Foto dell'installazione di Teresa Margolles "Periferia dell'agonia" (dal profilo Facebook del Mattatoio di Roma)

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Periferia dell'agonia: l'arte crudele di Teresa Margolles in mostra

Andrea Venanzoni

Al Mattatoio di Roma l'installazione della fotografa e artista visiva messicana: attraverso una matrice ambientale ci immerge nelle derive di una società sempre più cupa

La carne urla, strepita, sanguina. E sanguinando, narra.  Sincronia archetipica degna delle migliori pagine di Carl Gustav Jung, è il Mattatoio di Roma ad ospitare, nel padiglione 9B, la carnografia intensa di quella straordinaria fotografa e artista visiva messicana che risponde al nome di Teresa Margolles. “Periferia dell’agonia” sarà in esibizione fino al 19 giugno; viaggio nelle carni emotivamente straziate di un corpo in questo caso assente e che, metafisicamente, si atteggia a fantasma narrativo attorno cui volteggiare, sprofondati nel ventre sordo di una sofferenza antica. 

L’esibizione interattiva ci cala nello spazio di morte, dove la scomparsa e il dolore sono reali ma non mostrati espressamente: una installazione di matrice ambientale che in un rosso cupo, profondo, carnicino, ci immerge nella deriva dei danni collaterali di una società sempre più cupa e della violenza assoluta praticata da bande criminali, governi e in genere dal potere. La violenza dei narcotrafficanti, dei conflitti bellici, di non-luoghi periferici che geologicamente sedimentano epoche intrise di sangue, viscere e storie in frantumi. 

La Margolles è conosciuta per le sue fotografie che non lasciano nulla al caso né all’immaginazione e che strutturano un complesso linguaggio alla Susan Sontag, quella di “Davanti al dolore degli altri”: la vittima, in apparenza esibita, non è parte organica di un circo voyeuristico, ma diventa gemma dell’ingranaggio complesso che destruttura e decodifica il potere e la sua intrinseca, batailleiana, consistenza brutale. All’interno del Padiglione, un perimetro segmentato da teli industriali di colore rosso a definire uno spazio rubino che ricorda una placenta in disfacimento: un teatro della crudeltà artaudiana che giunge a consistere di quella ebbrezza quasi eleusina che già è stata dell’azionismo viennese e delle elegie scatenate di Hermann Nitsch, ma che qui non ha Dioniso o l’esoterismo come campi semantici di riferimento ma solo il deserto della nullificazione totale.

Al centro dello spazio adibito a installazione, nella coltre purpurea dei teli, un tavolo retroilluminato su cui è stesa una Sindone di violenza e sofferenza: un panno composto da teli che hanno realmente coperto vere vittime di atti omicidiari. Lo spettatore circonda il campo visivo con la sua presenza fisica e circumnaviga in una ellissi che riproduce la traiettoria di un detenuto la istituzionalizzazione visiva e sensoriale dell’opera d’arte. E se come scriveva Clive Barker, “siamo tutti libri di sangue – in qualunque parte ci aprano, siamo rossi”, la Margolles replica strutturalmente le esistenze spezzate di uomini, donne e bambini, e ne proietta l’ombra e la coscienza sullo spettatore che inquieto si aggira tra i teli rossi, con gli occhi appuntati su quel drammatico panno intriso di decadenza e morte.

Il crudo realismo dell’opera qui si sublima in una definizione ologrammatica che spazializza, nel ventre della città e nel profondo degli spettatori, la consistenza reale, non cinematografica, della morte violenta. La Margolles, con piglio davvero alla Bataille, ci mette davanti la tetra logica del “male minore”, quella logica che fonda una autentica necroeconomia su cui si è concettualmente intrattenuto il filosofo Eyal Weyzman. La frontiera sabbiosa e colma di ossa è l’oceano morto de le “Tra le ceneri di questo pianeta” di Eugene Thacker, la nera finitudine che esonda dalle carni rosse e straziate del corpo umano, e la dolorosa ‘”pornografia della morte” messa in scena dal fotografo giapponese Tsurisaki Kiyotaka, ma andando oltre qualunque intrinseco compiacimento. La Margolles non è interessata al sensazionalismo facile e spicciolo, né alla denuncia sociale shock: vuole solo, e ‘solo’ è chiaramente eufemistico, ricordarci che la morte è straziante, sempre e comunque, e che non c’è poesia né romanticismo nel sopruso né tantomeno nell’abuso.

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