Abraham Lincoln. Un dramma americano

Matteo Muzio
Tiziano Bonazzi
Il Mulino, 312 pp., 22 euro

    Se c’è un presidente che più di tutti ha segnato un prima e un dopo nella storia degli Stati Uniti, quello è Abraham Lincoln. Nella sua biografia, una delle prime a essere scritte in italiano e, come scrive l’autore, dedicata a un pubblico colto ma non accademico, ci viene restituito il personaggio nella sua interezza. Cresciuto sulla frontiera tra Kentucky e Indiana, se ne distacca presto, stabilendosi in Illinois. Avvocato autodidatta, diventa presto un uomo di partito per il Whig Party, un partito nato in opposizione all’aristocrazia agraria jeffersoniana, a favore di una rapida industrializzazione dell’America da incentivare attraverso investimenti in nuove infrastrutture, per fare entrare l’America nella modernità del mercato globale. E’ proprio questo suo amore per la libera impresa a portarlo a detestare sempre più l’istituzione della schiavitù, che lui definiva “lavoro rubato”. Ma Lincoln non era un abolizionista convinto. Né tantomeno aveva idee granitiche sulle varie problematiche politiche, eccezion fatta per la Costituzione, che a suo giudizio rappresentava un limite e un perimetro dell’agire politico. Così, quando insieme ad altri ex Whig fonda il Partito repubblicano in Illinois nel 1856, non invocherà mai una “legge più alta”, ma soltanto di limitarne l’espansione, per quanto possibile. Questo suo pragmatismo era anche frutto dagli anni in cui Lincoln smise di occuparsi di politica, facendo solo l’avvocato, ma non perdendo mai di vista la situazione nazionale. L’autore traccia con brevi pennellate il quadro politico americano, a cui dedica diversi capitoli, per far meglio comprendere perché Lincoln divenne Lincoln; come cioè fu possibile che un ex deputato di provincia,  malvestito e spesso a disagio nelle occasioni conviviali, diventasse presidente in un momento così cruciale. Il merito è della sua oratoria e dei suoi discorsi, in particolare quello alla Cooper Union di New York del 27 febbraio 1860, dove affermò l’opposizione all’espansione della schiavitù, usando citazioni tratte dagli scritti dei padri fondatori in modo piuttosto convincente, con l’ausilio di note a piè di pagina.
    Così, da politico di scarsa esperienza che era si sarebbe trovato catapultato alla presidenza, superando rivali più forti come l’ex governatore di New York, William Seward, o quello dell’Ohio, Salmon Chase, ritenuti troppo conservatori o troppo radicali. Nella guerra civile iniziata nel 1861 – a cui Bonazzi dedica l’ultima parte del libro – Lincoln riesce a tenere insieme tutto, certamente venendo bersagliato di critiche sia dai democratici pacifisti sia dai radicali repubblicani, che vedevano la guerra condotta in modo troppo blando. Ma è sotto la sua direzione che la guerra svolta verso l’hard war, la guerra totale, che vide l’utilizzo anche propagandistico dell’emancipazione completa degli schiavi (da cui erano esclusi gli stati schiavisti rimasti fedeli all’Unione) ma anche la tattica della terra bruciata, con la distruzione del settore agricolo della valle dello Shenandoah in Virginia, che i Confederati vedevano come una grave scorrettezza dal punto di vista “cavalleresco”.  Spesso, Lincoln fu capace anche di ascoltare i suoi nemici e di cambiare rotta in modo repentino, pur di raggiungere il risultato di vincere la guerra e far finire la “peculiare istituzione”. La morte, avvenuta dopo il suo secondo giuramento da presidente, pochi giorni dopo la fine della guerra, ci lascia senza una risposta circa le sue idee sulla ricostruzione postbellica, concludendo in tragedia questo dramma americano che cambiò per sempre la fisionomia nazionale e ponendo le basi per la sua futura potenza.

     

    ABRAHAM LINCOLN. UN DRAMMA AMERICANO
    Tiziano Bonazzi
    Il Mulino, 312 pp., 22 euro