Il cattivo romanzo del virus

Matteo Marchesini

Scrittori che si rifugiano nel vintage, sempre uguali con o senza coronavirus. Opinionisti e corsivisti con la loro futilità. Anticonformisti di bocca buona. Da Moresco a Žižek, da Agamben a Mancuso: una critica letteraria dell’anno della pandemia

Solo tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 ho capito bene il significato della parola “bolla”. Tutti, ma proprio tutti i miei amici, parenti e contatti social stavano guardando SanPa. L’ho fatto anch’io; ed è stato strano rivedere, un po’ sgranati, i telegiornali della mia adolescenza. Anni Novanta. Gli anni in cui si sono formati i quarantenni di oggi, i nerd e gli alternativi vintage che allora mimavano i Settanta. Come sono struggentemente lontani, i Nineties. E com’è patetico il loro piglio sfrontato, rispetto alla vera temerarietà del Novecento e alla sfrontatezza che è venuta dopo. Sistemo su uno scaffale l’antologia dei cannibali, e la fisso come si fissa un Commodore 64. Anche questa è la battuta di un cannibale, il revenant Daniele Luttazzi. Già, i revenants. Perché se da un lato i Novanta sono così lontani, dall’altro, culturalmente e letterariamente, sembrano non essere finiti mai. Basta buttare un occhio alle classifiche del terremotato 2020 editoriale: Follett, Allende, Rowling… Le buone cose di pessimo gusto delle librerie Feltrinelli a inizio Seconda Repubblica. Con l’aggiunta di Cambiare l’acqua ai fiori, ossia della versione cartacea di un medio, agrodolce film francese dell’epoca. Ma a tutt’altro livello l’attrazione per quel decennio è confermata anche dall’eco che ha avuto il libro straziante – e indirettamente autobiografico – di Claudio Giunta su Tommaso Labranca.

 
Nel Ventunesimo secolo, l’ultima fase postmoderna del Novecento è invecchiata in fretta. Eppure fino a pochi mesi fa la sua forma mentis pareva trascinarsi in un crepuscolo estenuato. Oggi gli effetti di vicinanza e lontananza sono diversi: la coda del secolo breve è più remota e più presente a un tempo, si direbbe. E quale significato sinistro ha assunto l’espressione “fine della Storia”! Se passata la bufera le nostre società torneranno a una vita paragonabile a quella di prima, può essere che i ragazzi del futuro penseranno ai catastrofici esordi del Duemila come noi trent’anni fa, in un limbo apparentemente atemporale, pensavamo alle tragedie belliche novecentesche, stupendoci che alle soglie di Auschwitz, o perfino nella belle époque, la gente facesse cose così simili alle nostre. Possibile che un talmudico intellettuale tedesco destinato a suicidarsi nei mesi più tragici della Seconda guerra mondiale si fosse goduto i comfort da cui eravamo circondati nelle nostre villette a schiera, o avesse riso al cinema dei film di culto che riscoprivamo ai cineforum? Possibile che un attimo prima di essere travolti dal nazismo gli abitanti di Berlino vivessero in una specie di enorme Bologna anni Novanta?

 
Solo che negli ultimi due decenni la percezione del tempo e dei tempi ha subìto una trasformazione inedita. Grazie ai nuovi media, la quotidianità convive con la catastrofe: non si cena più lasciando cadere uno sguardo distratto sulle immagini di Sarajevo come su un altro mondo. La distrazione è ovunque, certo; ma anche l’irruzione improvvisa della Storia nella vita domestica. 

 
Comunque sia, proprio mentre ogni muro di casa diventa una cortina di ferro, la stagione dell’abbattimento dei muri, così speranzosa e velleitaria, e così ingenua nel suo giovanilismo centrosocialista, rispunta fuori da ogni parte. Quanto poi all’editoria, gli esempi si possono moltiplicare a piacere: Veltroni, Vespa, Camilleri, la famiglia Angela, Baricco, Grisham e l’onda lunga del giallo… Non è davvero il caso di chiedere ubi sunt. Dopo il crollo del mercato primaverile, dopo i bonus statali e l’accumulo di titoli arretrati, all’impennata natalizia delle vendite si è scoperto che l’ultimo canone lo ha fissato l’industria culturale fin de siècle. Il Ventunesimo secolo vola così rapido, col suo vento da Angelus Novus sulle spalle, e la letteratura diventa così piccola nell’universo dell’infosfera, che il vintage appare un investimento più sicuro, meno effimero, perfino nel formato ebook che fino a ieri sembrava nato morto come – per concederci un’altra citazione d’epoca – il crepuscolare cdrom. 

