La guerra di Lou
Ingabbiata nel genere “per ragazzi”, la scrittrice di “Piccole donne” ha vissuto al fronte
Dalla famiglia disastrata agli ospedali da campo. Tanto si è detto del celebre romanzo, eppure di Louisa May Alcott, del suo destino e della sua vita, si sa davvero poco. Non conosciamo si può dire nemmeno la faccia dell'autrice
Era ancora una ragazzina Louisa May Alcott quando a un corvo che gracchiava sopra lo steccato, e sembrava ce l’avesse con lei, mostrò un pugno gridando: “Presto farò qualcosa, qualunque cosa, insegnare, cucire, recitare, scrivere… e prima di morire sarò ricca e felice e famosa, vedrai”. E in effetti fece proprio tutto quello che aveva minacciato quel giorno, e molto di più, compreso andare in guerra. Una guerra sanguinosissima, tanto per cambiare, la Guerra di secessione americana. E’ il novembre del 1862, il mese del suo trentesimo compleanno, quando risponde alla chiamata “alle armi” che Abraham Lincoln rivolge alle donne, in forma di crocerossine. Quella terribile esperienza fra uomini a brandelli, ragazzi dagli arti stritolati e ferite ripugnanti, piangenti come bambini che cercano la mamma, dura soltanto un mese, perché si ammala di tifo, perde i capelli, delira, finché suo padre corre a riprenderla. Soltanto un mese, che però la segnerà nell’elaborazione letteraria che saprà farne come nella salute, minata per sempre. Tanto che morirà per una ricaduta nel 1888, a cinquantasei anni, e dal 1868, ossia da quando ne aveva trentasei, ed era diventata l’amatissima autrice di Piccole donne, ricca e famosa lo era davvero. Anche se i soldi le servivano per sostenere la disastrata famiglia, pagare i debiti, comprare casa ai parenti, non certo per spassarsela. Cosa significasse spassarsela l’ha ignorato per la vita intera.
Questo e molto altro di lei, come il coraggio caparbio e l’inarrestabile determinazione, lo possiamo scoprire adesso grazie a Louisa May Alcott (Giulio Perrone editore, 115 pagine, 15 euro) di Beatrice Masini, uscito nella benemerita nuova collana Mosche d’oro consacrata a biografie di donne più o meno illustri e diretta da un valoroso trio di scrittrici, Giulia Caminito, Viola Lo Moro e Nadia Terranova. Tutti, o dovrei dir meglio: tutte, abbiamo letto Piccole donne. Abbiamo amato alla follia Piccole donne. Eppure quanto poco sappiamo dell’autrice. Abbiamo visto più di un film tratto da quel romanzo, anzi dalla serie di romanzi. Perché non dimentichiamo i sequel, Piccole donne crescono, Piccoli uomini, I ragazzi di Jo. Senza contare riduzioni televisive e versioni animate, il cinema ne ha proposto la storia diverse volte, da due versioni mute (si era prima degli anni Venti) passando per il film firmato da George Cukor nel 1933, con Katharine Hepburn nella parte di Jo, o quello del 1949 di Mervyn LeRoy di cui si ricorda soprattutto una diciassettenne Elizabeth Taylor nei panni di Amy, a quello realizzato dalla regista australiana Gillian Armstrong, in cui Jo era interpretata da una Winona Ryder da Oscar, per arrivare al bellissimo recente remake di Greta Gerwig (2019), con svolta decisamente femminista e una protagonista di grande carattere, l’irlandese Saoirse Ronan.
Sì, tutte abbiamo letto Piccole donne, eppure di Louisa May Alcott, non conosciamo si può dire nemmeno la faccia, perché scarse sono le immagini in circolazione, due o tre, da cui si evince che attraente non era. I lavori domestici cui si applicò fin da giovanissima, per aiutare una madre stremata da povertà e diete vegetariane, non sono il massimo per creare leggenda. Vuoi mettere la selvaggia brughiera delle sorelle Brönte, più grandi di Louisa di due decenni scarsi, o l’autoreclusione della perfettamente contemporanea Emily Dickinson o l’aura di genio ignaro di sé della settecentesca, eppur modernissima Austen, sequestrata – o protetta – dalla sorella? Intorno a Louisa solo un’atmosfera di insuperabile modestia aggravata dal genere di letteratura che le veniva meglio, quello “per ragazzi”, anzi – povere noi – “per ragazze”. Poco o nulla del tanto che su di lei si è scritto in lingua inglese è stato tradotto in Italia. E molto poco (a parte la sua saga principale) della vasta produzione sfornata di getto, sfrenatamente, sempre a caccia di soldi com’era, soldi da devolvere alla numerosa famiglia come ai tanti altri indigenti di cui si occupava. Perché non è invenzione romanzesca la rinuncia delle sorelle March (le piccole donne) e della loro generosa madre, al pranzo di Natale tanto atteso, per farne dono a gente più povera di loro. “Ma se in tutto questo ci fosse una gioia del dovere?”, si chiede Beatrice Masini. “Una perversa, equivoca gioia, la gioia dolente e furiosa del fare perché a questo si è addestrate, da sempre, a fare tutto, e meglio che si può?”. E si risponde con un’altra domanda (retorica): “Se fosse questa gioia oscura, rigida, del dover fare bene quello che ti capita di fare ad aver sorretto Louisa May nella sua vita di zia-nonna e figlia per sempre, di anima gotica riconvertita a babysitter dispensatrice di blande zuppette, di autrice confined to juvenile literature, confinata alla letteratura per ragazzi, come si definisce senza alcuna pietà per se stessa in una nota a margine?”.
