La Grande depressione in America: madre e figlio sulla strada a Tulelake, in California, nel 1939. La fotografia è di Dorothea Lange

Sette anni d'impotenza

Stefano Cingolani

Perché contro la crisi nessuna ricetta ha funzionato? Un rompicapo anche per Cia, Fbi e Pentagono. Dopo una scossa costata ricchezza, posti di lavoro, potere, siamo alla vigilia di un altro crac. Il crollo del dollaro è vicino.

Sono trascorsi sette anni di vacche magre, anzi scheletriche, ma la profezia biblica non si è avverata, le vacche grasse sono di là da venire, mentre scalpitano di nuovo i cavalieri dell’Apocalisse. E’ che sono stati sette anni di tentativi falliti, sette anni di impotenza di fronte alla forza distruttiva della crisi. La politica monetaria, si dice, ha evitato il peggio. Le banche centrali hanno stampato una quantità pazzesca di moneta, tuttavia hanno curato i sintomi e non le cause, provocando effetti collaterali le cui conseguenze si vedranno fra qualche anno. L’alluvione di denaro liquido non è servito nemmeno a impedire la discesa dei prezzi, che in molti paesi (tra i quali l’Italia) sono già sotto zero, evocando un nuovo mostro, la deflazione che s’accompagna alla stagnazione produttiva.

 

[**Video_box_2**]I governi hanno impiegato i denari dei contribuenti per tamponare gli effetti sociali sulle famiglie, per salvare le banche e le imprese. Siccome le tasse non bastano, si sono indebitati sempre più diventando vulnerabili rispetto alla speculazione finanziaria internazionale. E nel 2010 è scoppiata una crisi nella crisi, quella dei debiti sovrani. Dunque, anche la politica fiscale interventista, cavallo di battaglia dei keynesiani, s’è inceppata.

 

Non ha funzionato nemmeno la ristrutturazione industriale. Secondo la teoria classica dei cicli economici, quando c’è un eccesso di produzione, le imprese tagliano, riducono le ore lavorative e spesso anche gli occupati. Così svuotano i magazzini, azzerano le scorte e poi ricominciano. Invece, non sono ripartite.

 

Quanto all’austerità, avrebbe dovuto metter fine alla finanza allegra, seguendo la regola aurea che non si spende un centesimo se prima non lo si è risparmiato da qualche altra parte, e introducendo nella Costituzione il criterio del pareggio. Invece, il rischio è che la Grande recessione si trasformi davvero in Grande depressione come quella degli anni 30. Come è stato possibile?

 

[**Video_box_2**]Sulle orme degli antichi aruspici, c’è chi ha letto i segni. I profeti di sventura questa volta non sono economisti o scrittori di varia umanità, ma fanno parte della comunità chiamata intelligence, sono barbouze come dicono i francesi, le barbe finte. Di che si tratta? In piena estate Cia, Fbi e servizi segreti del Pentagono hanno riunito i loro esperti di finanza e mercati per passare in rassegna l’economia mondiale e hanno trovato i sette sigilli della nuova tempesta perfetta. Eccoli qua:

 

1) Indebitarsi non crea più sviluppo. A ogni dollaro di debito corrispondono oggi 3 centesimi di crescita economica. Negli anni d’oro, il ventennio postbellico, l’indebitamento era un moltiplicatore efficace perché metteva in modo 2,4 dollari. Nel decennio della lunga stagnazione, tra i 70 e gli 80, era già sceso a 41 centesimi, oggi siamo vicini a zero.

 

2) La moneta non si muove. La velocità di circolazione si è ridotta da 2,2 di prima della crisi a 1,3, una quota pericolosamente vicina a quella degli anni 30. Hai voglia di stampare banconote se poi non vengono spese. I keynesiani la chiamato trappola della liquidità e sta paralizzando tutto l’occidente.

 

3) La Federal Reserve si trova ormai sull’orlo dell’insolvenza. Le sue riserve sono aumentate fino a 52,6 miliardi di dollari. Ma a fronte di esse gli impieghi sono balzati a 4.300 miliardi. Nell’intero sistema finanziario, a ogni dollaro di mezzi propri corrispondono 77 dollari impiegati; nel 2008 erano “solo” 22.

 

4) Il sistema bancario americano è super-indebitato, siamo a 60 mila miliardi di dollari e i debiti viaggiano trenta volte più veloci dell’intera economia.