 

     

Oltre le colonne dell’industria editoriale anni Novanta, che ha le sue ultime appendici nei bestseller degli anni Zero, resta appena il microcosmo delle falene letterarie che oggi sbattono contro la luce degli schermi. Senza presentazioni dal vivo, le falene si promuovono affannosamente sui social: ma i like non sono né vendite né letture, e le approvazioni degli inserti culturali, ridotti a uffici stampa, non valgono più nulla. Nel 2020 si sono visti gli scrittori – cioè coloro che devono incarnare il ruolo dello Scrittore nel mediatico gioco delle parti – cercare un nuovo galateo della comunicazione virtuale.

 

L’Impegnato, la Tormentata, il Raffinato, l’Implacabile,  ormai abituati a tessere un’immagine fatta di post, tweet o stories. Previsioni (azzeccate) su una riscrittura di romanzi del contagio. Lagioia, Moresco e la letteratura da “velocista preistorico”. La brutta figura di opinionisti e corsivisti, la spudoratezza di certi filosofi

 

L’Impegnato e la Tormentata, il Raffinato e l’Implacabile, con l’aiuto dei loro agenti, sono ormai abituati a tessere un’immagine fatta di post, tweet o stories. Ma tutt’altra cosa è ritrovarsi a parlare per ore da uno speakers’ corner senza poter misurare la complicità a sguardi e movimenti del corpo. Difficile trovare i tempi giusti per le battute: tutto risulta nebuloso, telefonato, e la sfacciataggine è inghiottita dall’impaccio. Gli Scrittori sono in imbarazzo un po’ come al congresso di Livorno i delegati che si mettevano in posa scambiando l’obiettivo cinematografico per la macchina fotografica – e a volte rifanno il ciak, proprio come allora, trattenendo un sorriso nervoso incorniciato da file di libri Adelphi o da pareti bianche tipo testimone sotto protezione.
Ma per le falene, riaffermare la propria identità in una circostanza così imprevista significa soprattutto continuare a scrivere quello che scrivono di solito, aggiungendo un’allusione alla pandemia. Solo in questo simile a Clint Eastwood, la letteratura italiana più visibile ha due espressioni: con o senza coronavirus. Come già davanti al G8 di Genova o all’11 settembre, si calca addosso a freddo il cappello dell’Evento restando caricaturalmente sé stessa. Nel maggio scorso, in un pezzo fantasatirico uscito sul Foglio, avevo provato a immaginare come alcuni narratori riscriverebbero i Promessi sposi, il romanzo del contagio così citato nell’ultimo anno, e forse, come La peste di Camus, perfino (ri)letto o almeno comprato. Poco dopo, per quel che riguarda Gamberale e Maraini, le mie previsioni si sono quasi avverate. Sospetto di avere descritto in modo attendibile anche il libro di Lagioia, che ho sfogliato soltanto. Ma forse lo avevo già recensito sei anni fa stroncando nella Ferocia lo stile da wannabe Capote e da telefilm spiaccicato su carta. Leggo che un critico della Città dei vivi ha visto nel finale un riferimento al virus. Non mi stupirebbe, dato che per dirla con Emilio Cecchi si tratta di una letteratura da “velocista preistorico”, sempre goffamente protesa sugli ultimi titoli cubitali. Ma non scrivo qui per infierire, tantomeno su autori che ho già giudicato e che sembrano divenire incessantemente quali l’attualità li muta. M’imbarazza ad esempio citare Antonio Moresco, che coinvolsi nella famigerata stroncatura a Lagioia di cui sopra, segnalando nella sua prosa una differente declinazione dello stesso pompierismo corrusco. Non posso però non dar conto, in un articolo come questo, delle sue performance pandemiche. Sul blog “ilprimoamore”, per la verità un po’ sottotono, l’autore di Lettere a nessuno ha voluto scrivere una “Lettera al Signor Virus”: “Mio potente e fragile amico, ti faccio una proposta: prendiamo atto di entrambe le nostre disperate situazioni e proviamo a collaborare. Tu adattati a poco a poco a noi senza portarci a morte, come hanno fatto un’infinità di batteri e virus nel corso del tempo, che sono stati inglobati nei nostri corpi, nei nostri organi e persino nei nostri occhi, con i quali vediamo o crediamo di vedere il mondo, che non ci sarebbero senza di voi. Lo so che finora non abbiamo fatto buon uso della vostra ritirata strategica e della vostra apparente resa. Però stavolta sarà diverso, perché ci troviamo anche noi di fronte a una fine o a una mutazione e un passaggio e ci potranno salvare solo un’invenzione e un sogno nuovo, di specie. Entra anche tu dentro il nostro sogno e noi entreremo nel tuo. E così, raccogliendo tutte le nostre forze, tutti i nostri sogni e quelli degli esseri che conteniamo e in cui siamo contenuti, proveremo a sostenere questa prova cruciale e inventarci tutti insieme una vita nuova. / Scusa l’emotività di questa lettera. / Tuo Antonio Covid-19 Moresco”. 

