Il Foglio del Weekend

Virgil non abita più qui: storia di uno stilista ghanese-americano-globale

michele masneri

Vita, opere e citazioni di Abloh, lo stilista-dj-architetto morto a quarant’anni. Forse ha rivoluzionato la moda, forse era un copione, di sicuro ha interpretato lo spirito del tempo come nessun altro 

È stato breve ma intenso. Ma la moda è per definizione effimera, e il lutto per la scomparsa di uno dei più strani fenomeni che abbia mai messo piede a Milano forse rimarrà per sempre; ma sembra già lontano. Quel Virgil Abloh, quarantunenne nero, architetto, dj, afroamericano, che forse ha cambiato la moda salendone ogni scalino, arrivando fino a uno dei marchi leggendari, Vuitton.

  

Stilisti, fotografi, giornalisti, si sono precipitati a postare selfie col defunto, il rito tetro della contemporaneità, ma poi è arrivata la prima della Scala, Sant’Ambrogio, altro rito, e la vita va avanti. Alla sfilata Vuitton, a Miami, trasformata in funerale, però colorato e allegro, un’enorme statua del creativo scomparso per cancro fulmineo campeggiava con la scritta surreale: “Virgil was here”. Virgil è stato qui. E la surrealtà è stata del resto la cifra di questa meteora che si è imposta in un mondo che per comodità si chiamerà “moda” ma che è creatività a tutto tondo, in un’epoca in cui tutto è confuso e sottosopra e insieme spumeggiante e pieno di opportunità. Nato a Chicago da emigrati del Ghana, Abloh studia architettura e ingegneria nella città dell’orgoglio nero americano. I genitori però non sono immigrati da barcone, sono classe media colta, il padre arriva negli Stati Uniti con due lauree, dunque outsider anche nel mondo di una blackness da battaglia; a un certo punto lo stilista già acclamato verrà accusato di non esser abbastanza nero, di non parlare da nero, un po’ come Obama, e il padre gli dirà: “è quello che dicevano a me negli anni Settanta”.

  

Nero, ma non troppo, Abloh all’università incontra un altro personaggio all’epoca in cerca d’autore, Kanye West. I due resteranno grandi amici per tutta la vita, e il rapper insieme alla ex moglie mietifollower Kim Kardashian, più un nutrito plotone di star globali – e la moglie invece commoner e i due figli di Abloh - ha presenziato alla sfilata-funerale nella Miami già ben frequentata per Art Basel. “Perché Virgil? Dio non fa errori, lo so, ma questa volta non riesco a smettere di chiedermi perché lui, perché così presto”, ha postato tu Instagram Kardashian. E lì, tra il dolore di megastar globali e famiglia composta (moglie e due figli), sfilavano barconi carichi di container neri con scritte bianche cubitali “Forever”, e la data di nascita (30 settembre 1980) e appunto la statua gigante del creativo.

  

Virgil Abloh, felpa omaggio a Enzo Mari

   

Ma la città di Abloh non era Miami e non era forse nessun’altra. Di lui si sa infatti che viaggiava indefessamente, unico ufficio il suo iPhone, e c’è perfino, in questa autobiografia del gusto millennial, un periodo a Roma, dove con Kanye fece un leggendario stage da Fendi, nel 2009. E nella capitale italiana, fa strano immaginare questi due personaggioni dal futuro radioso tra le ragazze dai doppi cognomi che sono la costituency del marchio un tempo di pellicceria. E poi un luogo così estraneo, Roma, alle mappe della coolness globale postmoderna. E però, assunti entrambi a cococo, semisconosciuti in cerca di fortuna, “li pagavo cinquecento euro al mese”, ricordò l’allora ceo del marchio, Michael Burke. E furono mesi di gran creatività, tra fotocopie e molti cappuccini, disse poi Kanye. Che si vide rifiutare, in coppia col sodale, il progetto di quei leather jogger pants, pantaloni della tuta in pelle, che poi lancerà con enorme successo nel 2013. Perché questa è una storia di stilisti non stilisti, di creativi a tutto tondo, di dj globali, di posizionamenti e riposizionamenti – se Kanye tra la musica e una candidatura alla Casa bianca e un nuovo “format” religioso, una specie di messa cantata della domenica, continua le sue collaborazioni miliardarie con la moda, l’amico e sodale aveva fatto l’opposto, moda al centro e il resto a parte; nel 2011 Abloh è l'art director dell'album “Watch the Throne”, che West incide con Jay-Z.  E se l’amico musicista disegna scarpe per Adidas e vestiti per Gap, il futuro stilista e direttore creativo della linea maschile per Vuitton incide un suo singolo,  “Orvnge”, con tale Boys Noize.

