Anacronismo della critica. L'ultimo libro di Giulio Ferroni

Alfonso Berardinelli

Nel nuovo libro del grande italianista, lo sconforto per una scuola e una critica letteraria sempre più difficili, perché ad entrambe mancano i presupposti di praticabilità. Pagine illuminanti riguardano la cultura del nostro “tempo modificato”. E sulla letteratura del virus meglio soprassedere

Leggendo il nuovo libro di Giulio Ferroni, Una scuola per il futuro (La Nave di Teseo, pp. 244, euro 13), ho constatato che invecchiare è ovviamente non soltanto un problema per artisti, come diceva Gottfried Benn, ma anche per intellettuali, storici della letteratura, docenti e critici. Condivido con Ferroni, mio antico compagno di liceo (nonché con Ernesto Galli della Loggia, altro coetaneo), la preoccupazione per lo stato attuale della scuola e dell’insegnamento. Per scetticismo e per noia (dovuta non agli studenti, ma alla demoralizzante burocrazia) ho voluto smettere di insegnare già un quarto di secolo fa. Vedo perciò le cose molto da fuori. Resto comunque sensibile alla forma che la cultura assume quando entra nelle aule scolastiche e universitarie. La trasmissione del sapere, la formazione di bambini e ragazzi, è una questione sociale di lunghissima durata, è iniziata con le più antiche civiltà e arriva a oggi. Non rimpiango la scuola “di un tempo”; quella che ho conosciuto prima come allievo e poi come docente. In fondo a scuola mi sono sempre sentito a disagio. Nei più di vent’anni in cui ho insegnato, la prima cosa che avevo in mente era fare tutto il possibile per non commettere gli errori più comuni che avevo notato in chi insegna. Di ottimi insegnanti ricordo di averne avuti solo un paio e solo negli ultimi tre anni di liceo. All’università sono stato invece piuttosto fortunato: a Roma negli anni Sessanta si potevano seguire i corsi di Giacomo Debenedetti sul romanzo europeo di primo Novecento e quello di Guido Calogero sulla dialettica dai Presocratici, a Socrate, a Hegel: per me i corsi più memorabili, oltre a quelli di Argan, Macchia, Sapegno, Praz e del giovane Tullio De Mauro, allora più filosofo del linguaggio che linguista.


Ferroni ha invece insegnato per più di mezzo secolo ed è stato autore di uno dei manuali di letteratura italiana più criticamente solidi e aggiornati in circolazione dagli anni Novanta in poi. Storico e critico letterario militante, preparando la nuova edizione dei suoi volumi dedicati alla scuola si è reso conto che ormai “veniva progressivamente evaporando la praticabilità scolastica di un manuale del genere”. Il tempo nel quale la sua storia letteraria è stata concepita e scritta era ormai un “altro tempo”, perché “una serie di incontrollabili e rapidissime trasformazioni” avevano reso quasi incompatibili la scuola attuale e “le vicende della nostra letteratura”. E’ così che quella che doveva essere una riflessione sulla scuola ha preso la forma di un pamphlet autobiografico sull’intera cultura di oggi. Non si può infatti, oggi meno che mai, parlare di scuola senza parlare della società e della cultura che stanno rendendo la scuola una realtà quasi impossibile da programmare e praticare. L’attuale “costipazione ed esplosione dei saperi” minacciano e travolgono l’atto e l’esperienza della lettura, rendendo l’esercizio della critica una specie di fastidioso e inopportuno anacronismo.


Ma è possibile, come è possibile, una scuola in cui si legga sempre meno? E che cos’è una cultura nella quale la critica dei prodotti culturali è sentita come un’aggressione illecita e ingiusta, cioè anticulturale? Ferroni non si vieta certo il giudizio in nome di un retorico ottimismo. Il suo libro nasce infatti dalla motivata impressione “di essere a una svolta radicale, davanti a qualcosa che, in queste dimensioni, non si era mai presentato nella storia umana”. Tutto è avvenuto con una velocità che non si era mai vista nella storia passata, il che significa che l’invecchiamento di ogni cosa è diventato continuo e frenetico, e la stessa idea di un processo storico in cui si congiungano passato, presente e futuro è diventata quasi impensabile.


Il tempo della pandemia ha poi accelerato le mutazioni culturali e sociali già in atto: quello attuale è un vero e proprio “tempo modificato”, sia dilatato che contratto, che ha fatto esplodere ogni precedente specificità tematica, ogni delimitato oggetto di conoscenza e di riflessione. Parlare di scuola e del suo futuro appare perciò a Ferroni come una edificante fuga dalla realtà. La maggior parte del suo libro è dedicata alla propria autocoscienza di storico, di lettore e di critico; all’identità italiana e alle sue vicende, a partire dai tempi di Dante fino a quelli di Leopardi e del Novecento. Molte pagine sono dedicate alle nuove ideologie contenute in formule come “capitale umano”, “competenze”, destino digitale della cultura e dell’insegnamento in vista della presente e futura competizione economica mondiale. Che cosa siano, che cosa possano fare e a che cosa servano gli insegnanti come individui, è sempre meno chiaro: semplicemente il loro ruolo di mediatori capaci e responsabili tende a sparire e comunque è sempre meno previsto.


Disperatamente godibile è il capitolo in cui Ferroni esamina la debordante “letteratura del Coronavirus”, una massa di “libri espresso, confezionati in tempo reale, anticipati nei giornali e talvolta a essi direttamente allegati”, prodotti da filosofi, scienziati, giornalisti, romanzieri ben noti e iperattivi, che con una mano hanno scritto il loro libro su Dante e con l’altra hanno consegnato ai posteri il loro diario della nuova peste, sentendosi eredi di Tucidide, Lucrezio, Boccaccio, Defoe, Manzoni o Camus… Su tutti mi pare che nelle pagine di Ferroni spicchino Giorgio Agamben, il filosofo della “nuda vita” (formula apritisesamo) e del nuovo totalitarismo sanitario considerato erede diretto dei lager nazisti; e non manca il fantasioso esteta Alessandro Baricco. Apprendo che quest’ultimo, in forma aforistico-digitale (33 frammenti da leggere sullo smartphone), interpreta e inventa la Pandemia come “creatura mitica” che sfugge alle “profondità” ormai superate e fallimentari della cultura novecentesca. No, la Pandemia, secondo Baricco, è un mito come l’amore: e “chi ha amato saprà”. Per fortuna a questo punto arriva in aiuto Claudio Magris, che evidentemente non riesce a dimenticare né Karl Kraus né Musil e parla in proposito di record della stupidità, il più utile e profondo dei concetti da applicare al presente e da usare come bussola per orientarci nel futuro.

Di più su questi argomenti: