“Young Mother Sewing” di Mary Cassatt (1900), olio su tela, Metropolitan Museum of Art (Wikipedia) 

Se l'infanzia è una guerra (almeno in letteratura)

Gaia Manzini

Può essere crudele e deludente, eppure felice. È la nostra prima sfida al mondo. Due romanzi su due bambine

La chiamavano Génie la matta. Ogni giorno andava nelle fattorie della zona a dare una mano, accettava qualunque lavoro: tagliava le siepi o la legna, faceva le fascine, zappava le vigne, i campi di piselli e di fave; si dedicava alla sarchiatura del granturco, alla mietitura, alla raccolta della frutta, alla vendemmia; se ce n’era bisogno cucinava per i battesimi, le comunioni, i matrimoni. D’estate camminava a piedi nudi, d’inverno portava un paio di stivali neri di gomma, imbottiti di paglia che le si incollava ai piedi. Parlava pochissimo e nessuno le rivolgeva la parola, tranne per lo stretto necessario. Se si riferivano a lei, non potevano che accompagnare il nome al suo appellativo.

Lei era la matta, quello era il suo ruolo all’interno della società. Eppure con Génie la matta c’era sempre una bambina. Le trotterellava al fianco, si sedeva su un sacco di iuta mentre la donna lavorava, raccoglieva mazzi di fiori, giocava con la terra, con le radici, con l’erba. E non la perdeva mai di vista, neanche un momento: aveva paura che se ne andasse lasciandola lì sola, ai margini di un campo sconosciuto. Se c’era la foschia, la bambina seguiva l’ombra della donna e correva verso di lei proprio quando era sul punto di sparire. Sì, aveva paura che lei non la volesse. La donna le diceva di continuo “Non starmi tra i piedi”. Oppure “Sta’ buona”. Oppure “Dormi un pochino”, “Non piangere”. 

Génie la matta di Inés Cagnati, edito da Adelphi e per la prima volta tradotto in Italia da Ena Marchi, vinse nel 1976 il prix des Deux Magots. Il libro è un susseguirsi di piccoli sipari d’amore filiale, non si sa se corrisposto, in cui si mette in scena la paura atavica di ogni bambino: quella di essere abbandonato, sperduto senza difese in un mondo enorme e incomprensibile. Capitoli brevi e ipnotici; scene che si ripetono simili, contrappuntate di piccole variazioni e scolpite da una lingua scarnificata, totalmente calata nella realtà eppure quasi metafisica. Ogni scena è immersa nel silenzio circostante e filtrata dallo sguardo della bambina che segue la madre e sogna il suo amore: un gesto, un’attenzione, una tenerezza; per la quale la madre ruvida, povera, emarginata, è tutto il mondo e l’unico mondo che vorrebbe. Génie spesso piange davanti al fuoco, dice: “Non ho avuto niente, io” e la bambina risponde: “Hai me”. “Ma lei continuava a piangere. Allora credevo che non mi volesse. Volevo amarla ogni minuto della mia vita perché mi volesse, la seguivo dappertutto”. 


“Génie la matta” di Inés Cagnati, edito da Adelphi e per la prima volta tradotto in Italia da Ena Marchi, vinse nel 1976 il prix des Deux Magots


In un’intervista l’autrice ha parlato della letteratura come letteratura di testimonianza, che serve a restituire dignità; a rendere meno inverosimili, assurde, crudeli certe vite fatte solo di miseria. Inés Cagnati era figlia di contadini di Treviso trasferitisi in Francia dopo la Seconda guerra mondiale. Ha sperimentato lo sradicamento, quella sensazione di non appartenere a nessuna terra – né a quella lasciata per sempre, né a quella che l’aveva accolta –, ha sperimentato l’indicibile solitudine di chi si sente emarginato, e ha portato il silenzio di quella solitudine dentro il suo stile. E’ un silenzio che urla sulla pagina, che vorrebbe strappare la realtà, regalarsi una speranza. Ma che speranza può avere una donna vittima di uno stupro che si tira dietro ogni giorno la figlia, prova evidente di quella violenza? Che speranza può avere una donna sola, poverissima? Che futuro la bambina, vittima a sua volta di violenza? E’ un libro crudele, questo, che s’impasta con l’incomunicabilità di certe vite, certe storie di miseria in cui la prima povertà che si sperimenta è quella del linguaggio. Non c’è tempo per pensare ai sentimenti, non c’è tempo per ragionare sulle emozioni, tanto meno per descriverle con le parole. E allora è un mondo alla rovescia, dove ogni gentilezza sembra strana, sembra quasi contenere un maleficio. Il mondo alla rovescia dei matti. Il matto è il catalizzatore della sofferenza di una società, quello che si fa carico dei mali. Ma il matto è anche una rassicurazione: l’altro è matto perché noi siamo normali, e affinché noi possiamo esserlo. Il matto ha sempre avuto un posto nella società, e così ce l’ha Génie a cui viene sempre assicurato un lavoro. Ma Génie non è matta, è solo infelice: caduta nel pozzo di quell’infelicità di cui solo le donne sono capaci. Vorrebbe un amore senza sofferenza, una vita senza rifiuto, senza disprezzo; e quando finalmente arriva, quando un uomo le offre di vivere con lei, quando avrà un bambino nato dal consenso e dall’affetto, la comunità si vendicherà contro di lei. 