 

5) Wall Street è in piena bolla. La capitalizzazione rispetto al prodotto lordo oggi è pari al 203 per cento, cioè è tornata al livello antecrisi. Per fare un paragone (anche se ovviamente la Borsa oggi è molto più grassa e grossa) era all’87 per cento. Comunque la si giri, siamo in mezzo a una nuova bolla azionaria.

 

6) I derivati continuano a crescere, oggi ammontano a 710 mila miliardi di dollari, pari a quasi dieci volte il prodotto annuo del mondo intero.

 

7) Infine, è peggiorato anche l’indice della miseria che misura disoccupazione e inflazione. Steve Hanke della Brookings Institution di Baltimora lo ha calcolato per paesi e aree geografiche: si va da 11 punti negli Stati Uniti ai 15 in Europa fino a 20 in Asia. La disoccupazione colpisce di più in occidente, l’inflazione in oriente e in Sudamerica.

 

Dunque, allarme rosso. Gli equilibri rischiano di saltare e il crollo del dollaro è vicino. E’ questo il messaggio che l’intelligence ha mandato alla Casa Bianca. Le conseguenze geopolitiche sono enormi. La Cina sta comprando oro a man bassa. I paesi produttori di petrolio cercano un’alternativa. Il Fondo monetario internazionale si prepara a diventare la vera banca centrale del mondo intero usando una moneta artificiale come i Diritti speciali di prelievo, costruita su un paniere di monete nazionali o regionali.

 

La notizia sul summit delle barbe finte è stata lanciata da un singolare personaggio, James Rickard, uomo di banca ed esperto della Cia, che ha lavorato in una serie di fronti caldi (cominciando dagli ostaggi americani a Teheran) fino a essere reclutato dopo l’11 settembre per capire e controllare le mosse di al Qaida a Wall Street e dintorni, insomma il terrorismo nel tempio della finanza. Rickard ha pubblicato alcuni libri apocalittici, come “La guerra delle valute”, che hanno avuto un certo successo. Il suo ultimo lavoro, “La morte della moneta”, uscito in primavera, è un bestseller ed è stato preso sul serio anche dal Financial Times. L’autore appare sulle maggiori reti televisive americane, è stato ascoltato dal Congresso e le sue tesi, per esempio l’attacco contro gli eccessi della Federal Reserve o il recupero dell’oro come àncora valutaria, vengono rilanciate da Rand Paul, il senatore campione del Tea Party Movement che, come suo padre Ron, vorrebbe abolire del tutto la Banca centrale. Dunque, siamo su una sponda di destra secondo lo spettro politico consueto. Potrebbe essere facile per la sinistra mettersi contro i “deliri” da ultra-ortodossi. Ma le cose non stanno esattamente così.

 

Se facciamo un salto nell’area liberal e dintorni, troviamo facce ancor più cupe dei barbouze monetaristi. Larry Summers, l’8 novembre 2013 durante un seminario indetto dal Fmi butta là una bomba: la stagnazione secolare. E da allora cambia il dibattito di politica economica. “In questi anni – spiega l’ex segretario al Tesoro di Bill Clinton, uno degli economisti americani più famosi e stimati – la quota di adulti al lavoro non è aumentata affatto. Il prodotto lordo è caduto al di sotto del proprio potenziale. E l’esperienza americana non è unica; Europa e Giappone stanno addirittura peggio”. Sono tutti indicatori di una tendenza di lungo periodo che vede un eccesso di risparmio rispetto agli investimenti e una mancanza di vera spinta alla crescita. Le politiche monetarie e quelle fiscali non hanno ripristinato lo sviluppo, ma hanno solo gonfiato i prezzi delle azioni.

 

Paul Krugman gli dà ragione e parla a sua volta di “una crisi permanente”. L’evidenza suggerisce che “stiamo diventando una economia il cui stato normale è una sorta di media depressione nella quale i brevi periodi di prosperità arrivano solo grazie alle bolle e a un insostenibile indebitamento”. Perché è accaduto ciò? Una causa è senza dubbio il rallentamento demografico che fa cadere la domanda: “La prova è che anche al picco della bolla immobiliare noi abbiamo costruito meno case degli anni 70 quando diventano adulti i figli del baby boom”.

