Il racconto
Così il regista di “Nosferatu” consegnò la sua vita ai diavoli
Storia di Friedrich W. Murnau, dall’espressionismo tedesco a Hollywood, poi la perdizione tra gli indigeni di Tahiti. Il tramonto del cinema muto lo investe. È morto in un misterioso incidente d’auto
Il 13 marzo 1931 venne celebrato a Los Angeles il funerale del “più grande regista che i tedeschi abbiano mai avuto” come ebbe a scrivere la rinomata critica cinematografica Lotte Eisner. Sebbene tale definizione fosse condivisa dalla maggioranza dei professionisti del cinema, alle esequie di Friedrich Wilhelm Murnau, morto a quarantadue anni, parteciparono soltanto undici persone. Dello sparuto gruppo, una in particolare merita di essere ricordata: Greta Garbo, talmente affezionata all’amico defunto che ne commissionò la maschera mortuaria e la custodì gelosamente fino alla fine dei suoi giorni.
La ragione per la quale buona parte della Hollywood che aveva osannato e applaudito il grande cineasta disertò l’omaggio più doveroso si deve alle chiacchiere circolate attorno alle circostanze della sua morte, pettegolezzi mai dimostrati che tuttora sopravvivono nella vastità infinita di notizie vere, verosimili e false delle quali siamo succubi e talvolta responsabili. La versione ufficiale dichiara Murnau vittima di un incidente d’auto, quella ufficiosa avanza l’ipotesi che l’automobile in questione, una lussuosa Packard 740, fosse uscita fuori strada poiché il conducente, distratto da pratiche sessuali compiute su di lui, ne aveva perso il controllo. A rendere la faccenda ancor più scandalosa, il fatto che a guidare fosse un quattordicenne filippino, definito “valletto” del cineasta e sottinteso suo amante. Un dettaglio sul quale mi sono soffermata non tanto per il risvolto morboso, quanto per la sua assurdità: perché mai, mi sono chiesta, un uomo adulto e dotato di prodigiosa intelligenza, avrebbe concesso a un minorenne di guidare un’auto presa a noleggio con tanto di autista disponibile?
Se ci si addentra nelle ricerche, dopo aver sfrondato le decine e decine di pagine, blog, riviste cinematografiche e biografie online che riportano il gossip (rilanciato, tocca dirlo, da un libro uscito nel ’59, Hollywood Babilonia, famoso per aver svelato e spesso millantato risvolti scandalosi su divi e divette hollywoodiani), si scopre che il filippino Garcia Stevenson era messicano, aveva compiuto trent’anni e svolgeva le mansioni di segretario del regista (che fosse stato anche suo amante non mi pare rilevante). Nella limousine gli occupanti erano tre, più un cane, accucciato sui sedili posteriori insieme al suo padrone, Friedrich Murnau. Alla guida, per ragioni ignote ma non oscure, vi era effettivamente Stevenson, accanto a lui sedeva l’autista ufficiale. Per evitare lo scontro con un camion, incautamente sbandato dalla sua corsia di marcia, il conducente aveva bruscamente sterzato schiantandosi contro un palo della luce. Il leggendario cineasta fu la sola vittima dell’incidente.
Sì, leggendario è forse l’aggettivo più pertinente da accostare al nome di Murnau (nome peraltro fittizio, quello vero era Plumpe, che in tedesco significa goffo: la scelta di chiamarsi Murnau si deve alla cittadina bavarese, luogo di vacanza frequentato da Friedrich e altri esponenti dell’espressionismo tedesco fra i quali Franz Marc e Else Lasker-Schüler). I miti fioriti attorno alla sua figura, molti dei quali alimentati dallo stesso regista, sono da antologia. A cominciare dalla sua opera, universalmente considerata indecifrabile. Raramente ho letto tante contorte considerazioni e deliranti masturbazioni mentali da parte di fanatici cinéphile (categoria spesso incline all’elucubrazione) come riguardo all’interpretazione dei suoi film. Nosferatu, la sua opera più nota (1922), ha prodotto fiumi di inchiostro che spaziano da interessanti disquisizioni sulla tecnica cinematografica (Murnau è stato un pioniere, ha inventato la soggettiva, inaugurando uno stile mai visto prima) intrisa di riferimenti pittorici e letterari frutto della sua immensa cultura, a congetture filo occultiste inerenti le riprese del film. A proposito di Nosferatu, fra i tanti contributi, mi sono imbattuta in un documentario in cui veniva intervistato un esperto di occultismo, massoneria e Rosenkreuzer che illustrava l’influenza determinante di Albin Grau, produttore del film e noto satanista, che collaborò anche come scenografo e costumista inserendo riferimenti mistici e simboli alchemici più o meno evidenti. In questo caso non si tratta di illazioni, Albin Grau era davvero un cultore di esoterismo, e lo stesso Murnau, per un periodo della sua vita, si interessò alla materia.
