Il comico americano Dave Chappelle (LaPresse)

Il comico

Dave Chappelle contro tutti

Stefano Pistolini

La guerra culturale contro l'artista che mette a nudo e ridicolizza le debolezze americane e certe classifiche delle emergenze sociali

Lgbtq+ batte Blm tre a zero. Palla al centro. Traduzione: quello che in pochi anni l’attivismo gay/trans ha saputo ottenere in America, surclassa decine d’anni di militanza, mobilitazione e protesta sollevate dagli afroamericani alla ricerca di giustizia, riconoscimento, denuncia del razzismo, passato e presente, nella società in cui vivono. Tra i due movimenti non c’è confronto: risultati contro mugugni, concessioni contro fregature. Nessuno batte l’arcobaleno, a cominciare dagli attivisti neri che si ostinano a gridare che le loro vite contano, al cospetto di un’inquietante platea di scettici. Bene: se esprimete una constatazione del genere oggi in America, preparatevi alla scomunica, qualunque sia il vostro contesto sociale e professionale.

 

Lo vietano aspramente le convenzioni di pacificazione delle relazioni, secondo le quali, nel caso abbiate pensieri simili, non siete autorizzati a esprimerli, per non correre il rischio dell’esclusione, o della cancellazione, come si dice da qualche tempo. Ma come la mettiamo nel caso siate un comico di professione, che proprio facendo satira attorno a ragionamenti così s’è costruito una reputazione e un pubblico? Chiedetelo a Dave Chappelle. Se ne ha voglia, vi darà una risposta strutturata e per niente tendente all’ottimismo. E come la mettiamo se una potente corporation globale – mettiamo Netflix – investe capitali per programmare gli show nei quali il comico in questione amministra gioiose elucubrazioni sul genere di quelle appena esposte, andando oltre e inerpicandosi su sentieri perigliosi nell’èra del politicamente corretto, giocando – come il gatto col topo – con il perbenismo, l’opportunismo e il revanscismo degli americani? Beh, aspettatevi dei casini belli grossi.

 

E un sacco di rumore mediatico. Nel quale viene voglia di ficcare il naso, anche se l’aroma di cinismo e calcolo nel ventre molle d’una società opportunamente stuzzicata, aleggia sulla questione. Tant’è: così va il mondo dello spettacolo. E il pubblico sembra non svegliarsi mai veramente. Andiamo con ordine. Innanzitutto chi è Dave Chappelle, che qui da noi è ancora piuttosto sconosciuto, per invalicabili limiti linguistici: le sue performance le fa in americano da strada e di doppiarlo fortunatamente non se ne parla, anche se i sottotitoli seminano per strada metà dell’effetto, quello legato al ritmo delle battute e al sintetico pragmatismo della sua lingua. Dave non è una new entry, anzi è un veterano avviato alla cinquantina, e fa lo stand-up comedian da venti: sale sul palco, grande o piccolo che sia, e con un microfono fa ridere dicendo cose che magari, mentre vai verso casa, ti fanno anche venire un pensiero o due.

 

Soprattutto si colloca legittimamente in una discendenza di comici che percorre una strada precisa, quella della dissacrazione e della messa in ridicolo dei luoghi comuni, delle ipocrisie e della rete del politicamente corretto che avvolge la società americana. La tecnica è dire pane al pane, insomma pronunciare in modo divertente cose scandalose, lasciando che l’ambiguità e la falsità che intendono denunciare sgoccioli lentamente sul capo degli spettatori, fino a far esplodere lo sconquasso della risata, liberatoria e sconcertata al tempo stesso. Se lo osservate, sovente il pubblico dei comedian spesso ha l’aria di star lì ad aspettare palpitante che il tipo sul palco pronunci finalmente la cosa “proibita”, come se per dire quella cosa proibita – una di quelle che di questi tempi possono mettere a repentaglio la tua carriera (o almeno questo è il ruolo in commedia, perché le cose non stanno veramente così e anche l’amministrazione dell’inascoltabile è tecnica di marketing) – insomma per esprimere certi concetti ci voglia più coraggio che per scendere da un mezzo da sbarco sulla spiaggia della Normandia.

