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"Eingedenken"

La memoria è il passato che irrompe, non una cassaforte identitaria

Francesco M. Cataluccio

Pubblichiamo il testo dell’intervento di Francesco M. Cataluccio alla quinta edizione dell’incontro internazionale di GariwoNetwork dal titolo “Prevenire i genocidi con l’esempio dei Giusti” che si tiene oggi al Teatro Parenti di Milano

Esiste nel linguaggio filosofico tedesco un concetto affascinante: Eingedenken. È un’idea nata dalla prosa del giovane Ernst Bloch, il filosofo del “principio di speranza”, e passata a Walter Benjamin che ne ha fatto un concetto cardine del suo pensiero. Il verbo gedenken vuol dire “essere memori”. Con l’aggiunta del prefisso Ein- si può tradurre come rimemorare.  Secondo Benjamin, ciò significa: “Irruzione nel presente di un’esigenza che viene dal passato”. Non nel senso di restaurazione di ciò che fu, ma in vista di una nuova e originale esperienza del presente. Il passato, in determinate occasioni, irrompe con le sue esigenze nel presente, facendolo saltare. Stiamo quindi parlando di un passato che non avrebbe esaurito le sue possibilità nel momento in cui si presentava, in cui accadeva. Un passato cioè che conterrebbe una sorta di slancio verso il futuro. Come l’Angelus novus (di cui parla Benjamin nella nona delle sue “Tesi di filosofia della storia”, 1940): un angelo trascinato verso il futuro a cui volge le spalle, tiene lo sguardo rivolto al passato che appare come “una sola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine” e mantiene però l’ansia di trattenersi e destare i morti per rendere loro giustizia. 

 

Questa è la filosofia dei Giardini dei Giusti, sin dal primo sul Monte Stella di Milano, e in più di cento luoghi in Italia e in Europa, dove la memoria e il racconto delle storie dei giusti irrompono nel nostro presente per insegnarci a vedere, prevedere e prevenire i genocidi, l’odio e il razzismo. I giardini non sono dei parchi del ricordo né  un lapidario dei buoni. Sono luoghi che invitano a guardare al futuro, studiando, riflettendo e raccontando le storie di coloro che hanno scelto, rischiando, di salvare gli altri, la verità dei fatti, la dignità e l’umanità. Dimostrando che, anche nelle situazioni più drammatiche e controverse, è possibile restare umani. 

 

La Fondazione Gariwo sta lavorando da tempo a un’Enciclopedia digitale dei Giusti che racconti e documenti le loro storie, le mantenga vive. Raccontare le storie dei giusti è il modo più efficace per imparare a vedere che la storia e le storie personali sono terribilmente complicate e mai in bianco e nero. Più volte abbiamo ribadito che i Giusti non sono dei santini o degli eroi mitologici. La loro verità e grandezza sta anche nelle loro contraddizioni e indecisioni. Come scrisse Hannah Arendt di Walter Benjamin, trovare e raccontare i giusti è un lavoro da cercatori di perle. E così fece il magistrato israeliano, di origine polacca, Moshe Bejski (1921-2007), sopravvissuto alla Shoah grazie alla generosità dell’industriale tedesco Oskar Schindler. Come ha ricordato Gabriele Nissim, ne “Il Tribunale del Bene” (Mondadori, Milano 2003), Bejski si battè perché, nel 1963, quel tedesco venisse considerato un Giusto nel Giardino di Yad Vashem, a Gerusalemme. Schindler era un imprenditore nazista, moralmente non certo irreprensibile,  che sfruttava la manodopera gratuita dei prigionieri ebrei a Cracovia. Però, quando anche per loro era arrivato il momento di essere ammazzati, ebbe un problema di coscienza, un barlume di umanità, e grazie alla famosa “Lista di Schindler” riuscì, rischiando, a salvarli quasi tutti. Nel buio della notte della Storia, le perle dei Giusti illuminano i momenti di umanità e coraggio.

Il problema di questo lavoro oggi è che l’Europa sta illudendosi di tenere fuori il futuro rifugiandosi nel peggio del suo passato: muri, leggi liberticide, ostilità verso gli stranieri, conformismo timoroso e rancoroso. In questo modo non è facile insegnare che i giusti sono anzitutto persone che hanno contraddetto le leggi, intuendo la difficile verità del principio sancito dal Tribunale di Norimberga: gli ordini sbagliati non si eseguono. Le leggi sbagliate e i muri antiumani si aggirano.

