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La scala a spirale della vita, in cui nulla si recupera e nulla si perde del tutto

Matteo Marchesini

Le esistenze da restaurare in "Via da qui" di Alessandra Sarchi. La scrittrice fa la spola tra i venti e i quarant’anni delle sue creature, ovvero tra l’epoca in cui sembrano avere davanti innumerevoli possibilità, e il momento nel quale rimangono impigliate in una realtà ineluttabile

Usando uno schema un po’ rozzo, ma senza far torto alla verità, si potrebbero dividere le forme moderne della narrativa breve in due popolose famiglie. Da una parte ci sono i racconti incentrati su un’epifania istantanea che condensa in sé tutta l’energia vitale altrimenti dispersa in interminabili anni senza storia; dall’altra parte ci sono i racconti che della vita rappresentano invece la continuità, e in cui le epifanie vengono subito riassorbite nel gran mare dell’essere. In questi racconti l’autore muove i personaggi avanti e indietro nel tempo, lavora la narrazione a strati, e pur senza aprire le prospettive ariose del romanzo, mira comunque a esprimere per scorci una lunga durata. Così, ad esempio, compone le sue storie Alice Munro.

 

Mi chiedo se Alessandra Sarchi non abbia tenuto un suo libro sul comodino, mentre scriveva i bei racconti di Via da qui usciti ora da minimum fax. In questi cinque pezzi si ritrova infatti la stessa gestione del tempo – lo stesso passo misurato nell’andare su e giù tra le età dell’esistenza, come lungo una scala a spirale, con la consapevolezza che nel suo corso nulla si recupera del tutto e nulla va mai del tutto perduto, ma ogni cosa si trasforma e spesso (è un segno malinconico della maturità) si riusa. La Sarchi fa la spola tra i venti e i quarant’anni delle sue creature, ovvero tra l’epoca in cui sembrano avere davanti innumerevoli possibilità, e il momento nel quale rimangono impigliate in una realtà ineluttabile. Ciò che l’appassiona è il modo in cui queste creature cercano di ritrovare il filo delle proprie speranze, sbrogliando la matassa di lingue, relazioni e paesi che si sono sovrapposti nelle rispettive biografie. Per riuscirci devono costruire un compromesso tra diverse immagini di sé, ricucire insieme i pezzi dell’esperienza con attenzione amorevole e dolorosa. Riuso, si diceva. Non per caso, la raccolta si apre su due ragazze che imparano a riverniciare periodicamente gli infissi dell’appartamento preso in affitto; e in mezzo a tante protagoniste femminili, l’unico maschio che ha un ruolo di primo piano è un architetto-restauratore.

 

Nell’“Argine”, Ines vuole risistemare una casa sul Po. In “Il palazzo della principessa”, l’artista Melissa e l’ex broker Filippo si trasferiscono abusivamente nel sottotetto di un sontuoso palazzo in ristrutturazione, arredandolo con oggetti dalla provenienza più varia. E nell’ultimo racconto, “Fondamenta della Misericordia”, Marta gestisce il suo ménage di coppia nelle stesse stanze veneziane che ha condiviso da studentessa con le amiche. Per restaurare la propria vita, conciliando le esperienze e le epoche, occorre guardare le cose da una certa distanza. I luoghi e le situazioni familiari si (ri)conoscono davvero solo dopo un distacco, e l’affetto tra gli esseri umani resiste se come i porcospini di Schopenhauer non stanno né troppo vicini né troppo lontani. Nella casa di Marta, destinata a occupare una posizione intermedia tra le figure che la circondano, i personaggi di “Fondamenta della Misericordia” trovano un raccoglimento che permette loro di perdonare e perdonarsi.

In “Cherry Street”, Annamaria capisce a fondo la cultura classica italiana nelle biblioteche di Los Angeles, sotto un cielo “oceanico e anestetico”. Appena tornata dagli Usa, Ines tenta di riappropriarsi delle sue radici padane restando sospesa tra due continenti; e la nipote, che interpreta gli eventi quotidiani distanziandoli in un diario, sperimenta un istante di gioia pura quando vede da un’angolatura insolita il “ritrovo segreto” dei giochi.

Nel caso estremo del racconto “La tana”, la distanza è quella della morte, che a Monica rivela certe piccole abitudini della compagna, e che costringe un amore segreto a fare i conti con la realtà circostante. Via da qui è un titolo quasi antifrastico. La narratrice, infatti, ci propone soprattutto dei ritorni. Alle “fughe” che li precedono allude in termini convenzionali, come per sottolineare che sono parentesi astratte: si vedano le pagine sul matrimonio americano di Ines, o si pensi alla formula dell’“alta finanza” in cui è riassunta l’esistenza condotta da Filippo prima dell’incontro con Melissa. Più in generale, gli sfondi sociali rimangono abbastanza vaghi. Alla Sarchi interessa descrivere concretamente ciò che si trova negli immediati dintorni degli individui, in quell’intimità intorno alla quale si smorza il brusio del mondo. Soffermandosi su cibi, cene, vestiti, mobili, movimenti dei corpi e vibrazioni della luce, la sua prosa avvolge i personaggi in una sobria pietas domestica. Ma questa “riserva notevole di compassione” è sempre accompagnata da uno sguardo fermo su ciò che nella vita è irreparabile. Perché sta lì – la Sarchi lo sa bene – la cruna da cui deve passare ogni vera consolazione estetica.
 

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