 

A confermare lo stato dell’arte arriva la Banca dei regolamenti internazionali, cioè la banca delle maggiori banche centrali. Nel suo ultimo rapporto annuale scrive: “Nel complesso, il periodo postcrisi è stato deludente. Per gli standard dei normali cicli economici, la ripresa è stata lenta e debole nei paesi colpiti dalla crisi. La disoccupazione è ancora ben al di sopra dei livelli pre-crisi, malgrado una recente flessione. Le prospettive di crescita nel più lungo periodo, poi, sono tutt’altro che rosee”. Sulla base dell’esperienza storica – continua la Bri – quando il rapporto tra credito e prodotto lordo supera il 10 per cento entro tre anni si manifesta una crisi bancaria. Ebbene l’Asia è al doppio (e la Cina al 23,6), ma anche Brasile, Turchia e Svizzera sono ben oltre la soglia di sicurezza. E’ chiaro dunque dove sono i detonatori che possono far scoppiare la prossima bomba.

 

I vecchi vizi non sono spariti, al contrario. La Bri conferma che i contratti derivati sono più numerosi rispetto al periodo pre-crisi, anche se oggi si tratta per lo più di coperture rispetto al fallimento dei debiti sovrani. Ma sono tornati anche i subprime, impiegati per finanziare l’acquisto di auto (il boom negli Stati Uniti si spiega anche così) o per gli studenti soffocati dalle banche: la questione s’è fatta politica in vista delle elezioni di midterm ed è finita sul tavolo della Casa Bianca, Barack Obama ha ricevuto una delegazione di studenti e ha promesso un intervento per far scendere gli interessi.

 

Che fare? Ancora una volta le ricette divergono. Il presidente della Bri, Jaime Caruana, già banchiere centrale spagnolo, guarda al medio periodo e parla di tre transizioni da compiere: verso un modello di crescita meno dipendente dal debito, verso una politica monetaria più normale e verso un sistema finanziario più affidabile. Davvero un vasto programma.

 

Krugman rilancia Keynes: siamo in una trappola della liquidità e risparmiare in questa situazione è una virtù personale, ma un vizio collettivo. Le cose da fare esistono, però ci vuole il coraggio di sfidare i tabù: per esempio bisogna rilanciare l’inflazione. Olivier Blanchard, capo economista del Fondo monetario internazionale batte da tempo su questo tasto: secondo lui la spinta alla crescita migliorerebbe con un aumento dei prezzi al 4 per cento doppio rispetto agli obiettivi che si sono poste le banche centrali. Il fatto è che oggi persino quota 2 è lontana soprattutto nei paesi europei dove è arrivata la deflazione che peggiora i debiti, riduce la base imponibile, deprime la produzione.

 

Ci sono naturalmente anche segnali incoraggianti. Una quarta rivoluzione sta trasformando l’industria e ora sconvolge anche i servizi. Spuntano nuovi settori e nuove attività. La McKinsey ha pubblicato uno studio sulle “tecnologie dirompenti” il cui impatto viene calcolato tra i 14 e i 33 mila miliardi di dollari nel prossimo decennio: stampanti 3D, robotica, telecomunicazioni, genetica, in un ambiente di inflazione bassa e commerci aperti, possono da sole spingere la crescita.

 

L’energia è in pieno boom; non si vedeva da decenni tanto eroico furore. Esplorazioni, scoperte di nuovi giacimenti di idrocarburi, fonti alternative accessibili (anche se sussidiate dai governi) e soprattutto le rocce, il gas e il petrolio da scisti. Gli Stati Uniti già prima del 2020 potranno contare sull’autosufficienza energetica, mettendo fine così a una dipendenza dal Golfo Persico cominciata con la Seconda guerra mondiale. I costi calano e spingono l’industria manifatturiera a rimpatriare una parte dei propri impianti, assumendo operai e tecnici. Ha cominciato l’auto, ma ormai è un fenomeno che coinvolge tutti i settori. Il reshoring non è solo americano, per produzioni dove conta soprattutto la qualità si sta manifestando anche in Germania e persino in Italia. Difficile valutarne l’impatto macroeconomico, però la spinta dal lato dell’offerta c’è ed è evidente.

