L'intervista

Mai appagati, una sfida ogni sera. I Berliner spiegati da uno di loro

Roberto Raja

Le parole di Alessandro Cappone, violinista italiano dei Berliner Philharmoniker: "In Germania non è un momento facile, ma un paese senza cultura è un paese decisamente più povero"

Berlinesi sì, ma multinazionali. Sul palcoscenico della Philharmonie  il merito è sovrano, non esistono le frontiere: tra gli orchestrali si contano 28 diverse nazionalità, e non mancano gli italiani. Si può considerare tale, anche se è nato in Lussemburgo, Alessandro Cappone, violino primo, Berliner Philharmoniker in purezza: ha cominciato a frequentare i concerti della Filarmonica a sei anni, quando a suonare sul palco c’era anche il padre Giusto, prima viola dell’orchestra, che è stato naturalmente il suo primo insegnante; ha studiato fra gli altri con Thomas Brandis, storica spalla sempre dei Berliner; è entrato stabilmente in orchestra a 22 anni, nel 1980, sotto il regno di Herbert von Karajan. E in orchestra, tra le file dei secondi violini, siede anche la moglie, Eva-Maria Tomasi. Chiediamo quindi a lui se è possibile definire che cosa fa della Filarmonica di Berlino la prodigiosa macchina sonora che è. 

“Sono diversi i fattori che portano a questo risultato”, dice Alessandro Cappone al telefono da Malmö, dove di lì a un paio d’ore i Berliner presenteranno lo stesso programma in locandina a Roma. “Uno dei più importanti è l’autonomia del corpo orchestrale, che è l’unico cui spettano il giudizio su chi si candida a entrare in orchestra e la decisione se ammetterlo o meno. Su questa scelta naturalmente può intervenire il direttore musicale, ma il suo voto vale quanto quello di un orchestrale. Un altro punto decisivo è l’opportunità che abbiamo di fare molta musica da camera, utilissima per l’impegno all’ascolto reciproco che richiede e che cerchiamo sempre di trasferire in orchestra. Era fra l’altro una raccomandazione fissa di Claudio Abbado, al quale piaceva così allentare un poco il controllo, e lasciarci suonare. C’è poi naturalmente il livello individuale molto alto: credo che la stessa identità sonora dell’orchestra, il suo marchio riconoscibile negli anni sia la qualità dei fiati, tutti solisti di rilievo, e dell’insieme degli archi”.

Non c’è quindi il rischio dell’omologazione, ovvero il rischio, paventato forse di più nelle riproduzioni discografiche, che le orchestre a un certo livello ormai si assomiglino un po’ tutte? “Credo di no, il ‘marchio’ di questa orchestra l’abbiamo mantenuto. Certo, una cosa è il disco o comunque una forma di riproduzione, un’altra è il concerto dal vivo, ed è soprattutto lì che ce la giochiamo. Un altro nostro atout? La passione, dai più anziani agli ultimi arrivati, e la spinta a fare bella musica, il coraggio: si suona spesso al limite, mai appagati, non si suona mai ‘seduti’. Ogni sera è una nuova sfida, direi anche indipendentemente dal direttore che abbiamo davanti”.

Soddisfatti e ben pagati? “In Germania un musicista vive abbastanza bene”, conclude Alessandro Cappone. “A Berlino ci sono nove orchestre e tre teatri d’opera, oltre alle formazioni cameristiche e ai numerosi cori. Lo stato è attento e ci aiuta, anche se nel nostro caso il grosso dei ricavi lo otteniamo con la vendita dei biglietti. Non è un momento facile, ma un paese senza cultura, qualunque essa sia, è un paese decisamente più povero”.