(foto EPA)

C'è tanta Bucha negli “Ultimi giorni dell'umanità” di Karl Kraus

Antonio Gurrado

Il più efficace instant book sulla guerra che stiamo vivendo è di oltre cent'anni fa. Tutt'altro contesto, stesse atroci dinamiche

Le foto dei cadaveri di Bucha mi hanno riportato alla mente, con associazione istintiva, l’immagine di un altro cadavere: quello di Cesare Battisti (l’irredentista), contornato da una decina di austriaci tutti soddisfatti in posa mentre pende dalla forca. Sopra di lui, quasi a cavalcioni sui suoi resti, spicca particolarmente giulivo il boia in bombetta. Era il 1916, tutt’altro contesto e tutt’altro conflitto. Perché mi è venuta in mente proprio questa foto? Credo sia perché è l’immagine con la quale Karl Kraus – esattamente cent’anni fa – aveva voluto aprire l’edizione in volume de Gli ultimi giorni dell’umanità (Adelphi), un dramma pantagruelico fatto solo per la pagina scritta, uno spettacolo teatrale composto da una mole immensa di ritagli, appunti e considerazioni sulla Prima guerra mondiale. Un’opera mostruosa, interminabile, che si dipana in duecentonove scene oltre a un preludio e a un epilogo lunghetti, con un migliaio di personaggi all’incirca; cinque atti che avrebbero avuto bisogno di una decina di serate per essere messi in scena e che quindi, vantava lo stesso autore, erano piuttosto concepiti per i teatri di Marte.

E forse questo libro vecchio un secolo sarebbe oggi il più efficace instant book sulla guerra che stiamo vivendo, poiché col suo valore documentale caleidoscopico – pagine in cui tutti dicono tutto, non c’è fisima bellica o appello pacifista che sfugga a un’impietosa radiografia – testimonia come quel che stiamo vivendo oggi è già successo e succederà ancora. Le bandiere esposte alle finestre, un aumento vertiginoso dei prezzi dei trasporti, commercianti che cercano di incrementare le vendite nascondendosi dietro proclami eroici, gente che appena vede un russo è pronta a saltargli addosso, la Cina che intanto sta a guardare attendendo il momento propizio per volgere la confusione a proprio vantaggio, “Shakespeare scrittore nostro nemico”, alle stelle i prezzi dei vetturini e, in generale, quelli dei trasporti; ovviamente gli stupri, le armi chimiche, la profanazione delle tombe.

E ancora la negazione che la guerra sia una guerra: non c’è la perifrasi “operazione speciale” ma si parla di “aggressione che per l’aggressore è giunta piuttosto di sorpresa, un atto di legittima difesa che ha colto l’aggressore un po’ in contropiede”. Sfido a capire se a dire questa frase sia un russo di oggi o un asburgico d’antan: “Noi combattiamo una guerra difensiva. Mai e poi mai il nostro Stato maggiore ha concepito quei rapaci piani di conquista militare di cui i nostri nemici chiacchierano in continuazione. La guerra non può avere altro risultato che una pace che comporti l’avanzamento dei nostri confini e non abbiamo altro desiderio che starcene a casa a goderci in pace le nostre conquiste”.

“Ho dipinto ciò che gli altri si sono limitati a fare”, spiegava Kraus con il consueto paradossale understatement, e sosteneva di conservare quei documenti in vista di un’epoca in cui non li si sarebbe più capiti. C’è da presumere che in tutti – pacifisti e guerrafondai – riscontrasse la stessa ebetudine beata che trabocca dalla foto del cadavere di Battisti; politologi sostenitori di tesi assurde, poeti che si lasciano andare a insulsi patetismi, giornalisti che al fronte intervistano soldati per capire cosa provino nel ricaricare un obice, mentre qualcuno amaramente considera che “quando si mira a un arsenale, regolarmente viene centrata una camera da letto e, invece di una fabbrica di munizioni, una scuola per fanciulle”.

La foto su cui Kraus chiude l’opera, simmetrica al cadavere di Battisti, è un crocifisso che si trova vicino a un campo di battaglia in Renania. Durante la guerra viene colpito da una granata e il legno della croce va distrutto, mentre la figura di Cristo resta intatta. Anche quel corpo morto che resta sospeso e nudo, con le braccia levate verso un cielo plumbeo, privo ormai di ogni supporto, mi ricorda le foto di Bucha.

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