John Steinbeck, alle sue spalle James Dean in “La valle dell'Eden”, film del 1955 diretto da Elia Kazan (foto elaborazione Il Foglio)

Steinbeck traccia la mappa segreta dell'anima, divisa tra bene e male

Gaia Manzini

Antonio Latella mette in scena “La valle dell’Eden” all’Arena del Sole di Bologna: un’impresa impossibile tra la Genesi e “Alice nel paese delle meraviglie”

Il mondo è un tavolo. Un grande tavolo di legno, con le sue sponde opposte, con le sue sedie inamovibili; perché ognuno ha il suo ruolo all’interno della famiglia, la sua posizione da cui guardare la vita, la sua prospettiva parziale. Nulla si può vedere per intero: sono pochi a riuscirci”. Inizia così “La valle dell’Eden”, la trasposizione teatrale del grande romanzo di John Steinbeck, messa in scena all’Arena del Sole di Bologna per la regia di Antonio Latella e prodotta da Emilia-Romagna Teatro. Inizia da un tavolo e da due fratelli – Adam e Charles – che si fronteggiano sui temi della vita, sull’eredità, sulla terra, sull’amore. Su Cathy, che Adam ama più di se stesso e che Charles teme più del demonio. Inizia e continua con Adam di spalle: sentiamo la sua voce, non lo vediamo in faccia. Ma è sempre così: è solo una parte della realtà quella che riusciamo a scorgere. “Si dice weltschmerz, la malinconia del mondo che invade l’anima come un gas”, dichiara sul palco Steinbeck (interpretato da Candida Nieri). “Io credo che nel mondo ci sia una storia, e una storia sola. Una storia che si ripete a tutti i livelli del sentimento e dell’intelligenza… Abbiamo solo una storia. Tutto si regge sull’infinita lotta, in noi, tra bene e male.”

 

In “Furore” Steinbeck ha affrontato l’epopea della fuga, l’orrore della carestia e la ricerca di una terra promessa. C’erano Tom Joad e la sete di giustizia per gli umili e i disperati: “Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Sarò in tutti posti… dappertutto dove ti giri a guardare. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì. E quando la nostra gente mangerà le cose che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito… be’, io sarò lì”. Ne “La Valle dell’Eden”, nella storia dei Trusk e degli Hamilton – nella loro tragedia –, c’è qualcosa di ancora più universale: il senso profondo, sconvolgente e brutale della nostra natura. Perché Steinbeck è così: verticale come le trivelle che cercano l’acqua nel suolo della California. E’ grandioso, perché non teme la retorica. In una lettera al suo editore, Pascal Covici, diceva che nel suo romanzo voleva raccontare una storia, la voleva raccontare prima di tutto ai suoi due figli: quella del bene e del male, della forza e della debolezza, dell’amore e dell’odio, della bellezza e della bruttezza. E l’ha fatto, in più di settecento pagine, dimostrando come i doppi siano inseparabili. I doppi si tengono sempre per mano come fratelli, come Caino e Abele. Come Charles e Adam. E poi come Caleb e Aron, i figli di Charles e Cathy.

 

Antonio Latella ha portato tutto questo a teatro con uno spettacolo fiume di quasi sei ore (il 16 novembre sempre all’Arena del Sole ci sarà la seconda maratona; il 13, 14, 15 e 17 il secondo atto, per chi ha già visto il primo). C’è riuscito grazie a una sintesi prodigiosa del testo, a un sorprendente adattamento scritto insieme a Linda Dalisi. Tutto è essenziale sul palco: ogni gesto, ogni oggetto, ogni dialogo, ogni parola. E così Steinbeck deflagra in modo nuovo, in una luce tutta contemporanea.

 

