Foto di Matt Black, cortesia dell'autore 

Le fotografie di Matt Black. Una resa dei conti con il Sogno americano

Vittorio Bongiorno

Il fotografo californiano è andato alla scoperta del suo paese come John Steinbeck. Volti segnati, solitudine, abbandono, povertà, speranza, rinascita. Tutto in un bianco abbagliante e un nero cupissimo. Gli scatti raccolti in un libro

Nel 1960, all’età di 58 anni, poco prima di ricevere il Premio Nobel per la letteratura, lo scrittore John Steinbeck si era dimenticato di com’era l’America. Voleva rimettersi in viaggio per andare a cercare le storie della gente vera, anche se era un po’ acciaccato. Amici e parenti avevano provato a dissuaderlo ma lui, cocciuto, era pronto a buttarsi a capofitto in un’avventura necessaria per la sua scrittura, e in definitiva per la sua vita. “Così scoprii che non conoscevo il mio paese”, scrive all’inizio di “In viaggio con Charley. Alla ricerca dell’America” (Bompiani). “Io, scrittore americano, che scrive sull’America, lavoravo a memoria, e la memoria è, al meglio, una cisterna fallosa e contorta”. Parole tornite con precisione millimetrica: il più grande scrittore d’America di quegli anni sale sul furgoncino verde che la GMC costruisce apposta per lui (ribattezzato Ronzinante, come il cavallo di Don Chisciotte) e si mette in viaggio per mesi. Attraverserà 33 stati, con il suo barboncino francese di nome Charley. 

 

Un viaggio fisico sulle strade polverose d’America ma anche interiore: proprio come quello del fotografo californiano Matt Black – classe 1970 – che dal 2014, per circa sei anni, ha percorso più di 150 mila chilometri. “Sono in partenza. Tempo fa pensavo di voler conoscere solo il mio angolo di mondo, ma ormai è un anno che attraverso in lungo e in largo il paese e ancora non mi basta”, scrive in copertina del suo straordinario libro fotografico “American Geography”, uscito da poco per Contrasto: 97 immagini in un bianco e nero abbagliante, taccuino di viaggio, racconto di un’ossessione esplorata in autobus, macchina e soprattutto a piedi, per cercare le sue storie da fotografare. Anche Black, come Steinbeck, ha bisogno di parlare con la gente comune per capire il suo paese, per cercare le risposte alle domande che gli tolgono il sonno: perché la zona di Central Valley, California, da cui lui proviene e in cui si produce più della metà dell’agricoltura statunitense, è una delle più povere del paese? Perché in un’area dedicata al lavoro, dove la gente migra da un secolo (le famiglie di okies che scappavano dalle tempeste di sabbia del Dust Bowl all’inizio degli anni 30, le cicliche migrazioni dal Messico…), c’è ancora un’enorme, inesorabile miseria? E soprattutto, perché in America la povertà è vista come fallimento personale e non come un problema del sistema? Le stesse vittime del mito della “terra delle opportunità” fanno fatica a rigettarlo. 

 

Il fotografo californiano, classe 1970, dal 2014 ha percorso più di 150 mila chilometri lungo le strade polverose degli Stati Uniti

 

Per questo la fotografia di Matt Black gioca un ruolo importante nella decostruzione di questo mito che la gente ama raccontarsi, ma in cui quasi nessuno più crede. E’, come l’ha definita lui stesso, una “resa dei conti con un sogno”. “Il libro non è un punto di partenza o di arrivo, ma un processo per cercare di impegnarsi con una certa linea di pensiero”, racconta Black, “sebbene la mia regione natale sia agricola, non tutti i luoghi che ho visitato hanno una base agricola, ma sono comunque collegati da povertà e disuguaglianza. Quindi, al centro del libro c’è il sogno dell’America che chiunque possa avere successo, ma anche l’idea di sfatare alcuni miti attorno a questo sogno, di interrogare questi miti”.

 

Acchiapparlo per una chiacchierata non è facile, perché il taciturno fotografo è sempre in viaggio, se non fisicamente almeno con la testa. Dopo settimane di silenzio, che tra l’altro rimane uno degli elementi centrali della sua fotografia, risponde però con cordialità a una manciata di domande. E poi ci sono le sue foto: un uomo è in piedi al crossroad di El Paso, Texas, poggia la testa a un palo della luce; un altro tizio barbuto è seduto per terra in un campo desertico, all’ombra di un’insegna, a Blythe, tra California e Arizona; due cowboy a cavallo marciano in una distesa brulla nella contea di Ziebach, South Dakota; una donna si accende una sigaretta accanto a una stufa in ghisa e un secchio di plastica a Martin, Kentucky. Sono tutti lì, in attesa che questo cazzo di Sogno americano si palesi. Ma tutti loro sanno benissimo che non accadrà, che il tradimento si perpetua di giorno in giorno, e a loro non rimane che starsene lì, in silenzio: non sono morti, ma questa non è certo vita. Mi incuriosisce sapere come sia riuscito a entrare in quel mondo ed essere accettato da persone che vivono un’esistenza ai margini, normalmente nascosti agli obiettivi e alle telecamere.