 
Moresco vorrebbe essere insieme Céline e Teilhard de Chardin; ma il tono untuoso, dolciastro, mi ricorda di nuovo gli anni Novanta – in cui lui pure si è fatto largo sulla scena – e precisamente quelli delle trasmissioni Rai del sabato sulla religione. Lo stesso tono si ritrova nel libro moreschiano uscito durante la pandemia, un Canto degli alberi in cui l’autore si rivolge alle piante con parole accorate e bamboleggianti. Ma a questo Claudio Damiani in prosa gli alberi rispondono molto meno degli editori. Così Moresco li fa parlare come lui, cioè, al solito, finisce per parlare con sé stesso come il seminarista dei suoi esordi. Che a un certo punto, va da sé, alza la voce e si lascia andare a tonanti omelie sulla “democrazia ridotta a copertura e feticcio”, sulle “autocrazie politiche sorrette dalle economie criminali”, sui “grotteschi umani democraticamente votati da elettori frastornati e privati dei veri termini della situazione”, e via luogocomuneggiando. Non siamo distanti da Giuseppe Genna, che con lo stentoreo Reality ci ha dato il suo instant-poema in prosa sublimando una cronaca del Covid da “Vita in diretta”, e riavanzando come Moresco la candidatura a Bossuet dello splatter.

