René Magritte, "L'heureux donateur", 1966 (dettaglio)  

Il Foglio del weekend

I fili dell'assenza. Cosa resta di chi scompare senza lasciare traccia

Gaia Manzini

Richey Edwards, Ettore Majorana, J. D. Salinger. Diverse gradazioni di invisibilità, chi si chiude in casa, chi fa credere di essere morto. Un'occasione di rinascita per chi scappa, un vuoto pulsante per chi resta. Come nei fumetti Disney: la mancanza va segnalata con un'aureola di piccoli raggi magnetici

Richey Edwards era il chitarrista e il leader dei Manic Street Preachers, una band brit-pop attiva negli anni Novanta. Il 31 gennaio del 1995 Richey si trovava all’hotel Embassy di Londra, in attesa di partire il giorno successivo per gli Stati Uniti. In programma c’era un lungo tour promozionale per l’ultimo disco della band: The Holy Bible, a detta di molti l’apice della loro produzione musicale. Edwards non amava il pubblico americano, non amava allontanarsi dall’Inghilterra; se fosse stato per lui, non sarebbe partito. Certo, con l’alcol non aveva più nulla a che fare, ma i tanti anni di depressione pesavano sul suo equilibrio. O forse, no; forse sono solo supposizioni. Qualche settimana prima, si era rasato a zero per commemorare il recente trapasso del suo cane Snoopy, e aveva raggiunto la band agli uffici della Sony con indosso un pigiama da deportato e un paio di pantofole ai piedi. Segni di malessere, probabilmente; oppure soltanto eccentricità esibita.

Ad ogni modo, il 31 gennaio si trovava all’Embassy di Londra insieme a James Dean Bradfield, il cantante e chitarrista della band. Il mattino seguente, il primo febbraio alle 7, a poche ore dalla partenza per gli Stati Uniti, venne visto uscire nell’aria gelata da un addetto alla reception. Da quel giorno nessuno ha mai più incontrato Richey Edwards: da quel giorno è scomparso nel nulla. Un turista inglese ha creduto di riconoscerlo a Goa, ma Scotland Yard non ha mai tenuto conto di questa testimonianza (tra l’altro, il passaporto di Edwards era rimasto in Gran Bretagna). Una decina di giorni più tardi dalla sua sparizione sono state ritrovate un paio di scarpe sulla riva del Severn Estuary – delle Diadora bianche e blu rinvenute da un pescatore. Ma l’ipotesi del suicidio è stata dubbia fin dall’inizio. Richey Edwards era ossessionato dall’autenticità: i Manic Street Preachers venivano dai quartieri popolari del Galles.  Nei loro testi condannavano le ingiustizie sociali e i danni del capitalismo; erano un gruppo politico, ma comparivano regolarmente sulle copertine patinate. Era difficile sfuggire alle contraddizioni dello star system: Edwards era ossessionato dal fatto che i media potessero mettere in dubbio la sua integrità. Così, durante un’intervista nel backstage di un concerto, aveva preso dalla tasca un coltello a serramanico e si era inciso sull’avambraccio la scritta 4 REAL. 

Il chitarrista Richey Edwards era ossessionato dall'idea che i media potessero mettere in dubbio la sua integrità. Poi è scomparso nel nulla

 

Da quel primo febbraio 1995, Richey Edwards è scomparso nel nulla: il suo corpo non è mai stato ritrovato; per molti anni i diritti della sua musica sono stati versati su un conto a suo nome e mai prelevati da nessuno. La band dei Radiohead ha dedicato alla sua storia una canzone che si intitola How to Disappear Completely.