  

“Quasi tutte le conversazioni iniziavano parlando del luogo da cui provengo e del motivo per cui stavo cercando quello che stavo cercando”, spiega lui, “parti simili dell’America. Non era affatto difficile parlarne, e le persone mi hanno capito molto chiaramente da subito”. Del resto lo scrive anche Steinbeck nel suo reportage con barboncino, a proposito di tecniche per aprire una conversazione: “Il modo migliore per ottenere attenzione, aiuto, conversazione, è perdersi”. E anche Matt Black segue questa scuola di pensiero, quando arriva in una città comincia a perdersi, camminando, percorrendo ossessivamente le stesse strade, gli stessi crossroad, gli incroci, come un rabdomante in cerca di una fonte di storie nascoste. “Gran parte del lavoro consisteva semplicemente nel camminare e nell’osservare”, mi racconta, “l’approccio migliore è cercare di mantenere la mente lucida ed essere pronti a ricevere”. 

  

Un uomo in piedi al crossroad di El Paso. Due cowboy a cavallo nella contea di Ziebach. Una donna in Kentucky si accende una sigaretta

 

Buona parte del fascino delle foto è proprio negli estremi di un bianco accecante e di un nero cupissimo. “Ho sempre fotografato solo in bianco e nero e non ho mai considerato nulla di diverso, per questo progetto. Il formato quadrato è semplice e diretto, quindi anche in questo caso mi sembrava quello giusto”. E sono però affascinanti anche le mappe a colori dei suoi percorsi a piedi riprodotti dal GPS, visibili sul suo sito, nelle città in cui si perde e in cui cammina ossessivamente. Tracciati colorati di giallo e arancione fluorescente su viste satellitari piatte e grigie, radiografie dell’anima dei luoghi visitati. E’ seducente anche la voce cavernosa e ipnotica con cui racconta la nascita di questo progetto e il suo lavoro, nel video che porta lo stesso titolo del libro. “Credo davvero nell’incredibile potenziale della fotografia come linguaggio universale. Attraverso il tuo immaginario puoi comunicare con qualsiasi persona nel mondo. Per me è una cosa miracolosa. Non dipende dalla lingua, né dalla cultura, né dal tempo. La fotografia è un mezzo miracoloso”. 

  

Black racconta che a sei anni si trasferisce con la famiglia in mezzo ai campi coltivati, senza più amici o ragazzini in giro, e comincia a vagare nella natura. La terra, i canali, le strade polverose diventano i suoi amici, e dopo la scuola si mette a cercare piccole cose nascoste. Nascono così le sue mappe, memorie di dove è stato e di cosa ha trovato. “Questo mi ha fatto capire cosa fosse il mondo in realtà. Un mondo da esplorare e da cui farsi coinvolgere”. Mappe che lo accompagnano per tutta la vita diventando anche l’ossatura della sua ricerca sulla geografia della povertà: si mette a studiare i dati census e, guardando la cartografia degli Stati Uniti comincia a collegare tutti i punti in cui la povertà e la miseria sono fortemente concentrati. “Mi sono sentito come se avessi fatto una scoperta prima ancora che la fotografia fosse cominciata”. Ne viene fuori un paese molto reale ma nascosto, invisibile, e Black si mette subito in viaggio. Nell’estate 2015 il primo viaggio, di tre mesi e mezzo, che doveva essere anche l’unico. “Ma se ci sono così tanti posti esclusi dal Sogno americano, può questo essere un concetto ancora valido? E’ diventata un’ossessione, una missione”. Ovviamente più fotografa più vuole conoscere e fotografare, e i viaggi continuano per anni. “Non sono uno che prende la macchina fotografica e si fa un giro aspettando che una foto accada. Perché per me le foto non accadono, se non motivate da un’indagine, da una storia”.

  

Parte del suo Dna è, manco a dirlo, l’odissea della migrazione di massa dalla Dust Bowl, le tempeste di sabbia degli anni 30 immortalata da Dorothea Lange e Arthur Rothstein, che ha ispirato il capolavoro di Steinbeck “Furore”, pubblicato nel 1939. La “Migrant mother”, la donna dal volto segnato dalla fame con in braccio due figli fotografata da Dorothea Lange nel 1936 in piena Grande depressione, è diventata tristemente iconica di quella tragedia: aveva solo trentadue anni ma ne dimostrava il doppio.

