogo comune prima di accorgerci che rientrano nel più vasto dovere di vivere intensamente, essere elettrici, far drizzare i capelli alle persone che baciamo, custodire un fuoco che sentiamo nel momento in cui lo comunichiamo verso l’esterno. C’è un problema, però. La vocazione all’intensità si accompagna al dovere di evitare la familiarizzazione dell’intensità. Come sapeva benissimo il grande oppiomane de Quincey, più intensa è una nuova sensazione, meno intense risulteranno le nuove sensazioni successive.

Questo è il gorgo nel quale ci siamo cacciati. Da un lato siamo tutti “primaveristi”, abbiamo tutti bisogno di cose nuove, mai provate prima, che in un’eterna giovinezza ci diano la scossa che ci conferma che siamo ancora vivi, ancora intensi. Dall’altro non c’è prima volta che, col tempo, non ci sembri inadeguata alle promesse e ai precedenti: non c’è più amore abbastanza vigoroso, non c’è più provocazione abbastanza scandalosa, non c’è più godimento abbastanza profondo. Tutto deve superare, quindi tutto viene superato. Arriviamo allora al termine della nostra vita intensa con l’amara sensazione di non averla esperita tutta, di non esserci fatti attraversare da abbastanza elettricità, col rimpianto di quando avremmo potuto ma non ne eravamo ancora capaci, secondo il celebre paradosso di Massimo Bontempelli: “Preferirei avere un’altra età: per esempio vent’anni. E una volta li avevo! Ma non lo sapevo”. Lo scriveva in uno scatenato romanzo vecchio di un secolo, intitolato proprio “La vita intensa”.

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