Quella di Cagnati è una storia brutale raccontata dalla voce di una bambina che mantiene immutato – dall’inizio alla fine – il suo amore incoercibile per la madre, il rispetto per la sua vita di stenti, per la sua fatica abissale. L’incanto del suo sguardo ci racconta, come in una fiaba, le ingiustizie del mondo e insieme la speranza, la possibilità di vedere la bellezza, di cogliere lo stesso la poesia, il lato lirico. Come quello che ritrova Marie (la bimba ormai cresciuta di Génie la matta) nelle parole di quel ragazzo che una notte alla stazione si è innamorato perdutamente di lei. 


Un libro crudele che s’impasta con l’incomunicabilità di certe vite. Storie di miseria in cui la prima povertà che si sperimenta è quella del linguaggio


Chi scrive lo sa: lo sguardo di un bambino sul reale dà la possibilità di non censurare niente, di cogliere l’essenziale della vita e delle dinamiche tra forze contrapposte senza che questo ci travolga e ci prosciughi. Lo sapeva Fred Uhlman, che ci ha regalato la sua Trilogia del ritorno; lo sapeva Agota Kristof, ma anche Niccolò Ammaniti con i suoi bambini sempre lì a fare i conti con i lati oscuri della vita.  Fabrizia Ramondino era coetanea di Inès Cagnati, ma non credo si siano mai conosciute. Eppure il suo bellissimo Guerra di infanzia e di Spagna (2001), nuovamente pubblicato da Fazi, dialoga e battibecca con Génie la matta. Al centro c’è Titita, figlia del console italiano sull’isola di Maiorca. “Era dai tempi delle Botteghe color cannella di Bruno Schulz che non leggevo un romanzo così incantato sull’infanzia, fondativo di un immaginario e, insieme, della lingua perfetta per scoprirlo. Guerra di infanzia e di Spagna è una mito-biografia che, dando spazio a una voce bambina, riesce a riscrivere un pezzo di storia, è un mosaico di narrazioni scintillanti e fantastiche, un turbine di personaggi vividi e incandescenti”, scrive Nadia Terranova nella prefazione alla nuova edizione. Se in Génie la matta lo sguardo incantato della bambina serviva a dare luce al mondo cupo della storia, qui è la luce interna alle cose del mondo che lo sguardo di Titita riesce a cogliere. In entrambi i casi è sempre l’incanto a riscrivere la realtà.

Incantato è il giardino dove Titita passa tutti i pomeriggi. “Fumavo radici di liquirizia, bevevo calici di fiori, ficcavo il dito nelle bocche di leone, sfidandole come fossero animali feroci, ma subito, dimentica del gioco, ne succhiavo il nettare dolce. Scavavo la terra e vi deponevo dentro insetti vivi e morti, i fiori di pisello-lattanti, i rametti spinosi che immaginavo soldati; giocavo alle tombe. Ispiravano forse quel gioco la gelosia verso i miei fratelli e l’imperversare della guerra intorno a noi”. L’incanto è scegliere il proprio nome, tra i tanti vezzeggiativi e diminutivi con i quali tutti si rivolgevano a lei; e quindi creare sé stessa dal niente. La bambina sceglie il nome che contiene la petulanza delle dentali e la ripetizione della prima sillaba: lo fa apposta per suggerire qualcosa di appuntito, aguzzo, determinato. Titita, appunto. Il primo grande incanto è sempre quello della lingua che crea e inventa il mondo. Tanto più per Titita, bilingue, che di mondi ne ha due e sperimenta di continuo il passaggio dall’uno all’altro. Se la chiamano “bambina” si percepisce come una bambola; se a quel “bambina” aggiungono “carina”, addirittura, è come se prendesse la consistenza della caramella. Ma se si riferiscono a lei con “niña” la metamorfosi è fatta, Titita si sente trasformata in una presenza fiabesca, e tutto per via di quel segno stregato che compare proprio al centro della parola.