 

Oddio ecco… ho capito… sta per dirlo… sta per dire QUELLA cosa!”. Certo, tra noi e loro, gli americani, quanto a questo c’è un oceano di mezzo, o forse c’era, perché le cose sono cambiate anche qui, dai tempi dell’andovai se la banana non ce l’hai. Ma soffermiamoci sulla questione Chappelle, perché è attuale e rivelatrice. Insomma Dave appartiene a una tradizione che viene giù da Lenny Bruce e transita per Andrew Dice Clay (perfino per Eddie Murphy, finché non ha privilegiato i cachet di Holywood) e che rappresenta una nicchia a sé stante dell’entertainment americano, la stessa nella quale, volendo, si possono far rientrare perfino i goodfellas di Scorsese. Nel frattempo la cosa sociale in America è cambiata radicalmente – e per risonanza lo stesso è capitato in tutto l’occidente – e la comicità (da noi si parla di “satira”) è diventata materia radioattiva non appena si accosti a temi sensibili, nella fattispecie quelli sottoposti a un regime di rivendicazione di gruppo, contro le offese, le ingiustizie e i maltrattamenti del passato e nel nome della legittimazione dei diritti del presente. In America tutto ciò si è a lungo riversato, prima d’ogni altra cosa, sul discorso della razza, del razzismo, sulla macchia della schiavitù, sulle relative permanenze, recrudescenze e i risarcimenti veri e presunti. Ridendone in modo acre, facendo della risata una denuncia che risvegli e ponga interrogativi urgenti.

 

E di questo si occupa, con altri colleghi, Dave Chappelle ma, in quanto afroamericano, a un certo punto pensa di giocare la sua partita su un tavolo più impegnativo, mettendo in discussione il procedimento della pacificazione razziale in America e paragonandone gli effetti a quelli ottenuti da movimenti nati per rappresentare e amplificare altre cause. Il risultato è che gli afroamericani, col loro cahiers de doleance, sembrano ancora fermi al palo, mentre altre chiamate a nuove consapevolezze viaggiano col vento in poppa. Che nervi! esclama Chappelle. In sostanza, poi, la sua non è una missione etica e nemmeno una mossa politica: è ancora un business e pure bello grande, perché i cachet di uno show di Chappelle sono stellari e lui ha trovato il modo d’allargare il giro d’affari firmando un lucroso contatto con Netflix, attraverso cui diffonde i suoi “Special”, spettacoli di un’ora col meglio del suo repertorio dedicati alla platea di 180 milioni di abbonati del servizio streaming, in cambio di un cachet da venti milioni di dollari a colpo. Ma i conti in tasca all’interessato che di sicuro non impressionano nessun americano, perché dove la guerra culturale attorno a Chappelle è esplosa è riguardo ai contenuti del suo show, alle cose che dice e che fanno venire l’esaurimento a una percentuale consistente del pubblico potenzialmente interessato a uno spettacolo del genere.

 

“The Closer” è l’ultimo special realizzato da Chappelle per Netflix, uscito un mese fa e visibile con sottotitoli anche da noi. Un’ora e dieci minuti registrati a Detroit. Partenza lenta, ragionata, da consumato intrattenitore. Magnifico controllo della voce, delle cadenze, dello sganciamento dei missili. L’attitudine di chi sa come si fa. Da qui in poi, il menù delle grandi debolezze americane: che poi è la solita storia, ovvero il provocare una crisi, aprire un fronte e quindi non sapere mai bene come chiuderlo. Ne sa qualcosa il mondo intero, no? Dare respiro, salvo pentirsene. Sbagliare e poi rimediare nel modo sbagliato. Chappelle tira il primo sasso in piccionaia: il rapper (nero) DaBaby in un parcheggio del North Carolina spara a un altro nero e l’ammazza. Eppure se la cava brillantemente, solo con una denuncia per detenzione d’arma irregolare, perché non importa a nessuno del nero ammazzato.