È una sindrome comune anche a donne molto più moderne, la sindrome della massaia perfetta: casa in ordine, bambini accuditi, genitori vecchi tenuti d’occhio… e nel tempo che resta si cerca di essere avvocati, architetti, manager o scrittrici meravigliose. Quel “per ragazzi”, poi, a Masini non va giù. Proprio lei che di libri per l’infanzia ne ha scritti un’infinità, alcuni superpremiati e di grande successo. Ma è proprio il successo in un campo che toglie visibilità al resto, in questo caso ai suoi romanzi (per adulti ça va sans dire) belli già nei titoli: Tentativi di botanica degli affetti e I nomi che diamo alle cose (editi da Bompiani), e poi (per Marsilio) Più grande la paura, perché intanto di Bompiani era diventata – alla fine del 2015 – direttore editoriale e probabilmente non le sembrava elegante autopubblicarsi, come invece fanno in tanti. Ma insomma, se mi sono attardata a parlare di Masini piuttosto che di Alcott è perché questa biografia è anche qualcosa in più, qualcosa di personale e condiviso dall’autrice rispetto al suo personaggio. Ed è qualcosa che rende la lettura più intima e, mentre si segue un destino, quello di Louisa May appunto, si ragiona su ciò che riguarda tante altre donne, stritolate in un dover essere molte cose diverse, e questo dissolve l’intensità di essere una cosa sola…
E adesso torniamo a Lou May, al suo destino senza avventure e accadimenti esaltanti, fatta eccezione per quel romanzo fortunatissimo scritto di corsa e assillata dalle necessità, in contrasto con la vena tanto diversa cui avrebbe voluto dare spazio e voce: il romanzo delle quattro sorelle March dai temperamenti in contrasto, destinate tutte, anche la ribelle Jo, alla normalizzazione che un tradizionale destino femminile e la volontà degli editori e il lieto fine sognato dalle lettrici (fiori d’arancio, che altro?) esigevano da lei. Era nata in una famiglia scombinata, persino più scombinata di quella disegnata nelle proprie pagine, zeppe anche di autobiografia. Il padre, Amos Bronson Alcott, figura di geniale quanto incompreso padre-padrone, filosofo trascendentalista, amico di Emerson, Thoreau, Hawthorne, fondatore di utopiche comunità agricole destinate al fallimento, spericolato educatore, o forse diseducatore vista l’impressionante mancanza di realismo e il troppo rispetto verso un’imprecisata libertà umana, spiantato, egoista, cieco al sacrificio costante che pretende dalle donne di casa a cui insegna però un grande amore per l’arte, la musica, la danza. La moglie: una compagna intelligente quanto adorante, filantropa, pronta a far digiunare le figlie per dar da mangiare ai poveri.
Le figlie, Anna, Louisa, Lizzie, May, molto somigliano alle piccole donne fra cui Jo (alter ego dell’autrice) è la più determinata e vuole diventare scrittrice, pur impegnandosi nel contempo in mille altri lavori per sbarcare il lunario e aiutare la disagiata famiglia. Louisa comincia a scrivere racconti a getto continuo pubblicandoli su giornali e riviste sotto pseudonimo. Il suo modello è Dickens, ma anche certe gotiche derive che rintraccia nello stesso Dickens come nella sua adorata Charlotte Brönte, della quale, oltre ai romanzi, legge con passione la celebre biografia (recentemente riproposta da Neri Pozza) scritta da Elizabeth Gaskell con consapevolezza protofemminista. Louisa è, come la ritrae Masini, “selvaggia e strana, e per di più un tomboy”, vale a dire un maschiaccio. Lei nel diario si definisce caparbia e lunatica e intanto convoglia le ambizioni letterarie in un romanzo giovanile che resta inedito a lungo e più tardi in Moods (“Moti dell’anima”), che vedrà la luce nel 1865 e subito verrà stroncato da Hawthorne e da Henry James. Il primo, pur essendo amico del padre e anche uno di quelli che aiutano gli Alcott quando finiscono sul lastrico (e succede spesso), la definisce senza mezzi termini “scribacchina”; James qualche chance per il futuro gliela dà.