Deflagra nell’uso della voce. La voce che esplode all’improvviso e si porta dietro la rabbia dell’uomo – di Adam (Annibale Pavone), di Charles (Christian La Rosa), di Samuel (Michele Di Mauro), di Cathy (Elisabetta Valgoi) –, la loro impotenza, il loro essere dimidiati. La voce che è nenia, ansimo, che è ritmo puro, angosciante. Deflagra Steinbeck, grazie al sipario antincendio che costringe a una visione parziale: di qualche attore vediamo solo le gambe, sentiamo solo la voce, non abbiamo chiaro e completo il quadro – ma d’altronde è la nostra condizione umana. E poi, la luce in sala, tranne che nell’ultimo atto. Siamo lì per sei ore, ma siamo parte di un rito collettivo: sul palco si parla (anche) di noi; non c’è solo la California, Salinas, la ricerca estenuante dell’acqua, le lotte fratricide, le tragedie famigliari. Facciamo parte della scena, siamo chiamati in causa. Deflagrano gli oggetti, i pochi oggetti pulsanti: la scarpa col tacco che dice della seduzione, le sedie che non si possono spostare – perché se vuoi cambiare posizione, sarai solo tu a scegliere di farlo –, il ferro da maglia che è uno strumento abortivo o la bacchetta da rabdomante per trovare l’acqua (che è morte e vita insieme), e poi la casa: il sogno di un rifugio, il posto dove riposare, peccare, diventare mostri, e non essere visti. Ma la casa assomiglia a una gabbia. Deflagrano i non detti, il fatto di non sapere esattamente cosa abbia fatto Cathy in passato per oltre metà dello spettacolo, ma con la sensazione che sia qualcosa di terribile, lei e quei suoi occhi che non mandano nessun messaggio, che non hanno profondità, non sono umani. Assomigliano agli occhi di una capra. Samuel la vede, a lui basta uno sguardo: sono pochi gli uomini che sanno vedere e dunque capire. E poi deflagra, sopra a ogni cosa, la famiglia: i padri, i figli, i gemelli e le madri. Soprattutto quelle. Le madri che rinnegano i loro bambini, che se ne vanno, che si suicidano. Le madri che partoriscono pietre. E per quello sono come la terra della California, avara di acqua, di cui parla Samuel Hamilton. Una terra che cela nei suoi strati il fondale dell’oceano e altri mondi ancora; una terra che si mostra buona in superficie, ma poi sotto, in profondità, è dura e impermeabile, e trattiene una forza oscura. Una cosa nascosta, un dolore occulto. Così forse l’unica madre che abbiamo davvero è solo la parola, la parola che si fa creazione, che genera – Caleb e Aron compaiono sulla scena solo dopo che vengono pronunciati i loro nomi. I nomi, essenza delle cose.

 

Ma poi, quando Cathy se ne va, quando segue il suo destino di donna terribile e diventa Kate, padrona di una casa dove avvengono le più orribili nefandezze, abbiamo un po’ di pace. Rimaniamo con Adam, con Samuel il “cercatore d’acqua” e con il servitore cinese Lee (Massimiliano Speziani). E il racconto si avvita intorno alla saggezza di Lee, alla sua intelligenza, alla sua capacità di leggere i testi, la Genesi sopra ogni cosa, la storia di Abele e Caino di cui tutti siamo figli. Quella storia di rifiuto e di collera, che è come la mappa segreta dell’anima. Yahweh raccomanda a Caino di agire per il bene. Se non lo farà troverà il peccato accovacciato alla sua porta, perché quello è il suo istinto. Ma lui lo dominerà (“lo dominerai”), o in altre versioni del libro, dovrà dominarlo (“dominalo!”). Predestinazione, oppure ordine. Però Lee afferma che la versione originale non diceva proprio così. C’era questa parola bellissima: timshel, “tu puoi”. Tu puoi dominarlo il male e il peccato. Hai la possibilità di scegliere, è il libero arbitrio. E’ qui la superiorità dell’uomo, la sua grandezza. La scelta. “Tu puoi”.

 

E allora Latella e Dalisi hanno trovato il modo per fare deflagrare soprattutto i testi, le parole. La Genesi certo, ma anche “Alice nel paese delle meraviglie”, perché quello era il testo che leggeva Cathy/Kate, quella la sua Bibbia, lei che non ha scelto mai, ha seguito solo il suo istinto di malvagità. Come Alice, poteva diventare così piccola che nessuno sarebbe mai riuscita a vederla. Poteva compiere i delitti più sconvolgenti e rimanere impunita. “Un istante dopo Alice scivolò giù, in una specie di precipizio che somigliava a un pozzo profondissimo.”

 

Sei lì, assisti a questa tragedia per sei ore, ne fai parte, senti addosso lo spettacolo e sai anche che le stelle nascono dalle esplosioni di gas, dalle deflagrazioni. C’è un’immagine, un passaggio del testo che l’adattamento ha reso pulsante. Samuel e altri nei loro scavi intenti nella ricerca dell’acqua, hanno trovato invece qualcosa di diverso. C’è il nichel, c’è l’argento. Sì, sotto terra, “c’è una stella!”, dice Samuel. Dev’essere caduta migliaia di secoli fa ed è rimasta incastrata sotto il terreno. Sarebbe bello estrarla, sarebbe una meraviglia. Il bene, il male. Gli umani, la scrittura, il teatro. C’è sempre qualcuno che riesce nell’impossibile. Qualcuno che, come Latella, riesce a estrarre le stelle.