 
Dunque per stare a galla, senza un attimo di silenzio e spaesamento, alcuni scrittori replicano forme letterarie già prima improbabili. Magari gridando di più; solo che le grida suonano ancora più false, oggi che salgono dal mondo quelle vere: vogliono farci paura, ma noi abbiamo già paura, come diceva in un caso più fondato Tolstoj di Andreev. Però, ripeto, non ha senso infierire; soprattutto sui narratori, che hanno già la loro pena dantesca nel vano istinto d’inseguire continuamente fatti che continuamente li superano. E’ presto per capire cosa la narrativa saprà fare della pandemia. Possiamo commentare la nuova apocalisse digitale di DeLillo, o la fretta con cui illustri storytellers come Stephen King correggono in extremis le loro trame ambientate nel 2020. Ma la nottola di Minerva, il contenuto di verità di quello che stiamo vivendo è ancora lontano dall’apparire all’orizzonte. Per quel che riguarda invece la registrazione della “cronaca”, tra le uscite italiane vale la pena citare Tredici lune di Alessandro Gazoia, modesto e onesto nella sua medietà, e consapevole che non si può “correre dietro le ambulanze”. Si tratta di un breve romanzo-diario-saggio in cui l’autore elenca un po’ tutti i pensieri che si mangiano la coda, tutti i gesti routinari e i sensi di colpa minimi o cosmici di un lavoratore intellettuale del 2020 (la cultura che si sa risorsa e alibi, l’eros a distanza, la catena dei lavacri e degli WhatsApp…). Gazoia ci offre così un documento verosimile di ciò da cui sembra impossibile liberarsi, in termini di temi come di toni e forme: il cortocircuito tra intimismo e ideologia, tra sentimentalismo e captatio benevolentiae del ceto di coloro che per mestiere mettono tutto tra virgolette. 
Chi invece per mestiere è costretto a correre dietro alle ambulanze, cioè gli opinionisti e i corsivisti, ha fatto in genere una figura peggiore di quella dei romanzieri. Tutti credevamo di sapere che viviamo nel regime in cui i fatti commentano le opinioni, e i nuovi media trainano i vecchi. Ma si sa davvero unicamente ciò che si ricorda senza sforzo ogni mattina. E solo la pandemia ci ha mostrato cosa implica questo regime, quando è in gioco la sopravvivenza, col suo eccesso di bugie e verità inverificabili che impongono una sollecitazione ora per ora, rendendo populisti anche gli esperti. Solo la pandemia ha cioè rivelato per intero la futilità dell’opinionismo politico-culturale. All’improvviso l’ironia callida di Serra e quella rozza di Gramellini, il kitsch di D’Avenia e il pathos di Marzano, Murgia o Recalcati (i quali però si sono subito aggrappati al carro cancel culture) hanno subìto un ingiallimento da giornali d’epoca. Per non parlare di Massini, costretto da non si sa chi a spiegare quotidianamente sul sito di Repubblica da dove viene l’espressione “farci il callo” o “mal comune mezzo gaudio”. Questi poligrafi sono l’ultima incarnazione del mix di populismo indignato e satira perbenista con cui è cresciuta la “generazione Santoro”. E non è un caso che non funzioni più, di quel filone, nemmeno il coté satirico. I nuovi autori satiricamente efficaci, Lundini e lo Sgargabonzi, dimostrano che nel nostro regime comunicativo la satira può essere soltanto formale, tautologica, situazionista al grado estremo. Quanto al coté omiletico, non c’è nemmeno bisogno di sottolineare la vanità degli interventi dell’Intellettuale, il quale in pandemia, come e più di sempre, non ha quasi mai da dire nulla più di un cittadino qualunque, ma se lusingato si preclude l’unico engagement necessario: quello di declinare l’offerta di esprimersi, e di accrescere così la sua visibilità. Però questa vanità si è rivelata anche e contrario. Sul Corriere, ad esempio, se da una parte abbiamo avuto le lagne generiche di Scurati, un Alberoni boomer, con le sue mezze stagioni del concetto e la prosa bolsa dell’aspirante direttore di coscienza, dall’altra si è distinto Paolo Giordano, che è stato forse un po’ frettoloso nello sfornare il pamphlet sul contagio, ma poi utilissimo negli articoli in cui ha messo a frutto mese per mese il suo sapere scientifico (e verrebbe da confrontare questi articoli anche con il successo di Rovelli, che si deve invece alla suggestione di una scienza analogicamente tradotta, cioè al bisogno, ora che della letteratura ci fidiamo poco, di ritrovarla in altri saperi: non a caso anche nel 2020 le librerie si sono riempite di riflessioni sulla Poesia svolte non da critici ma da linguisti o da teorici in odore di neuroscienze).