Ma intanto Lou ha capito che per scrivere bisogna uscire di casa, andare a vedere com’è la vita sul campo, meglio se di battaglia, e così si arruola come infermiera al fronte. E il risultato, dal punto di vista artistico, è notevole. Ecco la serie dei “Bozzetti di vita ospedaliera” che in italiano sono stati raccolti nel 2008 da Donzelli come Racconti d’amore e di guerra per la cura di Sara Antonelli, in cui vediamo la crocerossina Tribulation Periwinkle (un nome che è tutto un programma) affrontare senza alcuna preparazione l’orrore della guerra e della morte nei corpi mutilati di uomini bianchi e neri che si affidano alle sue mani materne. La lingua è asciutta, diretta, persino amaramente ironica a volte. Tribulation ha solo l’acqua di colonia per proteggersi dagli odori nauseanti che l’aggrediscono nella Casa del Caos, così viene chiamato l’ospedale improvvisato in cui presta servizio: “La prima cosa in cui m’imbattei fu un reggimento di odori tra i più turpi che abbiano aggredito naso umano e lo sbaragliarono d’un colpo”.
Poi da vergine qual è, che non ha mai visto nudità maschili, deve pulire, lavare, disinfettare corpi doloranti e inermi, e intanto chiacchierare con finta allegria, consolare, rassicurare o dare la terribile notizia di una fine imminente. Anche se l’esperienza durò pochissimo, fu sufficiente a rafforzare in Alcott uno spirito antirazzista e femminilmente revanchista (“Di uomini in giro se ne vedono pochi e le donne sembrano gestire qualunque cosa, il che probabilmente spiega perché tutto sia fatto così bene”, dice aggirandosi per Philadelphia dove i maschi sono tutti via a combattere).
Ma non è solo la guerra la sua grande scuola di vita. Nel 1865 accetta al volo un lavoro come dama di compagnia di una bostoniana malaticcia che deve passare le acque in Europa, ed eccola in Svizzera, a Nizza, Parigi, Londra. Riesce anche a intrecciare una storia d’amore. Con un giovanissimo polacco magro e intelligente che diventerà il modello di Laurie, prima innamorato inutilmente di Jo, disposta solo all’amicizia, poi marito dell’artistica Amy. Ma: “La verità è che Louisa non esiste senza la famiglia”. E allora torna a Boston. E si capisce che non vedeva l’ora. Di tirarsi su le maniche e darsi da fare per tutti. Lavorando sodo in casa e per le solite riviste. Ma ora l’editore vuole un libro per bambine, perché pare ci sia un pubblico potenzialmente corposo in attesa. E così, in meno di un mese, butta giù la storia edificante di quelle ragazzine, poi adulte, destinate ad arrivare fino a noi. L’ha scritto con la mano sinistra Piccole donne, ma dentro ci ha messo tutto ciò che conosce: la guerra, la povertà, la speranza, l’amore per il teatro fatto in famiglia, una madre dolcissima, un padre amatissimo, ma distante, la prevedibilità di Meg, l’ambizione di Jo, la vanità di Amy, la bontà di Beth.
Successo vuol dire soldi (che non bastano mai) e vuol dire ammiratrici importune che lei proprio non sopporta, e inviti a parlare in pubblico, cosa che detesta, ma anche la possibilità di un altro viaggio, in Italia stavolta, trascinata da May, la sorella pittrice. Purtroppo, però, non c’è pace per Lou. Ora deve affrontare di nuovo la morte, ma non quella di ragazzi sconosciuti feriti al fronte, bensì di persone vicine e carissime. Muore il marito della sorella convenzionale, la primogenita, e solo lei può farsi carico economicamente di Anna e dei suoi figli. Muore la madre, e lei ne prende il posto accanto al padre anziano. Muore giovanissima, di febbre puerperale, anche May, dopo aver dato alla luce una bambina, Lulu.
E chi si occuperà di Lulu? Naturalmente la zia scrittrice, perché May voleva così. Beatrice Masini osserva che nel terzo capitolo de I ragazzi di Jo, la protagonista Jo March, sposata Bhaer e madre, dice di sentirsi “…una sorta di tata letteraria che produce pappetta morale per i piccoli”. Guarda caso ricalca fedelmente una frase del diario in cui Alcott annota di essersi messa a scrivere un Moderno Mefistofele, non richiesto dagli editori, perché “stanca di produrre pappa morale per i ragazzi”. Da lei, però, la riscrittura del Faust nessuno la vuole e il libro resta nel cassetto.
È il 4 marzo del 1888, il padre, sempre più ammalato e sempre più egoista, la vuole accanto e le propone: “Vieni con me”. Intende nell’oltretomba, perché: “Sto andando lassù”. Louisa è stanca. Ha scritto talmente tanto, da non sentirsi più la mano. Gli risponde: “Mi piacerebbe”. Allora vieni presto, la incoraggia lui, e muore. Due giorni dopo Lou ha un gran mal di testa. Si mette a letto, e non si sveglia più. Era riuscita nei suoi intenti, diventando ricca e famosa. Anche felice? Chissà.
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