 

Poi su un palco della Florida lo stesso DaBaby le spara grosse: “Se non avete l’Aids tirate su il cellulare acceso… Se non siete di quelli che succhiano cazzi nei parcheggi, tirate su il cellulare acceso…”. Finito. Distrutto. Cancellate tutte le sue partecipazioni a festival ed eventi di ogni genere. Scomunicato da Madonna, Elton John e perfino da DuaLipa. Il rapper ha dovuto implorare perdono pubblicamente, rimangiarsi le orrende spacconate, promettere di fare il bravo: “Chiedo scusa alla comunità Lgbtq+ per i miei commenti offensivi”, ha piagnucolato su Instagram. Ecco: questa è materia per Dave Chappelle. Ed è la sua tecnica per aprire la pancia del corpo americano – sta a voi se accettare o rifiutare. Decidere se dargli dell’omofobico, transfobico, o guardare dove va a parare quando dice: “In America puoi sparare a un nero, ma non puoi offendere un gay. Non è mai esistito un altro movimento che si sia garantito una simile immunità dalle critiche”. A Chappelle questo sorpasso nella graduatoria delle urgenze sociali lo manda ai matti, mentre si chiede perché sia più facile per Bruce Jenner cambiare sesso, che per Cassius Clay cambiare nome. “Noi neri siamo intrappolati nel nostro dramma da centinaia di anni. Non come i gay, che sono una minoranza e a cui fa comodo essere bianchi”. La gente ride, bianchi inclusi, ovviamente. Il suo ragionamento è spericolato, ma nella sua orrenda prosaicità, può funzionare: ci sono questioni che attaccano prima, che coinvolgono, provocano attenzione, partecipazione. Altre no: ad esempio i barconi possono restare a ciondolare in mezzo al Mediterraneo in tempesta qualche giorno in più, in attesa delle decisioni del ministero in proposito. La piazza sonnecchierà. Poi fermano Zan al Senato e via con la mobilitazione e le raccolte-firme. Fa venire i nervi sentirlo dire, ma è così. Ci si sente costretti a prendere posizione. La più salomonica delle quali è dire che siamo un po’ tutti delle merde, perché è vero che le mode contano più di tutto, sennò non sarebbero mode, e che la mobilitazione è quasi sempre emotiva, più che ragionata.

 

“Mi ha molestato un prete, ma non fraintendetemi: mi piaceva venirgli in faccia”, sta dicendo intanto Chappelle, sfiorando un argomento, come dire, di corredo. Sul Sunset Boulevard i dipendenti di Netflix sono scesi in strada per protestare contro la presenza degli spettacoli di Chappelle nell’offerta della rete, ma il loro capo, Ted Sarandos, ha difeso la scelta: “Le cose più cattive a volte sono le più divertenti e il pubblico adulto può guardare contenuti forti senza sentirsi spinto a fare del male agli altri”. In realtà si potrebbe anche immaginare la maestria umoristica di Chappelle come il frutto di un definitivo assunto di scetticismo: siamo fatti così, non siamo giusti, e il successo di ciò che facciamo e sosteniamo dipende un po’ dalla fortuna e molto dal potere che siamo in grado di esprimere: “Per questo noi neri guardiamo la comunità gay e pensiamo: ‘Accidenti come funziona bene quel movimento!’. Dovremmo capacitarci che se gli schiavi avessero indossato gli shorts e usato l’olio per neonati, saremmo stati liberi cento anni prima”.

 

Diciamo che se essere controverso è l’essenza di un comico che vuole contare, scegliere un simile individualismo di denuncia è un vero e proprio all-in, basato su una grande sicurezza nei propri mezzi e su una meticolosa conoscenza delle reazioni, degli ondeggiamenti e delle debolezze della platea. Chappelle sembra prima di tutto uno scienziato della comedy. Se poi dalle sue battute escano giustificazioni per certe forme di bigottismo, se usandole si possa arrivare a riproporre la questione della separazione tra i generi, o addirittura stuzzicare forme di persecuzione e violenza, è un argomento difficile da dirimere. Il suo gioco ormai è chiaro: ribaltare le strategie di denuncia utilizzate da alcuni movimenti di oppressi, smascherando la loro appartenenza a un privilegio originale – quello razziale: “MeToo era un movimento stupido. Non ha avuto successo perché non ha saputo fare le scelte giuste. Per non avere più dei Weinstein in circolazione, quelle ragazze dovevano prima di tutto mollare i loro agenti. E mettersi nelle mani della persona giusta: ovvero di un uomo. Che si sarebbe fatto succhiare il cazzo”. Risata oceanica. E stoccata malvagia verso le attiviste: “Non mi masturberò più sulle vostre foto”.

 

Diciamo che è gioco pesante, ma raccoglie cenni d’intesa – da destra e da sinistra, come si sarebbe detto un tempo. Lasciando sospeso il giudizio, riferiamo solo di un’ultima storia, la più tragica attorno a Chappelle. Nell’epilogo dello show Dave racconta la vicenda di un uomo che aveva già fatto la propria transizione a donna quando lui l’ha conosciuta, diventando Daphne Dorman di San Francisco. Daphne andava a vedere i suoi spettacoli e rideva di gusto, in particolare proprio alle sue battute sulle trans “la cui passera non è proprio una passera, ma una specie di ‘passera impossibile’”. Daphne sognava di fare anche lei la comedian e Dave era il suo eroe. I due fanno amicizia e Dave le offre di occupare per una sera il numero d’apertura di un suo show. Daphne però è una dilettante e il set che presenta fa schifo. Lei però resta indifferente al fiasco e alla fine si siede in prima fila, guardando lo spettacolo di Dave come una del pubblico. Un po’ ubriaca, comincia a interagire col collega famoso e di colpo tutto comincia a funzionare. Il pubblico ride, il disastro di prima è dimenticato, è un successo ritardato. A fine show Dave la ringrazia, ma Daphne non è per niente accomodante, invoca solo di essere capita nella drammatica situazione che sta vivendo. Quando tempo dopo esce su Netflix lo special “Sticks and Stones” e la comunità Lgbtq+ attacca Chappelle bollandolo come transfobico, Daphne lo difende: “Lui colpisce solo con le sue battute. Ed è un maestro”, scrive.

 

Dopo quel gesto coraggioso, però, la comunità trans se la prende anche con lei, insultandola. Pochi giorni e Dahpne si suicida, saltando dal tetto di casa. Chappelle scopre che Daphne ha una figlia e apre un fondo fiduciario a suo nome. “Quando avrà 21 anni, le consegnerò i soldi e le dirò: conoscevo tuo padre, ed era una donna meravigliosa…”. Che è una battuta – amara. Dopo la quale mormora: “Non so se la comunità trans abbia fatto qualcosa per quella bambina. L’empatia non è una questione di genere”. Già: dovrebbe essere bianca, nera, gay, bisessuale e di qualsiasi altra forma e colore. Ma non è così. Commozione generale. Chappelle nel frattempo ha chiuso, rassicurandoci che persegue la sincerità e combatte l’ipocrisia. Da adesso in poi non parlerà più di questi argomenti. Ma poi non resiste e torna al punto: questi discorsi sul genere costituiscono una materia da privilegiati, elucubrazioni decadenti, roba da bianchi insomma. Ovvero coloro che furono padroni e aguzzini. Gente che non ha vissuto la preoccupazione di lottare per la sopravvivenza, che non sa come sia avere paura di un linciaggio, che non conosce il sogno della libertà. Per un certo lasso tempo nel suo percorso professionale, durante il quale ha citato molto spesso Martin Luther King jr., lui si è sentito il tribuno di costoro, una voce delegata. E ha parlato ad alzo zero, senza fare prigionieri. Perché la guerra – la sua guerra, è chiaro, quella che viene da prima, da quando non si parlava di generi e nemmeno se ne vagheggiava – non è finita. E la pace è assai fragile.

 

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