L’idea di raccontare la storia di un vampiro (il primo di una lunga serie cinematografica) fu di Grau, che si ispirò al Dracula di Bram Stoker facendo andare su tutte le furie gli eredi dello scrittore che intentarono una causa alla produzione (la Prana Film, nata e morta con Nosferatu…) ottenendo la distruzione di tutte le copie. Murnau disattese la condanna e occultò, per sua e nostra fortuna, una copia. Nonostante avesse già girato otto film in appena due anni, di cui purtroppo sono rimasti solo alcuni frammenti, la notorietà arrivò con Nosferatu. Seguirono altre tre pellicole (che bello quando i film potevano definirsi pellicole!) realizzate in Germania: è la trilogia di Kammerspielfilm, i cosiddetti film da camera, nei quali Murnau affina la sua cifra stilistica eliminando quasi totalmente le didascalie, fino a quel momento irrinunciabili nel cinema muto, e conferendo alla sola forza delle immagini la vera, purissima essenza del cinema. Con la realizzazione dell’ambizioso Faust, tratto da Goethe, Murnau sbalordisce il pubblico con effetti speciali mai visti prima: i quattro cavalieri dell’Apocalisse che entrano in scena all’inizio del film, il gigantesco Mefistofele avvolto dalle fiamme, le sovrapposizioni e i giochi di luce, le ombre (Murnau è il maestro delle ombre…) impressionano per la loro potenza. Il produttore americano William Fox rimane colpito dal talento del regista tedesco e lo invita a Hollywood offrendogli budget illimitati e piena libertà artistica. Faust sarà l’ultimo film girato in Germania.
Il solitario Friedrich Murnau si trasferisce in California, va a vivere in un’immensa magione che ricorda gli antichi castelli fatati dei suoi film, frequenta una ristretta cerchia di amici, e debutta nel cinema americano con un film bellissimo, Sunrise, che in seguito Truffaut definirà “il più bel film della storia del cinema”. Murnau si aggiudica tre Oscar e il rispetto di tutto l’establishment degli Studios. Nonostante i tributi e i riconoscimenti dell’Academy, il film non conquista il pubblico, forse spiazzato da un linguaggio innovativo (a vederlo oggi impressiona soprattutto per i movimenti di macchina, fluidi e agilissimi), e per i successivi due film Hollywood impone le sue regole: le sceneggiature dovranno essere approvate dalla produzione, regola che indigna lo storico sodale Carl Mayer con cui Murnau ha scritto buona parte dei suoi film. Mayer ben presto si defila, Murnau accetta obtorto collo le ingerenze delle major ma dopo aver ottemperato agli impegni, rescinde il contratto con Fox e all’apice della carriera decide di mollare tutto. Il raffinato dandy prussiano, incapace di assoggettarsi a quel nuovo mondo di lustrini e cartapesta ha bisogno di ritrovare la sua libertà. La cercherà nel luogo più remoto che si possa immaginare, l’antitesi perfetta.
