Ogni Antigone vìola la legge sapendo che ne pagherà le conseguenze
Contrasto eterno, ma c'è un futuro per la disobbedienza civile
La disobbedienza civile ha un passato nobile (battaglie, fallimenti e vittorie), presenta gradi e forme di lotta differenti (da Socrate a Rosa Parks, Gandhi e Pannella) ha un colto côté intellettuale capace di fornire alla prassi un modello teorico di grande forza. Tuttavia il passato non basta a garantire il futuro alla disobbedienza. Perché la suddetta è una pratica seria che impone al disobbediente rigore e senso di responsabilità: altrimenti so’ boni tutti a disobbedire. Forse la vexata quaestio si può far risalire al complesso contrasto tra Antigone (la disobbediente) e Creonte (l’inflessibile ragion di stato), nell’inquieta tragedia di Sofocle. Naturalmente, finché ci sono pratiche che ci piacciono allora siamo tutti Antigone. Eppure Sofocle ci teneva a far conoscere le ragioni di Creonte. In fondo è stato chiamato per ristabilire l’ordine a Tebe, perché i due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, sono venuti alle mani e per il trono sono morti. Il contrasto tra Creonte e Antigone oltre che commovente fornisce anche un base teorica alla disobbedienza: sì, tu vuoi seppellire tuo fratello? Ma lui ha tramato contro la città, con che faccia io vado dai parenti di quelli che sono morti combattendo per la città a dire che siamo tutti uguali? La soluzione non è facile, richiede attitudine e gusto del ragionamento, ma senza questo insanabile contrasto tra individuo e società, senza alcune premesse, appunto, torniamo al punto di cui sopra: a disobbedire so’ boni tutti. Invece il disobbediente è cosciente, sì, vero, c’è un insanabile contrasto e non cerco scappatoie. Tant’è vero che nei casi nobili è attraversato da un sentire socratico: non basta disobbedire o violare una legge. Per trasformare la disobbedienza in attività politica, bisogna anche affrontare le conseguenze.
Compito del disobbediente è mettere in contrasto l’individuo (portatore di diritti nuovi) con un’istituzione, ma non per sfizio e gusto della boutade: per coinvolgere invece la stessa istituzione in un ragionamento. Insomma, i disobbedienti non sono monelli, tantomeno snob, e nemmeno, fatti i conti, sono figli di papà. Esaminate le loro vite, spesso mostrano lo stigma dell’ordinarietà: so’ bravi ragazzi che non fanno marachelle. E tuttavia scelgono di violare la norma sapendo che ne pagheranno le conseguenze. Oltre al famoso e pingue, mal vestito e godereccio cittadino ateniese (Socrate) la cui apologia bisognerebbe leggere anche per capire come è bello, affascinante, necessario, utile alla nostra società, il gusto del ragionamento, altri disobbedienti hanno violato una norma nel tentativo di cambiare una legge e poi scelto il carcere volontariamente perché – pensano e giustamente – le idee si rafforzano se e solo se si vivono con integrità. Naturalmente questo non significa poter pretendere di avere ragione. Infatti i disobbedienti sanno che l’assoluto non esiste, anzi è la vera fonte di pericolo. Con assoluto si intende una certa dinamica intrinseca nel potere (che sia di stato o della controparte) e cioè, per l’appunto, il bisogno di dividere il mondo in buoni e cattivi e di invocare “valori non negoziabili” per poi giustificare le peggiori malefatte. L’assoluto è il vero pericolo del potere, perché è grezzo, maleducato, invade la sfera privata e così facendo ci toglie il gusto della lotta con conseguenze. Gusto che possiamo (e dovremmo provare) solo se ragioniamo sull’insanabile contrasto tra Creonte e Antigone. A proposito di potere, nel nostro presente, sarebbe necessario disobbedire alla tecnica del riflettore. Tecnica che consiste nell’inquadrare ciò che nell’avversario è ridicolo e grottesco. Tutto ciò che è esagerazione, montatura, distorsione, insulto, sfogo, grida, Rolex al polso e turpiloquio da ubriaco con annessi e connessi. Contro questa tecnica che nega sul nascere ogni ragionamento, perché esaspera e dunque rimuove il conflitto, bisognerebbe individualmente disobbedire (tu sei violento, io sono pacifico, direbbe Aldo Capitini), sapendo che come conseguenza verremmo isolati. Ma più isole, si sa, fanno un arcipelago.