Un altro che avrebbe voluto scomparire definitivamente era lo scrittore svizzero Robert Walser (1878-1956). In una delle foto che lo ritraggono da ragazzo, Walser ha la schiena curva e il collo proteso, sembra che stia mimando un inchino. Era qualcuno che praticava la modestia, che detestava la presunzione in ogni sua forma – anche posturale –, e fin da subito rinunciò a ogni desiderio di grandezza. Nella sua vita aveva accettato ogni genere di lavoro: era stato impiegato, assistente, cameriere, segretario. Cambiava mestiere in continuazione, come in continuazione cambiava indirizzo: era come se volesse far perdere le proprie tracce. Nella sua irrequietezza c’era l’esplicita volontà di scomparire, il desiderio di sentirsi “un’entità sperduta e dimenticata nell’immensità della vita”. Nel romanzo-diario Jakob von Gunten (1909), Walser racconta di un gruppo di ragazzi che frequentava l’istituto Benjamenta: un’accademia per domestici in cui si imparava a servire. Essere al servizio significava essere “qualcosa di molto piccolo e subordinato”; ma lì, in quell’agire ristretto e umile si poteva scorgere un senso più grande, precluso ai vanagloriosi. Nell’ultimo periodo della sua attività letteraria, Walser incominciò a scrivere con una grafia sempre più piccola, quasi indecifrabile. Scriveva a matita: per lui il lapis era più vicino all’idea di scomparsa di quanto non lo fosse una penna. Scriveva su ricevute, telegrammi, tutt’intorno ai bordi dei libri, quasi che il suo pensiero dovesse sempre essere subordinato ad altro. Si tratta dei famosi microgrammi walseriani. Alle sue opere si interessarono i grandi intellettuali del primo Novecento: Kafka, Canetti, Benjamin. Ma a Walser non interessava, a lui interessava solo dissolversi. A cinquantacinque anni smise di scrivere e venne trasferito nel sanatorio di Herisau. Ci rimase per quasi vent’anni. Il tempo libero lo impiegava camminando. Il pomeriggio di Natale del 1956, Walser uscì dal manicomio per la consueta passeggiata e si avviò verso le colline. Nessuno può dire come si sentisse, se avesse avuto qualche segnale di un malessere; ma dopo qualche ora di cammino, cadde senza vita nel mezzo di una distesa innevata. Cadde in una specie d’immensa tabula rasa che col suo biancore doveva averlo reso felice per tutte le sue passeggiate invernali; tutte fino all’ultima, quella che aveva compiuto la sua scomparsa dal mondo.

Robert Walser, che cominciò a scivere con una grafia sempre più piccola, quasi indecifrabile. A matita: più vicina della penna all'idea di scomparire

 

In un caldo pomeriggio di giugno a Milano un uomo scompare. A dare l’allarme è la sua amante che, preoccupata, telefona a Mario, fratello dell’uomo sparito. Così comincia La grande sera di Giuseppe Pontiggia (Premio Strega 1989): un romanzo tutto costruito su quella scomparsa, su quella improvvisa assenza. L’assente è il vuoto magnetico intorno al quale ruotano tutti i personaggi del libro. Chi ora non c’è – o c’è in un ignoto altrove – rivive dentro ai loro racconti, alle loro testimonianze: a emergere via via, però, non è solo l’identità del protagonista svanito nel nulla; sono anche le ambiguità e le ipocrisie di tutti gli altri. Ognuno di loro si sottrae a un’esistenza piena per un motivo sempre differente, ognuno di loro aderisce acriticamente a uno stereotipo. Giulia nasconde le sue ambizioni poetiche per dedicarsi al marito infedele. Mario, il fratello, non riesce a emanciparsi da una vita grigia. I soci Campisi e Terragni si dedicano ad affari poco chiari. Anche aderire a uno stereotipo è una declinazione dello scomparire, dell’annullarsi come persone.

Sparire è come morire, ma senza violenza. Dal punto di vista di chi rimane, tuttavia, l’assenza è una presenza pulsante. Anni fa Tiziano Scarpa scriveva in un suo libro la teoria delle aureole. Raccontava di una storia a fumetti in cui Paperino – con l’intenzione di portare in gita Qui, Quo e Qua – esce di casa e si avvia alla macchina, ma la sua 313 è sparita. Il vuoto lasciato dall’automobile è rappresentato da un’aureola di piccoli raggi, tratti a penna disposti a raggiera. Quell’aureola dice un’assenza speciale. Quella della 313 non è semplicemente un’assenza, ma una mancanza. “La mancanza non è la constatazione di un’inesistenza: è la percezione emotiva di un’esistenza sottratta”. La mancanza scintilla, ha un suo innegabile fulgore. Non può che essere motore narrativo, meccanismo letterario. E lo è in due direzioni: per chi cerca lo scomparso, lo racconta, lo riscrive, fa ipotesi sulla sua vecchia vita e sulla nuova; e per chi fugge, perché la fuga è un sottrarsi dalle regole condivise, racconto di sé che si proietta nel futuro. Anche nelle scelte che sembrano le più drammatiche, la fuga non è quasi mai il principio della fine: per chi se ne va, sparire significa soprattutto voler riapparire da qualche altra parte. In questo senso, sparire non somiglia affatto alla morte, ma – al contrario – a un’idea personale di rinascita. 