La valigia per il viaggio contiene pochi abiti e molti libri. Gli autori non sono stati scelti a caso: Stevenson, Conrad, Loti, Melville, accomunati dalla stessa pulsione che Murnau si appresta a soddisfare: fuggire dal mondo civilizzato alla ricerca dell’innocenza perduta. Le incontaminate isole del Pacifico, descritte dagli scrittori che tanto ammira, offriranno anche al nostro la possibilità di ricominciare da zero. Giacché quelli erano tempi in cui sognare, e talvolta realizzare i propri sogni, era ancora possibile, Murnau si compra uno yacht a vela e si imbarca per i Mari del Sud. Non sarà solo. All’avventura si unisce un altro regista, anch’egli insofferente alle imposizioni dell’industria cinematografica: Robert Flaherty, autore di Nanuk l’esquimese, considerato il primo lungometraggio documentario. I due non potrebbero essere più diversi, tanto visionario l’uno quanto realista e pragmatico l’altro, ma il comune desiderio di affrancarsi dagli Studios oscura un divario che più avanti si rivelerà fatale. Le intenzioni iniziali li uniscono nel progetto di un film firmato e prodotto da entrambi. Lo spunto è la denuncia degli effetti nefasti della civilizzazione sulle popolazioni indigene, ma il film sarà molto altro e molto più di questo, e quando Friedrich Murnau salpa dalle coste della California al timone del suo yacht Bali (così chiamato in onore di un suo antico amore, il pittore Walter Spies, che prima di lui abbandonò l’Europa per trasferirsi a Bali), non sa che Tabù sarà il suo ultimo film e tantomeno immagina che le avventure di cui sarà protagonista risulteranno degne di un racconto di Stevenson (mentre evoco il nome dello scrittore così legato all’eroe di questa storia, mi accorgo dell’inquietante omonimia con il famoso “valletto filippino”, responsabile della sua morte…).
Sul diario di bordo Murnau appunta i suoi pensieri: “Quando avremo superato l’equatore, la scintilla della Croce del Sud eclisserà tutti i nostri libri e i nostri sogni, poiché è verso i nostri libri e i nostri sogni che stiamo viaggiando”. Dopo due mesi di navigazione, inframmezzati da tappe in alcune isole dell’arcipelago Tuamotu (fra le quali Hivo Oa, per omaggiare la tomba di Gauguin, e Noku Hiva, dove il disertore Herman Melville fu tenuto prigioniero dai nativi, avventura raccontata in Typee, primo romanzo dello scrittore americano), Murnau sbarca a Papeete, in Polinesia. I due registi si mettono subito al lavoro, organizzano sopralluoghi, selezionano i possibili interpreti, allestiscono un laboratorio di sviluppo e stampa. Ma i fondi necessari a dare inizio alle riprese non arrivano: la società finanziaria del film, a seguito del crollo di Wall Street, dichiara fallimento mantenendo, tuttavia, la proprietà della sceneggiatura. Di fronte alla prospettiva di abbandonare tutto, Murnau decide di investire i suoi risparmi, e da quel momento detiene il potere sull’intera impresa. L’idea originale del film s’infrange contro le ambizioni di Murnau, che impone la sua visione artistica. Malgrado la stima reciproca, i rapporti con Flaherty, improvvisamente relegato in una posizione subalterna, s’incrinano. Affascinato dalle superstizioni scoperte lungo il viaggio attraverso gli atolli, Murnau rinuncia definitivamente al soggetto iniziale e dirotta il suo interesse su ciò che i nativi chiamano i tabù. Le atmosfere misteriose a lui tanto care prendono il sopravvento sul realismo agognato da Flaherty, il quale, giocoforza, si trova costretto ad accondiscendere alle intenzioni del collega.
Nasce così la storia di Reri e Matahi, i due innamorati destinati a soccombere alle leggi ancestrali del loro popolo. Consacrata agli dei, la bellissima indigena Reri diventa intoccabile ai mortali: nessun uomo potrà mai ambire al suo amore, pena la morte. Insieme faranno di tutto per infrangere il tabù ma la maledizione non perdonerà la loro disobbedienza. Un plot mélo che sembra distanziarsi dalle tematiche dei film precedenti: in realtà gli estimatori della poetica di Murnau coglieranno elementi comuni e apprezzeranno soprattutto il desiderio di libertà evocato non solo dai due protagonisti ma dallo stesso Murnau che attraverso questo film dichiara apertamente i suoi sentimenti e la sua sessualità (la plasticità dei corpi maschili sui quali la macchina da presa indugia ricorda la sensualità delle sculture elleniche).
E’ noto che l’idea sia venuta a Flaherty, eppure sono convinta, malgrado nessuna fonte lo accrediti, che il romanzo di Robert Louis Stevenson (ancora lui!) La spiaggia di Falesa, il cui intreccio è sorprendentemente simile, abbia rappresentato una fonte di ispirazione. Sono altrettanto certa che se Stevenson avesse potuto assistere alle riprese di Tabù, ne avrebbe tratto spunto per uno dei suoi racconti… Mai come in questo film realtà e finzione, orchestrate dal demiurgo Murnau, si confondono. Ancora una volta, dopo Nosferatu, dopo Faust, il regista continua a sconfinare in dimensioni ultraterrene, quasi non potesse farne a meno. Da pretesto drammaturgico, le superstizioni raccontate in Tabù trascendono tragicamente nella vita reale. Sin dall’inizio.
Le riprese del film Tabù possono finalmente cominciare, i due registi si spartiscono le scene da girare ma sono sufficienti le prime inquadrature a decretare la supremazia tecnica di Murnau. Flaherty non sta al passo, ha difficoltà a governare la macchina da presa tanto che è costretto a fare appello a un professionista con cui ha già lavorato: Floyd Crosby, operatore e direttore della fotografia che arriva in soccorso sull’isola (e qui mi concedo una piccola digressione utile a ricordare – e forse rimpiangere – quanto quell’epoca mirabolante fosse prodiga di personaggi eccezionali: discendente della stirpe olandese Van Rensselaer, che vede nel suo albero genealogico anche Herman Melville ed Edith Wharton, Floyd Crosby ha dato i natali al cantante David dei Crosby, Stills, Nash & Young. Con il film Tabù si è aggiudicato l’Oscar per la fotografia, primo di molti altri premi). Nell’attesa dell’arrivo di Crosby, Murnau trascorre alcuni giorni con un altro illustre visitatore: il pittore Henri Matisse, sbarcato sull’isola alla ricerca di ispirazione o di chissà cos’altro. Alcuni scatti li ritraggono insieme sulla spiaggia, uno allampanato e biondo, l’altro bassino, con barba lunga e occhiali tondi, o su una piccola imbarcazione, cappelli di paglia sul capo, intenti a pagaiare come due ragazzi che si divertono.
La maggioranza della troupe è composta da abitanti dell’isola, gli unici professionisti sono Murnau, Flaherty e Crosby, il quale in seguito dichiarerà che “Flaherty odiava Murnau, si sentiva schiacciato dalla sua evidente superiorità”. Fedele al suo spirito solitario, Murnau cerca un luogo appartato per costruirsi una casa. Dopo aver visitato due isolotti “infestati dalle zanzare” opta per un terzo, un “piccolo paradiso”. Si chiama Motu Tapu (letteralmente Isola del Segreto), ed è disabitata. I locali sconsigliano di metterci piede, è un luogo dedicato agli dei e violarlo è un sacrilegio, ma Murnau ignora gli avvertimenti (nonostante il tema del suo film sia proprio quello…) e si fa costruire una casa bellissima dove vivrà in totale isolamento.
E’ l’inizio di una serie di sciagure. Durante le riprese di una scena notturna, dalle torce che illuminano il set si sprigiona un incendio: l’assistente di Murnau si procura gravi ustioni e deve abbandonare il film. Murnau scrive sul suo diario: “Dopo l’incendio i due anziani che mi avevano raccontato la leggenda dello spirito dell’isola si sono avvicinati e mi hanno detto che non avrei più dovuto scherzare sulle loro credenze, lo spirito aveva già cominciato a vendicarsi…”.
Le riprese sono continuamente interrotte dalle piogge incessanti e da ripetuti “incidenti”: un’onda gigantesca travolge e distrugge due macchine da presa, alcuni attori riportano “strane” ferite a seguito di “strane” cadute (così le definisce Crosby), il cuoco del set viene misteriosamente ucciso… Dopo oltre tre mesi di riprese e la lunga permanenza sull’isola, arriva il momento di tornare nella civiltà: “Soffro al pensiero di lasciare questo luogo, è più di un anno che vivo qui e ne sono totalmente stregato, non vorrei trovarmi altrove… Non appartengo a nessun paese, nessuna terra, nessun essere umano…”.
Prima di partire i tahitiani lo mettono di nuovo in guardia riguardo allo sfruttamento commerciale del film: “Qualsiasi profitto porterà sfortuna”.
