Libri che aprono il mondo
La scrittura come atto muscolare. La mano di Roland Barthes
Esce in Italia una silloge di scritti inediti del grande polemista francese. Testi su se stesso, su Gide, Proust, Camus e sulla vertigine dello scrivere come gesto fisico
"Scrivo. Scrivo che scrivo. Mentalmente mi vedo scrivere che scrivo e posso anche vedermi vedere che scrivo. Mi ricordo che già scrivevo e anche che mi vedo scrivere che scrivevo…". Questi pensieri di Salvador Elizondo richiamano il senso di una scrittura che tende ad inglobare sé stessa in un procedimento che Gide, mutando il termine dal lessico araldico, ha definito di mise en abyme, alludendo allo sprofondamento dello scrivere nel suo riflesso.
In quello specchio che – si legge ne La falsa moneta – "mi porto a spasso", perché "niente di quello che mi accade diviene realtà per me, sinché non lo vedrò riflesso in esso". A delinearsi è l’intransitività dell’atto di scrittura. Di un gesto che dà luogo ad una parola "(infinitamente) lavorata", ad una "superparola, per cui il reale è sempre solo un pretesto".
Così, per Barthes, accade nel Diario gidiano. E analogamente avviene nella Ricerca del tempo perduto, dove "il mondo non fornisce le chiavi del libro, è il libro che apre il mondo". Di qui – si afferma in uno dei testi ora raccolti da Filippo D’Angelo (Roland Barthes, Cos’è uno scandalo. Testi su se stesso, l’arte, la scrittura e la società. Scritti inediti 1933-1980, L’Orma, Roma 2021, pp. 224, euro 20) – il paradosso biografico che segna la vita di Marcel e quella del narratore: divergenti, eppure ricomposte sotto il segno dell’intersezione sancita dalla scrittura. La scrittura del narratore è alla lettera la scrittura di Marcel: "Non c’è più né autore né personaggio, non c’è altro che una scrittura".
Questa, a sua volta, va intesa, secondo Barthes, al modo d’una percorrenza di sé e insieme di quella “specie di spazio” costituito dal foglio, sul quale lettera dopo lettera, un testo si forma, si afferma, si conferma, si rapprende.
In una pagina del 1976, si legge come la scrittura vada intesa come attività che coinvolge il nostro corpo e i nostri sensi. Nel suo estrinsecarsi manuale, la scrittura è un atto muscolare con il quale, impugnato uno strumento, lo si appoggia su una superfice sulla quale si avanza, premendo o carezzando. La mano agisce, inclinandosi, scorrendo, sollevandosi, onde trasmettere al corpo una sensazione di godimento "legata alle profondità pulsionali del corpo e alle produzioni più sottili e più felicemente riuscite dell’arte".
Ma analogo è il piacere che si proverebbe a cospetto della scrittura tipografica. Soprattutto quando alla lettura si dovesse sostituire l’analisi dei singoli caratteri, "come facevano gli antichi calligrafi".
Significativamente "la possibilità che il corpo resti legato alla scrittura tramite la visione ch’esso ne ha" si concreta in alcuni lavori barthesiani in cui è riprodotto il tratto grafico che apparteneva all’autore. Ciò accondiscende al desiderio di rendere ogni copia un prodotto “artigianale” e soprattutto di porre in evidenza l’importanza della grafia in relazione all’oggetto trattato (come nel caso del libro sul Giappone) o la particolare affinità che accomuna la scrittura ad una "'pittura' con molte virgolette".
In Barthes di Roland Barthes, due “scrizioni” a penna suggeriscono che, quando la mano si abbandona alla voluttà d’incidere o di carezzare "un bel foglio di carta", subito la scrittura cessa di porsi al servizio del significato, per trasformarsi in disegno; ma non in disegno venuto da necessità, quanto piuttosto in ghirigoro o arabesco.
Sembra cogliersi, in questa "grafia per niente", in questo "significante senza significato", la traduzione icastica del funzionare della lingua come "una negatività", come "il limite iniziale del possibile". Sarebbe perciò indispensabile frammentare il testo e disseminarne i tratti.
Come dimostrano i testi raccolti in questa nuova silloge, il rispondere allo "scaglionamento dei significati" che la scrittura reca con sé implica, per Barthes, accordarsi con un ritmo di fatalità. Lo stesso che – egli osserva sul margine de Lo straniero – traspare dall’opera di Camus, dove tutto ha un suo proprio modo di apparizione: realistico ed evasivo, stereoscopico e alonare. Ma – annota altrove Barthes – è soprattutto il rinnovarsi di una più intensa frequentazione degli scrittori classici che può alterare o decentrare la pienezza associata ad ogni lingua chiusa. "Le opere classiche sono oggetti finiti, complessi e ammirevoli, ma sono anche tracce, abbozzi, speranze": specchi franti che ognuno "porta lungo una strada", pronti a catturare "uno strano universo lacunoso, che deriva a poco a poco verso la notte, forato da quei lunghi strappi intercalari che si vedono nelle nubi del tramonto, frantumato dalle grandi frane del ricordo".
Intervista a Gabriele Lavia