Franco Javarone nel ruolo di Mangiafuoco (foto Ansa)

Facce dispari

Franco Javarone, la curiosa storia del Mangiafuoco filosofo

Francesco Palmieri

La religione, il destino, il teatro, Fellini, Vitti e Mastroianni. L'attore napoletano si racconta al Foglio.  “Sono un analfabeta intellettuale. E soffro di una depressione al contrario”

È stato camorrista per Corbucci, professore di basso tuba e poi il becchino Pigafetta per Fellini, ‘"Asso di Bastoni" per De Simone, Mangiafuoco per Benigni, e grazie alla fisicità imponente che oscilla tra il sontuoso cattivo e il burbero dolce si è ritrovato nei cast di Fassbinder e Luciano De Crescenzo, ne "L’Opera da tre soldi" diretta da Strehler e in "Prima pagina" con Monica Vitti e la regia di Sbragia. L’elenco è lungo e commendevole per Franco Javarone, napoletano, 79 anni, da qualche tempo anche pittore, il quale si considera “un analfabeta intellettuale” e trascorre dal registro grave del dialetto alla lettura di Dante o ai monologhi di Shakespeare spiegati all’Università di Napoli con l’agilità del grande attore (“lo scriva, perché sono vanitoso”) o di chi proprio non recita per niente (“lo scriva, che non ho mai studiato”). Ma Javarone è stato prima di tutto un sarto. Non a cinema e a teatro, ma un sarto veramente.

 

Come si passa dalle forbici alle scene?

Nacqui nel pieno della guerra, nel ’43, da una famiglia povera e sfollata. Ma Iddio mi mise qualche cosa dentro. In sartoria gli altri sentivano alla radio Nilla Pizzi e Claudio Villa, e cantavano, cantavano… Invece a me piaceva la musica di Mozart, di Beethoven. Mi piaceva il teatro, però non avevo i soldi per andarci sicché trovai uno stratagemma. Agganciai Michele detto "mezarecchia" che era il famoso claquer del Politeama: lui si portava ogni sera un gruppo di ragazzi incaricati di applaudire, così potei godermi le migliori regie e i migliori attori che passavano per Napoli. Mi avvicinavo al sogno, poi provino dopo provino entrai nel sogno anch’io.

 

Sogno ampiamente realizzato: lei ha recitato con Tedeschi, Monica Vitti, Lavia, Vanessa Redgrave, Peppino De Filippo, Mastroianni, Benigni… eccetera.

Ogni mattina vado in chiesa a ringraziare Dio: il talento me l’ha dato lui e non credo che quando ce ne andiamo tutto finisca così. Chi non spera in un Oltre diventa cattivo, se la prende con gli altri. Io che sono un analfabeta intellettuale ho raggiunto la convinzione che tutto quanto ho imparato, in qualche modo, lo porterò con me. L’unico vero dramma della vita è il tempo che passa: non possiamo farci niente.

 

Crede al destino?

Ciascuno nasce con il suo: gli devi fare l’occhiolino e non devi sfidarlo perché lui è più forte, se lo contrasti perdi male. Quando mi chiamavano per una parte non mi sorprendevo: è come se sapessi inconsciamente che il mio fato non era fare il sarto con la quinta elementare, ma recitare coi maestri. Però non sono stato schiavo dei soldi e del successo. I soldi li ho spesi sempre in modo barocco. Una volta comprai un blocco di cento paia di guanti pregiatissimi perché mi piaceva regalarli. E il successo poi: che cos’è? Che quando muori hai un bel funerale. Lottiamo tutta la vita per un bel funerale.

 

Ma lei è depresso?

Ho la depressione girata al contrario, cioè mi sento sempre benissimo. È un’evidente mancanza di equilibrio, quello ce l’hanno solo i saggi e i santi.

 

Non crede alla felicità?

Negli attimi. Felicità è quando trovi un posto insperato per parcheggiare la macchina. Sono gli spaghetti col pomodoro del piennolo, qualche prima colazione, una vittoria del Napoli.

 

Però anche recitare, no?

L’attore è un mestiere talmente misterioso che non puoi mai essere sicuro di niente. "Non me ne sono visto bene", come diciamo a Napoli, di nessun successo teatrale per l’angoscia di sbagliare. Solo a fine serata mi dicevo: pure oggi ce l’ho fatta. Questo è stato per tutta la vita.

 

E nel cinema? Ha avuto il privilegio di lavorare per il più grande.

Fellini. Fra i tanti episodi mi riaffiora il doppiaggio di "Prova d’orchestra", quando non imbroccavo il sync: lui disse "guarda me", e ci riuscii col suo labiale. Aveva dentro i tempi di tutti. Girai anche la pubblicità dei rigatoni Barilla: essendo strabico non dovevo guardare in macchina ma non riuscivo. Alla fine sbottai. Lui sdrammatizzò con un sacco di risate. E ci riuscii. Poi mi volle per impersonare il becchino ne ‘La voce della luna’, ma ero impegnato in ‘Prima pagina’ a teatro con la Vitti. Avevo libera solo la settimana di Natale, così Fellini approfittò di quei giorni per girare le mie scene. La lavorazione del film sarebbe cominciata solo a febbraio.

 

Che ricordo ha della Vitti?

Una bellezza senza precedenti. E aveva sessant’anni.

 

In "Giallo napoletano" nel ruolo di cattivo lei ha il privilegio di tormentare il mandolinista Mastroianni.

Mastroianni possedeva l’arte più grande che esista: la semplicità. Non recitava. Quando arrivi a recitare senza recitare sei veramente un grande attore. Come Gianrico Tedeschi, un gran signore di cui ho indimenticabili ricordi. Poi ci sono talenti come Gassman, che era un po’ trombone. Però un trombone che suonava benissimo.

 

Qual è la scelta più bella della sua vita?

Forse quando ebbi il coraggio di rinunciare a un ’Enrico V’ diretto da Sbragia, pagando pure la penale, per un ruolo ne ‘La gatta Cenerentola’ di De Simone, che scrisse il prologo apposta per me. Non volle mai sentirlo alle prove: disse ‘fammelo ascoltare direttamente alla prima’, al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Persi un sacco di soldi, ma che cosa meravigliosa.  

  

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