Quando Murnau torna in California, tutto è cambiato. I veloci tempi moderni, così diversi dai ritmi isolani cadenzati dal sole e dalla luna, dai venti e dalle onde, hanno decretato la fine di un’epoca: il cinema muto è definitivamente tramontato, Tabù rischia di essere considerato un prodotto anacronistico. La Paramount, distributrice del film, impone l’accompagnamento di una colonna sonora. Friedrich Murnau, come la Norma Desmond di Sunset Boulevard, sente di appartenere al passato. Incerto sull’esito del film ricorre all’aiuto di una sensitiva di sua conoscenza (questo dettaglio racconta meglio di ogni altro la solitudine dell’uomo) dalla quale riceve un ennesimo avvertimento: “Tieniti lontano dalle automobili, ci sarà un incidente…”.
Quando manca una settimana alla prima del film, prevista a New York il 18 marzo 1931, Murnau noleggia una limousine con autista per recarsi a salutare un amico prima della partenza. Sull’auto sale anche il suo segretario, e il suo affezionato cane. Sappiamo come andò a finire. Interessante come Murnau ricorra spesso a pratiche e frequentazioni cabalistiche, sembra quasi non poterne fare a meno, salvo poi disattendere gli ammonimenti che ne conseguono, talvolta sfidandoli. Forse perché da giovane pilota richiamato in guerra sfuggì per ben due volte alla morte precipitando con il suo aereo. Sono convinta tuttavia che malgrado lo sprezzo di un pericolo “annunciato”, il romantico, misterioso Murnau si sarebbe ben guardato quel giorno fatidico di affidare la guida a un quattordicenne, e questo allontana irrevocabilmente le illazioni suddette. Dopo le esequie losangeline, la salma di Friedrich Murnau venne traslata in Germania dove ebbe l’onore di un funerale con tutti i crismi. Alla cerimonia parteciparono le più grandi menti del cinema tedesco di allora: Karl Freund, G. W. Pabst, Carl Mayer, Fritz Arno Wagner, il superbo attore Emil Jannings (interprete di Faust e L’ultima risata) e Fritz Lang, il regista di Metropolis, che pronunciò l’orazione funebre. Nella folla era presente anche Robert Flaherty.
Alla première di Tabù si presentò Anne Chevalier, la giovane attrice polinesiana protagonista del film, arrivata in America al seguito del suo regista per tentare una carriera hollywoodiana. Murnau si era molto affezionato alla ragazza, ne aveva parlato con sua madre, nelle lunghe lettere che le scriveva da Tahiti, e quando il figlio morì, la signora Murnau adottò la “piccola Reri”, che dalle assolate isole del Pacifico si trasferì per alcuni anni nella gelida Berlino. Non ebbe molta fortuna nel cinema, dopo alcuni film non memorabili si sposò con un attore polacco e morì anziana, dedita all’alcol.
La casa costruita sull’isola proibita rimase vuota per diversi anni fino a quando Douglas Fairbanks decise di prenderla in affitto. Vi rimase solo pochi giorni, terrorizzato dai rumori notturni che non lo lasciavano dormire e dalla presenza, a suo dire, del fantasma di Murnau. Non vi furono altri inquilini, anche perché un incendio la ridusse in cenere e l’isola, almeno per qualche anno, tornò all’antica solitudine. Potrebbe essere un finale esemplare, le fiamme rappresentano sempre la fine di qualcosa, ma questa storia di fantasmi e oscuri risvolti riserva un’appendice degna dei film di Friedrich Murnau.
Il 15 luglio 2015, il quotidiano tedesco Der Spiegel pubblica una notizia accompagnata da un titolo inquietante: “Germania: trafugata la testa del regista di Nosferatu”. Nell’articolo si legge che “il corpo imbalsamato del regista tedesco, sepolto nel cimitero di Stahnsdorf, è stato decapitato dopo che la tomba è stata forzata con delle spranghe. Alcuni residui di cera sono stati rinvenuti vicino alla tomba, particolare che potrebbe lasciare intendere l’azione di possibili sette legate al mondo dell’occultismo”.
La testa di Friedrich Murnau non è mai stata ritrovata nonostante sia stato pagato un riscatto dagli eredi del regista. Da allora la tomba è stata sigillata.
“E’ legge de’ diavoli e degli spettri che di dove si sono cacciati dentro, di là sbuchino fuori. L’entrata è libera, ma l’uscita è d’obbligo”.
J. W. Goethe, “Faust”
Intervista a Gabriele Lavia