 

I giusti sono spesso come Antigone che si ribella alla ingiusta e crudele legge di Creonte, anche se giustificabile con la ragion di stato, che proibisce la sepoltura di Polinice. Lei trasgredisce in nome della pietà, dell’amore fraterno, della legge non scritta del diritto umano a essere sepolti. Per questo Simone Weil ha scritto che Antigone fa parte del patrimonio umano e ideale di ciascuno di noi. Durante l’occupazione nazista, a Kaunas (allora capitale della Lituania), Jan Zwartendijk, un venditore olandese di apparecchi radiofonici, diventato console, e il diplomatico giapponese Chiune Sugihara non ubbidirono alle autorità dei propri paesi: falsificando documenti riuscirono a far scappare diverse migliaia di ebrei. Come l’italiano Giorgio Perlasca (commerciante di carni in Ungheria che si spacciò  per console spagnolo) anteposero alla legge, alle regole della diplomazia, la volontà di salvare chi sarebbe stato altrimenti ucciso. Così ha fatto anche il sindaco di Riace, Mimmo Lucano, condannato a molti anni di carcere, per essersi adoperato per aiutare chi sbarcava andando contro la legge, con scorciatoie anche discutibili, ma convinto disinteressatamente che fossero l’unico modo per risolvere i problemi reali, per far funzionare lo stato e aiutare le persone. Ha seguito anche lui una legge più grande, quella dell’uguaglianza e del diritto alla dignità di ogni essere umano.

 

Di fronte alla stazione ferroviaria di Trieste c’è uno spelacchiato giardino pubblico, con qualche malmessa panchina. Là, Lorena Fornasir, assieme al suo compagno, Gian Andrea Franchi (che hanno fondato l’associazione di volontari Linea d’ombra), curano i migranti. Medicano i loro piedi con bende, cerotti e disinfettanti per evitare che, dopo aver camminato tanto, finiscano per essere vittime d’infezioni. Ne hanno parlato i giornali di mezzo mondo, e ne ha scritto Adriano Sofri. La  polizia di Trieste ha perquisito il loro appartamento portandosi via documenti, telefoni e computer. L’ipotesi di reato è di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”.

 

Quel giardino di Trieste è una cosa viva e un segno di umanità. È imparentato  anch’esso con i Giardini dei giusti. Il loro valore simbolico è grande: la stessa esistenza di questi alberi è un’isola che testimonia di una comunità di persone che ha dato un valore alle gesta di individui coraggiosi. Come la figura della “pazza” Antigone che rompe il muro dell’indifferenza, sono simboli che sopravvivono al trascorrere del tempo e non scompariranno mai, nella coscienza e nella memoria di ciascuno di noi, perché sono una delle armi migliori che abbiamo contro l’indifferenza. Liliana Segre, deportata ad Aushwitz quando aveva 13 anni, ha voluto che sul muro del Memoriale della Shoah, sotto la stazione ferroviaria di Milano, ci fosse scritta solo la parola indifferenza: “Spesso mi chiedono come sia potuta succedere. E io rispondo sempre con questa parola: indifferenza. Se pensi che una cosa non ti riguardi e ti volti dall’altra parte, è lì che inizia l’orrore”.

 

I Giardini dei Giusti sono luoghi della memoria, parlano alla nostra coscienza etica. La memoria va coltivata come una cosa viva, non celebrativa e ricorrenziale, e necessità di una continua riflessione e riconsiderazione. Non va mai data per scontata, né ci si può accontentare una volta per tutte di ciò che racconta. Per questo la Fondazione Gariwo ha promosso, e appena pubblicato, il  volume “Domande sulla memoria” che dà conto di un’ampia discussione tra studiosi sul significato odierno della memoria e sulla “concorrenza tra le memorie”. Altri volumi come questo seguiranno. Non si può  continuare a ignorare che, dopo l’enorme e per certi versi inedita tragedia della Shoah, altri popoli sono entrati sulla scena per chiedere il riconoscimento dei loro genocidi: gli armeni, i ruandesi, i cambogiani, i rom, gli ucraini, i rohingya, gli uiguri. Il filosofo ceco Jan Patocka (fondatore della “Charta 77”, deceduto dopo un interrogatorio della polizia) esortava a creare una “solidarietà degli scossi” come impegno morale di tutti gli offesi verso una nuova umanità. La memoria non può essere una cassaforte identitaria. È appunto un’irruzione nel presente di un’esigenza che viene dal passato. 

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