   

Insomma è un mondo di collegamenti, scavallamenti, “only connect”, per dirla alla E.M. Forster, comunque non certo la moda dei grandi atelier che forse non esiste più se non nel ricordo di noi boomer, grandi sarti col metro in collo. "Non sapevamo come fare dei veri vestiti, ma usavamo tantissimo photoshop", dirà Kanye del periodo romano, e le fotocopie non sono solo cartacee. West soprannominerà l’amico e sodale “il più rapido artista del Photoshop”, perché in questo campo dai confini incerti che è la nuova creatività tutto è una citazione di qualcosa d’altro, è pastiche, è ammicco. Dopo Fendi, Abloh fonda una “Pyrex Vision”, marchio la cui ragione sociale, dicono i detrattori, era sostanzialmente prendere maglie Ralph Lauren e applicargli sopra una scritta, appunto “Pyrex”; e il numero 23, quello di Michael Jordan, finché quelli della vera Pyrex, cioè dei vetri a prova di acqua bollente, non si arrabbiarono, e la società cambiò nome in Off-White. Fondata a Milano e diventata, come ti sbagli, immediatamente e globalmente celebre per il logo – quattro frecce racchiuse in un quadrato, subito considerato plagio e citato da un’azienda non certo cool, l’aeroporto di Glasgow, che si sentì defraudato di quelle quattro frecce così simili; così è stato cambiato, adesso è una manina che cerca di cancellare la scritta “Off”.

   

Ma le accuse di plagio non cessano mai nella vita di questo creativo, che le ribalta coniando una sua teoria interessante, quella del tre per cento: per creare un’opera originale, sosteneva, basta prenderne una già esistente e variarne una modica quantità, appunto, il tre per cento. A botte di tre per cento il marchio oggi ha 44 negozi monomarca in giro per il mondo, è considerato uno dei più influenti ed  è stato venduto al gruppo Farfetch per oltre seicento milioni, due anni fa, quando forse Abloh sapeva già d’essere malato. Nel suo cursus honorum c’è una specie di centrifugato del mondo d’oggi: dunque naturalmente l’arte contemporanea, ma non nella versione collezionista basico, il vecchio lasciapassare per uscire dal cluster dei nuovi ricchi, o in quella da anfitrione museale con Phd di Miuccia Prada. Lui fa proprio l’artista, ed ecco una collezione, o come altro chiamarla, creata insieme a Takashi Murakami ed esposta da Gagosian a Londra nel 2018. Mentre il Museum of Contemporary Art della sua Chicago l’anno successivo gli dedica una mostra intitolata Virgil Abloh: "Figures of Speech," con la motivazione che lo stilista “ha aperto la strada a una pratica che spazia tra i mezzi espressivi e connette arte visiva, grafica, moda, e architettura”.

   

E a Chicago, poi, funerale vero, senza sfilata. Con amici stretti, e cioè altre megastar: Rihanna e Drake, oltre ai suddetti. E per quest’ultimo, “Virgil era un genio qualunque cosa facesse”. E ne faceva tante. Nelle sue varie incarnazioni lavorerà e creerà per Nike, Moncler, Jimmy Choo, Timberland, ma anche e soprattutto con l’Ikea, per cui gioca con i “segni” dell’arredamento più comune e cheap –  un quadro con una finta Gioconda retroilluminata, un enorme scontrino che diventa tappeto, e naturalmente l’umile borsone di tela di plastica trasformato in signora borsa.  Il gioco è sempre quello della Off -White, la sua factory milanese: mischione ironico, classico reinventato, streetwear sartoriale, “moda democratica” (non sempre per il portafoglio).

  

È il mondo dell’isteria fuori dai negozi di sneakers, dei reseller che comprano le edizioni limitate delle scarpe e le rivendono come opere d’arte. La scarpa da ginnastica nell’epoca della sua riproducibilità artistica. Marchi, loghi, grafiche e milioni di followers. Un mondo in cui la parola “stilista” suona vecchissima, in cui tutto è citazione e in cui le scritte compaiono forsennatamente; ed è curioso che la parola scritta, cannibalizzata dall’immagine in in ogni altro settore, a partire da libri e giornali, stia vivendo un suo momento di gloria invece sui vestiti. E lì però oggi pare che niente sia degno d’esser portato se non ha una scritta sopra. E tutto ciò non poteva che fiorire in un luogo che forse non ha pari al mondo per l’afflato comunicazionale e insieme per “il sistema” integrato, la piccola città stato (se non impero) dei segni: Milano. La città del design e in cui la “collaborazione” è da sempre ai massimi, per cui anche il pollo di Giannasi finisce in qualcosa con Gucci o Prada, in cui il panettone di Giacomo è almeno brandizzato Etro.