Il 27 marzo del 1938, il professore di Fisica Ettore Majorana, considerato da Fermi il più grande fisico teorico di quei tempi, era scomparso nel nulla. Aveva lasciato alcune lettere: presentava la sua come una decisione necessaria, non motivata da alcun egoismo. Il mistero di questa scomparsa solleticò lo spirito da “investigatore di Dio” – secondo la definizione di Gesualdo Bufalino – di Leonardo Sciascia, che scrisse per la Stampa una serie di articoli, basati sull’epistolario dello scienziato e su svariate testimonianze, che confluirono poi nella Scomparsa di Majorana. Per gli inquirenti il caso sembrava rientrare in una tipica scomparsa con proposito di suicidio. Ma il motore della narrazione non può essere la certezza; solo l’ambiguità della vita muove lo scrittore, e Sciascia scrive dubitando, scrive per indagare la complessità psicologica che soggiace a una decisione drastica come quella di lasciare tutto. Majorana aveva portato con sé il passaporto, aveva ritirato gli stipendi di cinque mesi di insegnamento e si era imbarcato sul piroscafo per Palermo. Leonardo Sciascia insegue nel suo libro una verità letteraria, e la verità letteraria si situa nella complessità dell’animo umano: il grande scienziato, per lo scrittore siciliano, non era né un suicida né un folle, ma qualcuno che aveva organizzato la propria fuga in modo quasi scientifico: “Come una minuziosamente calcolata e arrischiata architettura”, per non collaborare all’avvenire di distruzione che sembravano promettere le ricerche atomiche. Imitando la sorte dei personaggi di Pirandello, Majorana scompare e torna a essere un uomo solo che fa valere le ragioni del singolo contro il ruolo che la società gli impone. L’atto stesso di pianificare la propria fuga è un atto inventivo e creativo, una narrazione vivificante.

Tiziano Scarpa: "La mancanza non è la constatazione di un'inesistenza, è la percezione emotiva di un'esistenza sottratta"

 

Dal 1953, come conseguenza dello strepitoso successo del suo Il giovane Holden, J. D. Salinger inizia a nascondersi in modo sistematico dall’occhio indagatore della stampa, dalle telecamere: dal mondo. La sua è una scomparsa in vita nel rifugio di Cornish, nel New Hampshire. Però più l’autore si difende, più si sottrae e più nascono supposizioni di ogni genere. La macchina narrativa, così consustanziale alla vita di tutti noi, è inarrestabile. Nell’immaginario collettivo Salinger diventa un personaggio di cui è necessario scrivere la storia, o le storie possibili. Si arriva persino ad associarlo alla figura di Unabomber.

Non può sorprendere, allora, che giovani autori come Mattia Corrente siano affascinati dal tema della scomparsa. La fuga di Anna, pubblicato da Sellerio, è la storia di Severino la cui moglie – dopo anni di matrimonio – è scappata senza lasciare traccia. I segni di quella decisione erano già incisi nella lontana giovinezza di lei: lei che desiderava essere come il vento, oppure piccola come una formica; lei che non si voleva sposare e aveva sotterrato il suo abito da sposa. Eppure le ragioni della fuga non sono inscritte solamente in una carattere libero e irriducibile, non nel rifiuto delle aspettative che gravano su una donna. C’è qualcosa di più profondo e radicale da scoprire in questo romanzo psicologico. Tante le sfumature dentro l’atto inebriante di andarsene. Il fuggitivo è spesso inseguito da un’angoscia: “Quando scompari rischi di non diventare più nessuno, non sei più quello che eri ma non puoi essere nemmeno un altro.” Ed è da qui, da questa considerazione, che il discorso sulla scomparsa prende sfumature più contemporanee: si può scomparire anche nella visibilità, perdendo traccia di se stessi. 

Più l'autore si difende, più si sottrae e più nascono supposizioni. La macchina narrativa consustanziale alla vita di tutti noi è inarrestabile

 

Jocelyn Wildenstein, una donna keniota-americana ora ottantenne, si è sottoposta a una settantina di operazioni estetiche per trasformare il proprio volto in quello di un gatto. Ha messo in atto una vera e propria metamorfosi, anche psicologica. E’ scomparsa per lasciare posto a un felino. Tornando all’ambito letterario, Mario Vargas Llosa fa innamorare Ricardo, il protagonista del bellissimo Avventure della ragazza cattiva, di una donna che rincontrerà per tutta la sua vita – a Londra, a Parigi, a Madrid – e che ogni volta avrà cambiato identità; una donna che lui ama profondamente ma che ha trasformato il proprio io in un caleidoscopio. La verità è talmente sfuggente da suggerire forse che quella niña mala non esiste; sicuramente che potrebbe scomparire di nuovo, da un momento all’altro. Lo stesso si potrebbe dire di Anna, nella serie tv Inventing Anna. La serie nasce da un fatto di cronaca: tra il 2013 e il 2017 una presunta ereditiera, Anna Delvey, truffò per centinaia di migliaia di dollari banche, istituzioni finanziarie e amici con l’obiettivo di raccogliere fondi per lanciare un club privato. Anna Delvey (all’anagrafe Sorokin), nata in Russia e poi cresciuta in Germania, riuscì misteriosamente a ingannare le personalità più ricche e influenti di New York. Quello che colpisce è il movimento del personaggio, dunque della trama: più si apprendono informazioni su Anna e meno la si capisce. Più è presente e più risulta evanescente. La ricerca e il conseguimento della massima visibilità sembra essere oggi la nuova frontiera della scomparsa. Nuova terra di narrazioni per un tema universale.