 
Per capire l’anno terribile servono soprattutto delle rigorose analisi dei dati, come quelle di Giordano o su un piano più ampio di Ricolfi, affiancate da sobri reportage come Bergamo e la marea di Davide Maria De Luca. Ragione e concretezza, insomma: due tratti sconosciuti a quelle starlette della pubblicistica impegnata che sono i Pensatori, alcuni dei quali, secondo una discutibile tradizione italiana, hanno un ruolo fisso da editorialisti (chi diceva che un professore è un tizio che non scrive abbastanza bene per collaborare a un giornale? Ora non vale più). In questo senso, nel pubblicare immediatamente le loro elucubrazioni, certi filosofi si sono confermati più spudorati dei narratori e più privi di gusto dei giornalisti. E anche nel loro caso, il 2020 ha mostrato in piena luce ciò che prima era implicito. In pochi mesi, con una serie di invettive, Giorgio Agamben è diventato la bandiera degli anticonformisti di bocca buona che protestano contro le restrizioni della libertà. Questo pensatore tende ad abusare della figura dell’iperbole. Ma l’iperbole diventa imbarazzante quando la realtà, anziché manifestarsi a un’adeguata distanza sociale, giganteggia sulla soglia di casa. E un intervento in cui Agamben paragonava i professori obbligati alla didattica online a quelli che giurarono fedeltà al fascismo ha aggiunto un po’ di sale tragicomico in più. Di colpo, infatti, innumerevoli insegnanti di lettere e filosofia che fino allora erano stati dei veri e propri ultrà dell’autore di Homo sacer sono diventati suoi accusatori, o magari candidati infermieri. Mi chiedo quanti di loro, prima che il filosofo si occupasse in modo così poco accorto del mestiere che fanno, abbiano mai tentato l’esercizio d’immedesimarsi negli attori degli altri contesti sociali su cui ha agito per decenni la sua vaga reductio ad Auschwitz. Ecco cosa è sempre mancato al nostro ceto intellettuale: la capacità di immedesimazione. E ora che ci è costretto, ora che è davanti alla “nuda vita”, finalmente sente un po’ di disagio nel pronunciare l’espressione col tono soddisfatto di chi possiede una sapienza arcana. Eppure i suoi membri, specie i più affascinati dalle pose ascetiche, dovrebbero conoscere bene la differenza tra idee e fantasticherie irresponsabili. Le idee filosofiche o poetiche hanno il compito di condurre ai limiti estremi i nostri pensieri per saggiarne la consistenza, creando forme e modelli in grado di rendere intelligibile il groviglio confuso della vita quotidiana; le fantasticherie, al contrario, ingigantiscono questo groviglio. Secondo i sapienti ci sono due modi per liberarsene: resistere alle loro sirene, o appunto portarle fino in fondo, trasformarle in immaginazione vera. E non esiste immaginazione vera che non sia radicale. Quando non lo è, di solito si tratta appena di una estremizzazione del senso comune. 

 
E’ il caso di chi riduce la gestione della pandemia ai paradigmi biopolitici. Agitando una questione importante, quella del destino di libertà e democrazia in un contesto emergenziale, gli agambeniani se ne fanno un alibi per sostenere che il racconto pubblico sul Covid è solo uno strumento manipolatorio del potere. Per avvalorare la loro tesi, ripetono che la percentuale dei morti a causa del Covid è piuttosto bassa; oppure confrontano il loro numero con quello dei morti per altre patologie respiratorie o cardiovascolari. Ecco un modo tipico di mischiare mezze verità e mezze menzogne, cioè verità eluse. Il problema infatti non sono le percentuali ma i numeri assoluti; e questi numeri non possono essere messi vicino a quelli che riguardano le altre malattie, perché soltanto l’estesa diffusione di un virus molto contagioso, ancora semisconosciuto e in grado di debilitare rapidamente l’organismo rischia di far crollare il sistema sanitario. Si possono esprimere le opinioni più spavalde; ma quando lo si fa, si ha il diritto di essere presi sul serio unicamente se si dimostra di aver tenuto conto di alcuni dati reali. In un’occasione come quella della pandemia, prima di autoeleggersi a sentinelle del pensiero critico occorrerebbe compiere un esercizio spirituale dei più classici. Si dovrebbe tentare di visualizzare nei dettagli la situazione che si ritiene mistificata: immaginare, ad esempio, cosa accade se si annullano le limitazioni alla libertà; immaginare la vita dei malati gravi che non possono curarsi; immaginare l’effetto domino del Covid sull’intera economia, cioè sulla possibilità, per milioni di persone, di rimanere autosufficienti; immaginare, infine, le conseguenze delle proprie parole. Se dopo questo esercizio spirituale gli agambeniani mantenessero lo stesso atteggiamento, lo si potrebbe giudicare sbagliato o perfino mostruoso, e tuttavia rispettabile. Invece, pur dandosi l’aria di chi compie imprese di eroismo civile e di abissale profondità teorica, questi intellettuali fantasticano come in un qualunque bar fisico o virtuale, legittimando così la volgarissima idea secondo cui la filosofia è l’ultimo rifugio di coloro che non vogliono sapere come è fatto il mondo. Il che non stupisce: cos’altro sono, alcune delle più note pagine agambeniane, se non proiezioni che ondeggiano sulla superficie di qualche vertiginosa metafisica novecentesca senza acquisire una realtà teorica autonoma?

