Ogni Antigone vìola la legge sapendo che ne pagherà le conseguenze

Antonio Pascale

Contrasto eterno, ma c'è un futuro per la disobbedienza civile

La disobbedienza civile ha un passato nobile (battaglie, fallimenti e vittorie), presenta gradi e forme di lotta differenti (da Socrate a Rosa Parks, Gandhi e Pannella) ha un colto côté intellettuale capace di fornire alla prassi un modello teorico di grande forza. Tuttavia il passato non basta a garantire il futuro alla disobbedienza. Perché la suddetta è una pratica seria che impone al disobbediente rigore e senso di responsabilità: altrimenti so’ boni tutti a disobbedire. Forse la vexata quaestio si può far risalire al complesso contrasto tra Antigone (la disobbediente) e Creonte (l’inflessibile ragion di stato), nell’inquieta tragedia di Sofocle. Naturalmente, finché ci sono pratiche che ci piacciono allora siamo tutti Antigone. Eppure Sofocle ci teneva a far conoscere le ragioni di Creonte. In fondo è stato chiamato per ristabilire l’ordine a Tebe, perché i due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, sono venuti alle mani e per il trono sono morti. Il contrasto tra Creonte e Antigone oltre che commovente fornisce anche un base teorica alla disobbedienza: sì, tu vuoi seppellire tuo fratello? Ma lui ha tramato contro la città, con che faccia io vado dai parenti di quelli che sono morti combattendo per la città a dire che siamo tutti uguali? La soluzione non è facile, richiede attitudine e gusto del ragionamento, ma senza questo insanabile contrasto tra individuo e società, senza alcune premesse, appunto, torniamo al punto di cui sopra: a disobbedire so’ boni tutti. Invece il disobbediente è cosciente, sì, vero, c’è un insanabile contrasto e non cerco scappatoie. Tant’è vero che nei casi nobili è attraversato da un sentire socratico: non basta disobbedire o violare una legge. Per trasformare la disobbedienza in attività politica, bisogna anche affrontare le conseguenze.

 

Compito del disobbediente è mettere in contrasto l’individuo (portatore di diritti nuovi) con un’istituzione, ma non per sfizio e gusto della boutade: per coinvolgere invece la stessa istituzione in un ragionamento. Insomma, i disobbedienti non sono monelli, tantomeno snob, e nemmeno, fatti i conti, sono figli di papà. Esaminate le loro vite, spesso mostrano lo stigma dell’ordinarietà: so’ bravi ragazzi che non fanno marachelle. E tuttavia scelgono di violare la norma sapendo che ne pagheranno le conseguenze. Oltre al famoso e pingue, mal vestito e godereccio cittadino ateniese (Socrate) la cui apologia bisognerebbe leggere anche per capire come è bello, affascinante, necessario, utile alla nostra società, il gusto del ragionamento, altri disobbedienti hanno violato una norma nel tentativo di cambiare una legge e poi scelto il carcere volontariamente perché – pensano e giustamente – le idee si rafforzano se e solo se si vivono con integrità. Naturalmente questo non significa poter pretendere di avere ragione. Infatti i disobbedienti sanno che l’assoluto non esiste, anzi è la vera fonte di pericolo. Con assoluto si intende una certa dinamica intrinseca nel potere (che sia di stato o della controparte) e cioè, per l’appunto, il bisogno di dividere il mondo in buoni e cattivi e di invocare “valori non negoziabili” per poi giustificare le peggiori malefatte. L’assoluto è il vero pericolo del potere, perché è grezzo, maleducato, invade la sfera privata e così facendo ci toglie il gusto della lotta con conseguenze. Gusto che possiamo (e dovremmo provare) solo se ragioniamo sull’insanabile contrasto tra Creonte e Antigone. A proposito di potere, nel nostro presente, sarebbe necessario disobbedire alla tecnica del riflettore. Tecnica che consiste nell’inquadrare ciò che nell’avversario è ridicolo e grottesco. Tutto ciò che è esagerazione, montatura, distorsione, insulto, sfogo, grida, Rolex al polso e turpiloquio da ubriaco con annessi e connessi. Contro questa tecnica che nega sul nascere ogni ragionamento, perché esaspera e dunque rimuove il conflitto, bisognerebbe individualmente disobbedire (tu sei violento, io sono pacifico, direbbe Aldo Capitini), sapendo che come conseguenza verremmo isolati. Ma più isole, si sa, fanno un arcipelago.

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