L’incanto è negli oggetti, anche i più piccoli, come il ditale che Titita trasforma in bicchierino o talismano. E’ l’incanto dei vestiti e poi delle case frequentate sull’isola e abitate da pavoni e da scimmie. E, ancora, l’incanto della signora Pynia che sapeva sempre come smacchiare un vestito ma teneva segreti i suoi rimedi; come il figlio medico a Barcellona, che si dava anche lui a un’attività segreta, quella della propaganda sovversiva. L’incanto di una tata che sembra una madre, anzi forse è di più di una madre, così piena di amore e devozione; così delicata nei gesti e nelle attenzioni, da meritarsi poi il licenziamento. Incanto persino per lo stanzino di punizione, giacché lì ci poteva arrivare chiunque solo se nominato, dall’orco del bosco, fino ai piloti nemici o ai sovversivi tutti. E quando Titita cresce e va in collegio, c’è l’incanto dei sensi: tutto è classificabile attraverso odori, suoni, sapori; tutto si può trasformare in una sinfonia di evocazioni. Tutto può essere visto e vissuto da una prospettiva diversa e sorprendente.


“Guerra di infanzia e di Spagna” di Fabrizia Ramondino, ripubblicato da Fazi. Al centro c’è Titita, figlia del console italiano sull’isola di Maiorca



L’arrivo degli italiani negli anni Trenta trasformò l’isola di Maiorca in una poderosa base aerea. Mussolini aspirava a ottenere basi navali e aeree permanenti nelle Baleari. Francisco Franco, dal canto suo, concentrò tutta la flotta a Palma, come a sottolineare il suo predominio sull’isola, facendone così il centro del blocco mediterraneo, tanto aereo quanto navale. Lì erano concentrate le forze dell’aviazione legionaria italiana, dell’aviazione tedesca e dell’aviazione nazionale spagnola. Nel novembre del 1936, vista la massiccia presenza di forze italiane, venne istituita a Maiorca una rappresentanza diplomatica italiana ufficiale. Il console venne nominato direttamente da Galeazzo Ciano. Tutte queste premesse storiche, così come il proseguimento della Seconda guerra mondiale, nel libro entrano solo come chiacchiere sussurrate, accenni, trasmissioni radio, refoli che si infilano nel mondo incantato di Titita.  E’ un monaco originario di quei luoghi a raccontare il bombardamento di Guernica. L’orrore del cielo oscurato dalle forze aeree, la città ridotta un ammasso di rovine, sangue e lamenti, tutta putredine e piaghe, simile al seno di una donna attaccato dal cancro. Oppure la guerra è dentro agli occhi delle persone. Occhi gremiti di ombre come quelli del padre, occhi che paiono di vetro come quelli della madre. La guerra è dentro la radio o nelle esclamazioni della nonna: che orrore, che barbarie; e poi nelle sue lettere che arrivano da Napoli e che la fanno sembrare una cosa lontana. La guerra è scritta sui giornali insieme alla sconfitta dell’Italia, giornali che però la maestra distribuisce agli alunni per costruire maschere di cartapesta.  O ancora, la guerra e le sue conseguenze stanno acquattate nelle sensazioni inconsapevoli di una bambina. “Non potrei dire che in quel campo fossi felice – la felicità presuppone la presenza di vuoti attraverso cui circolare, è un elemento aeriforme; né che fossi allegra. Ero anzi il contrario dell’effervescenza; mi sentivo un tutto pieno; ma non ero sazia – perché a sua volta la sazietà presuppone un vuoto. Ero piuttosto come una pietra, che non è mai stata vuota”.   


Nel mondo incantato di Titita le vicende della guerra entrano solo come chiacchiere sussurrate, accenni, trasmissioni radio


In Ramondino c’è una ricchezza linguistica meravigliosa. L’infanzia che descrive sembra l’esatto contrario di quella di Marie in Génie la matta; ma solo apparentemente, solo nell’immaginario che viene evocato. Perché l’infanzia è sempre una guerra, è un’impresa. Bisogna saper trovare le ragioni della propria appartenenza a chi ci ha dato la vita, ma anche sapercene distinguere. Anche qui c’è una bambina che insegue la madre, va in giardino con lei, innaffia i fiori, ma la madre è distratta non se ne cura; da quella madre non arrivano mai le attenzioni agognate, ma solo lotta, litigi da tigri, dolore poi per quella rabbia che dilania. L’infanzia è una guerra di sopravvivenza, una sfida al mondo complesso e piatto, talvolta crudele e deludente. Vince chi riesce a portare in salvo un po’ d’incanto anche se intorno tutto è stato bombardato.
 

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