 

“Non sono uno che prende la macchina fotografica e va in giro. Per me le foto non accadono se non motivate da un’indagine”

 

“La scoperta di queste foto, da giovane, fu una rivelazione per me. Ancora oggi, a dieci minuti da qui, possiamo trovare una situazione simile in Central Valley. Qui, a metà strada tra Hollywood e la Silicon Valley, c’è questa realtà completamente diversa”. 

  

E ancora: a Modesto, California, un tizio pelato con dei folti baffoni si aggira su un chopper a pedali mentre, alle sue spalle, un altro uomo è poggiato al muro di un vicolo; in Georgia un uomo di colore in abito elegante è in piedi dietro alla porta di un motel scalcinato, e la fissa immobile; a Flint, Michigan, la città della General Motors famosa per l’inquinamento da piombo della rete idrica, un uomo semi nudo appare dall’oscurità e sembra avere quattro mani. Il formato quadrato delle foto e il bianco e nero contrastatissimo riproducono la giusta distanza da cui osservare la povertà che Matt Black ha incontrato e deciso di raccontare, ma il suo sguardo è compassionevole e impersonale insieme. “Se fotografi qualcosa di tragico, per una questione di decenza, vai più vicino alla tragedia o fai due passi indietro? Io penso frequentemente che la risposta sia due passi indietro. Dai la giusta distanza alla gente. Non essere un vampiro”. E poi continua dando una definizione commovente, nella sua semplicità, di questa umanità derelitta: “Le persone che io fotografo per me sono eroi”.

 

L’altra straordinarietà del libro è rappresentata dalle fotografie degli oggetti trovati per terra, scannerizzati e archiviati, riprodotti nel libro tra le foto e le pagine del diario di viaggio: guanti da lavoro, posate di plastica monouso, biglietti grattaevinci che parlano esattamente come le foto e che, come quelle, cominciano ad avere un significato simbolico. “Man mano che la collezione cresceva ho iniziato a notare alcuni oggetti ripetitivi come i pacchetti di sigarette, il filo di ferro, i biglietti della lotteria. Da qui è nata l’idea delle tipologie e della realizzazione delle griglie per il libro”. Gli chiedo se per lui è diverso fotografare una persona o un oggetto: “Penso che gli oggetti parlino proprio come le fotografie. Portano una certa verità”. Raccoglie decine e decine di cartelli di homeless in cambio di qualche dollaro: “ANYTHING HELPS”, “ANYTHING HELPS EVEN PRAYER”, “LOSING THE GAME OF LIFE”, “REVOLUTION NOW”. Raccoglie santini strappati, persino carte da poker bruciacchiate e lacere, come simboli di fede e cambiamento. 

 

“Se fotografi qualcosa di tragico, per una questione di decenza fai due passi indietro. Dai la giusta distanza alla gente. Non essere un vampiro”

 

Matt Black racconta che la più grande lezione di fotografia la impara al liceo, durante il corso che gli cambia la vita e gli dà una nuova visione del mondo: quella del dire qualcosa senza dover parlare. Nelle sue lezioni, tra una lunga pausa e l’altra, racconta della scoperta della fotografia come “un modo di essere coinvolto nelle cose, vicino alle persone, ma con un piccolo scarto di separazione, distanza. Un posto confortevole”. E’ questo il dono più grande della sua arte. Nonostante ci mostri il rovescio della medaglia del Sogno americano, e cioè il destino di milioni di americani di convivere con l’umiliazione di una vita da poveri nel paese più ricco del mondo, Matt Black ci fa ascoltare la loro flebile voce, il loro cuore pulsante. Che non ha ancora smesso di battere. 

 

Abbiamo visto storie simili al cinema, di recente, con il commovente “Nomadland”, diretto da Chloé Zhao e tratto dal libro inchiesta di Jessica Bruder (Edizioni Clichy); ci siamo persi per le strade secondarie d’America leggendo il famoso “Strade Blu” di William Least Heat-Moon (Einaudi); ci siamo fatti cullare dalle note della Fender Telecaster di Bill Frisell nel disco capolavoro “Disfarmer” (Nonesuch Record), che omaggia proprio il fotografo-contadino omonimo che ritraeva la vita rurale dell’Arkansas. Rincorrono tutti un sogno, compreso lo stesso Black, e nessuno ha voglia di mollare. “Il Sogno americano è ancora una bella idea, ma la realtà è diventata tutt’altro. Non dobbiamo abbandonare gli ideali ma difenderli, e dobbiamo ritenere responsabili del degrado le istituzioni e i sistemi che li hanno minati”, chiude lui. E poi scompare in silenzio, come al suo solito, a cercare un volto, un pacchetto di sigarette schiacciato, una storia.

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