 

Manca la domanda, ma chi la può stimolare? Le banche centrali non bastano. Lo ha detto chiaramente Mario Draghi. Nel suo discorso a Jackson Hole ha delineato un modello a tre gambe: la politica monetaria non può fare tutto, ha bisogno del sostegno della politica fiscale (bilanci pubblici risanati sono la premessa per poter ridurre le imposte, aumentare salari e profitti, rilanciare i redditi); entrambe poi vanno sostenute da riforme dell’offerta che accrescano il prodotto potenziale e aumentino la produttività.

 

“Draghi deve fronteggiare tempi turbolenti”, ha scritto Simon Nixon sul Wall Street Journal, sempre più deluso dagli assetti istituzionali della zona euro che giudica inadeguati ad affrontare le sfide economiche. Come dargli torto: la Francia non ha fatto nulla, l’Italia ha perso due anni e la Germania è scivolata anche lei nella stagnazione. Giovedì la Banca centrale ha portato i tassi d’interesse a 0,05, siamo ormai al pavimento. E ha annunciato l’acquisto di titoli cartolarizzati a partire da ottobre. Essi andranno di pari passo con il nuovo programma di finanziamento straordinario per le banche purché concedano prestiti alle piccole imprese. Tra una cosa e l’altra oltre mille miliardi entreranno in circolo. Basteranno?

 

Un’altra iniezione di “monetadone” commenta il banchiere italo-svizzero Antonio Foglia. “Una politica monetaria espansiva come il Quantitative easing in cui la Banca centrale compra sul mercato le attività finanziarie è un palliativo”. Il vecchio adagio di Milton Friedman sulla moneta gettata dall’elicottero non funziona se la moneta resta in terra e nessuno la raccoglie, come sta accadendo in questa fase. La spiegazione non è scritta in sofisticati logaritmi, ma nella psicologia umana, cioè la paura, l’ansia per il futuro, la depressione.

 

Summers forse esagera con la sua stagnazione secolare, però cerotti e aspirine non possono bastare. Raghuram Rajan, cattedratico a Chicago, già capo economista al Fmi e adesso governatore della Banca centrale indiana, rivisita “La favola delle api” di Bernard de Mandeville. Ai primi del Settecento, il pensatore anglo-olandese scrisse un poemetto satirico nel quale raccontava il mistero dell’alveare nel quale ogni ape fa la cosa giusta eppure tutte insieme vanno verso la rovina. E’ successo così con la crisi, ma accade anche nel dopo crisi, perché non è stata rimossa nessuna delle cause che hanno portato al collasso, a cominciare dalle distorsioni del sistema finanziario. Al coro s’aggiunge pure il globalista Martin Wolf: “Gli sforzi per spingere le economie e creare banche più sicure hanno soltanto preservato un sistema fallato”.

 

L’Europa ha protetto, non riformato il sistema bancario. Gli Stati Uniti sono andati più avanti con la legge Dodd-Frank e con la Volcker rule che limita l’utilizzo dei depositi per speculare in Borsa. Ma i supermarket finanziari restano ancora in piedi e tra la raccolta del risparmio e il suo impiego ad alto rischio non c’è nessuna diga. Stanley Fischer, numero due alla Federal Reserve, uno dei maggiori economisti sulla piazza, sostiene che “spezzare le grandi banche può aiutare, ma non è la soluzione che mette fine ai rischi finanziari una volta per tutte, anzi, è molto complicato e i suoi vantaggi sono incerti”. In una conferenza in onore di Martin Feldstein, il 10 luglio scorso, ha fatto il punto dei cambiamenti realizzati e di quelli realizzabili, ricordando che Lehman Brothers non era poi così grande, solo che era interconnessa in una matassa inestricabile con una infinità di altre banche e istituzioni finanziarie.

Il contagio è il vero rischio e per evitarlo le autorità di vigilanza debbono agire come i medici prima che scoppi una pandemia. Facile a dirsi, ma chi ha la scienza e la prescienza per farlo? E chi ha il potere di imporre la cura? Fischer non è Carl Schmitt e non predica lo stato d’eccezione economica durante il quale la libertà viene sospesa a favore della sicurezza. Quindi non può che ammettere: “Ci sarà una prossima crisi, ma non sarà identica all’ultima per questo dobbiamo vigilare per prevederla e cercare di prevenirla”. Si sentono già gli zoccoli sul selciato, i quattro cavalieri s’avvicinano e noi dobbiamo ancora preparare nuove lance e nuove corazze.

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