André Gide (foto Flickr)

I demoni dell'Africa, a metà tra letteratura e denuncia

Giulio Silvano

Il Viaggio al Congo di Gide e il suo impegno anticoloniale (con qualche distinguo)

Opera letteraria o testo di denuncia? I carnet del Viaggio al Congo di André Gide riescono a essere entrambe le cose. Nella stessa pagina si resta ammaliati dalla bellezza del piumaggio di un uccello e si leggono pesanti critiche al sistema coloniale in Africa. Quando nel 1926, incaricato dal ministero, parte per il suo viaggio che durerà una decina di mesi, Gide è già scrittore di successo e intellettuale in vista, tanto che mentre è lì legge su un giornale di essere stato inserito da un critico tra gli scrittori “astrusi”, insieme a Proust, Rimbaud, Valéry e Cocteau. Siamo nel pieno della Terza Repubblica, non solo rimasugli di revanscismo anti prussiano, ma apice dell’espansione territoriale francese che va dal Libano al Vietnam, dalla Martinica alla Polinesia – “Tre colori, una bandiera, un impero”, ma senza imperatori. 

Il viaggio inizia costeggiando le spiagge di Brazzaville, per continuare su una baleniera lungo il fiume Congo, attraversando le grandi foreste tra Bangui e Nola. La bellezza del paesaggio – che quando “assume una forma precisa”, organizzata, gli ricorda la Francia – è anche causa di un malessere che viene dall’immensità, dall’estraneità opprimente, e dalla monotonia dei cieli. “Ogni giorno sprofondiamo di più in qualcosa di strano”, scrive nel diario. Venticinque anni prima Joseph Conrad aveva pubblicato Cuore di tenebra, dove il narratore, Charles Marlow, racconta la risalita del fiume Congo e l’incontro con Kurtz, commerciante d’avorio, ispirazione poi per Apocalypse Now – “the horror, the horror”. Nella nuova impeccabile traduzione di Viaggio al Congo (Marsilio), Giordano Tedoldi fa notare nell’introduzione: “L’aspirazione di Gide non è di tipo sociologico, politico o documentaristico ma, animato da un demone dell’emulazione quasi inquietante, di ripetere o rivivere l’esperienza conradiana”; per Gide, l’Africa è un luogo dove “la natura assale l’uomo con straordinaria intensità”.

Vengono così spiegate le numerose minuziose descrizioni delle piante, dei campi, dei tronchi, della fauna e del clima. Ma oltre ai tramonti, alle foreste vergini e alle farfalle che cattura per il museo, Gide vede lo sfruttamento degli indigeni, assiste a pratiche violente, vede lo squallore e si chiede cosa possa fare lui, uno scrittore. Finora “ho sempre scritto per quelli di domani, con il solo desiderio di durare. Invidio quei giornalisti la cui voce si fa sentire immediatamente, a costo di spegnersi subito dopo”, ammette. Ma qualcosa farà perché, quando il testo verrà pubblicato nel ’27 da Gallimard, susciterà un dibattito pubblico in un momento in cui il colonialismo non veniva messo in discussione, e che porterà a implementare nuove politiche nelle terre occupate dell’Africa equatoriale. Ma gli esposti di Gide probabilmente oggi, con questa ondata anticoloniale che attraversa campus universitari e musei, verrebbero visti come poco energici. Per quanto sottolinei l’inesperienza tra i funzionari statali, lo scrittore differenzia infatti le azioni di “civilizzazione” dell’amministrazione pubblica – come la scolarizzazione – da quelle delle aziende private tipo la Compagnie Forestiére. “Il potere e la capacità di manovra di queste grandi compagnie sono formidabili”, scrive, invece di “valorizzare il paese” lo hanno “dissanguato, spremuto come un’arancia di cui si sta per gettare la buccia vuota”. Gli indigeni spesso si nascondono quando vedono passare i bianchi, hanno paura di esser trascinati a lavorare nelle piantagioni di caucciù. “Quale demone mi ha spinto in Africa?”, si chiede. “Ero tranquillo. Ora so; devo parlare”.

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