  

È interessante il rapporto con Milano. Che è diventata la città adottiva di questa specie di Marchionne, in giro trecento giorni all’anno, privo di ufficio (e in questo, in questa mancanza di struttura, sta anche la sua alterità ai grandi magnati della moda di oggi, i palazzi, i castelli, gli atelier). Ma questo era il suo posto, se proprio doveva scegliere: sosteneva che sì Berlino, sì New York, però Milano è un’altra cosa. E Milano oggi lo piange. Non solo la moda. Lutto in Triennale (c’era stata una felpa di Abloh in onore di Enzo Mari); sono soprattutto piccoli professionisti, giovani creativi, a portare il peso della dipartita. “Era genuinamente interessato agli altri, soprattutto ai giovani”, racconta al Foglio Piotr Niepsuj, fotografo che con Abloh ha collaborato, uno dei tanti che raccontano di come il designer “apriva le porte agli altri”. “La moda è un ambiente in cui non senti parlare bene di nessuno. Di lui invece parlavano tutti bene. Ti cambiava la vita. A me personalmente l’ha cambiata perché per come sono io, che magari non avevo il classico look del fotografo, dopo aver lavorato con lui mi si sono spalancate tutte le porte. Era impossibile per esempio entrare in un grande marchio come Armani se non avevi un pedigree, un curriculum. Ma in Off-White invece sì, non c’erano barriere, e dopo che avevi lavorato lì potevi lavorare ovunque. Ci sono un sacco di creativi che devono ringraziarlo a Milano: grafici, fotografi, videomakers. Considera che il suo gruppo alla fine aveva sette-otto brand, e ognuno deve essere disegnato, ognuno deve essere prodotto, poi servono le campagne”. Insomma Abloh è stato un grande Pnrr o piano Marshall, da Chicago e dal Ghana, per Milano.

  

Oltre che il rappresentante di una nuova categoria, quella degli “amateur diventati stilisti”. “Penso che la sua rivoluzione sia stata di modo (assemblaggio) invece che di contenuto (design). Non credo abbia mai disegnato un capo”, dice al Foglio Angelo Flaccavento, critico di moda. Ma che importa. “È anche il simbolo di una nuova categoria e generazione, di amatori. Passati da essere gatecrasher, scappati di casa che bussavano alle sfilate, a esserne i protagonisti. In un certo senso, un percorso parallelo a un’altra categoria, quella degli influencer, che sono passati dall’essere tollerati fuori dalle sfilate a disegnare le proprie linee di moda”.

   

È chiaro che Abloh conosceva i meccanismi dell’arte e della comunicazione. “Si rifaceva a  Marcel Duchamp, a cui è dedicata anche una felpa Off-White, e dunque le virgolette, e l’objet trouvé, oggetti decontestualizzati e trasformati in altro: quindi la scarpa Nike (una delle tante collaborazioni) in cui la parola shoelace, laccio da scarpe, viene posta… sui lacci da scarpe. Alcune non erano sue invenzioni, si erano probabilmente già viste”, dice ancora Flaccavento, “però lui ha interpretato come nessuno lo spirito del tempo”, e si capisce che forse Abloh è stato perfetto per questo tempo orizzontale, in cui tutto è immediato ed effimero, e che importa se magari qualcuno aveva disegnato un certo piumino da lui rilanciato oggi già vent’anni fa. Quello che conta è l’adesso.  

   

“Tra i suoi oggetti più famosi c’è stata una cintura, la industrial belt, una specie di cinturone che sembra un metro da sarta, giallo, però lunghissimo, da portare in vita, arrotolato, insomma tutto parte di una moda che non ha niente a che vedere col disegnar vestiti, bensì è un linguaggio pop, uno strumento espressivo per tutti”, sempre Flaccavento. “Felpe, scarpe da ginnastica, magliette”. Mischiando marchi e citazioni. “Aveva una mentalità da dj. Che fa il dj se non prendere una musica, campionare i suoni, e trasformarla in un’altra?”. Magari, più che Marcel Duchamp, un riferimento è allora Marcelo Burlon, altro creativo straniero, nello specifico argentino, nello specifico dj anche lui, che a Milano ha fatto fortuna, col suo marchio County of Milan, e che di Abloh è stato socio.

   

“Hai cambiato per sempre questa società”, ha scritto Burlon su Instagram, l’unica piattaforma che tiene insieme tutto, vecchi e nuovi, milanesi e stranieri, grandi stilisti vecchia maniera ed esordienti arrembanti. Di sicuro Abloh ha cambiato un po’ un ambiente. “In passerella faceva uscire il suo team, e andava, caso più unico che raro, alle sfilate degli amici”, dice Niepsuj. Pare che abbia inferto colpi mortali anche a tutta quella liturgia della moda, l’inavvicinabilità e le fedeltà incrociate e la stiffness. Tutti a Milano avevano il suo Whatsapp; qualcuno ne ha anche pubblicato le conversazioni, spostando ancora più in là la pratica del selfie col defunto. Mentre il defunto, ghanese-americano-globale, se n’è andato in punta di piedi, senza dire a nessuno della sua malattia, molto compostamente. Insomma, da vero milanese.

  

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