 

Il caso Agamben. Il linguaggio figurato che prende la mano a Donatella Di Cesare. L’ebook in progress, già da marzo 2020, di Slavoj Žižek. Il tentativo di risolvere i problemi sociosanitari per via etimologica. Il ritorno a  Dante e il 2020 della cancel culture. Il segreto della più memorabile poesia sulla pandemia

  

Ma almeno il caso Agamben merita uno smontaggio critico. Che sarebbe invece eccessivo per un pamphlet come quello di Donatella Di Cesare, Virus sovrano? L’asfissia capitalistica, già in libreria a giugno dell’anno scorso. “Sull’asfalto ovattato corrono veloci autobus semivuoti, tracce del mondo febbrile di prima, note discordanti” inizia la Di Cesare. E poi: “La città eterna, dopo secoli di storia, trattiene il fiato”. Non siamo quasi in un romanzo di Lagioia? Poco più avanti la filosofa avvisa che stavolta il “germe catastrofico” non è una metafora, eppure subito dopo evoca “il corpo logorato dell’umanità”. E ancora: “Non è forse un caso che il virus proliferi nelle vie respiratorie, dove passa l’alito della vita”. Di qui in avanti il linguaggio figurato le prende decisamente la mano: “Il virus ha fermato il dispositivo”, “E’ una tetanizzazione del mondo”. “Il coronavirus ha sottratto i corpi all’ingranaggio dell’economia. Tremendamente mortifero, è però anche vitale”…

 

Quando non dice cose improbabili, l’autrice si limita ad allineare mezze verità banali e male argomentate sul capitalismo, l’ecologia, l’ingiustizia sociale, la riduzione della vita all’attimo e al corpo, il complotto come sintomo, la virtualità: una brutta copia di Byung-chul Han in salsa Italian Theory. Poche pagine, e siamo già agli stereotipi della filosofia corrente o meglio stagnante nelle nostre università, nonché all’inservibile testa di turco “neoliberale”, aggettivo di cui ovviamente non si precisa il significato. Anche la Di Cesare punta sullo stato d’eccezione come verità nascosta della democrazia, e così non distingue la sua esistenza da quella di un bielorusso o di un iraniano. Ecco allora che il Covid, agente ambiguo di trasformazione, svela la nostra ossessione immunitaria dell’identità contro la mutevolezza vitale: “E’ l’assenza dell’altro, la sua cancellazione, a secernere e provocare l’alterità inafferrabile del virus”. L’esserino microscopico si fa beffe dei confini sovranisti, e la vulnerabilità che c’impone diventa una buona occasione per spodestare l’io sovrano. Infine, la filosofa protesta contro gli scienziati che si trasformano in oracoli mediatici, esprimendosi su cose su cui “non è detto che abbia[no] più esperienza e saggezza di altri”: ma così non si accorge di fare dell’autobiografia. Esprime “Il sospetto è che il capitalismo accademico non giovi alla ricerca”. E lei, non è forse un frutto tipico di questa organizzazione dei saperi? Perché non ci racconta i prezzi dei suoi compromessi, le contraddizioni tra la denuncia del sistema e la corsa all’instant book? Forse perché crede di essere immune? 

 
Senz’altro più abile, nel giocare a nascondino con lo stesso tema, è Slavoj Žižek, che per confermare la sua fama di estroso ha cominciato fin da marzo 2020 a pubblicare sul Virus un ebook in progress. Eppure anche il suo approccio, già all’incipit, conferma quanto sia pomposo oggi il contegno di chi intende parlare in nome della Filosofia: “‘Non mi toccare’ sono le parole che, secondo Giovanni (20,17), disse Gesù a Maria Maddalena quando lei lo riconobbe dopo la resurrezione. E io, un cristiano ateo dichiarato, come interpreto questa frase? Anzitutto, la interpreto in relazione alla risposta data da Cristo al discepolo che gli domanda come avrebbero saputo che era tornato, risorto – Cristo dice che sarà lì ogni volta che i credenti si riuniranno nello spirito d’amore. Sarà lì, non come una persona tangibile, ma nella forma del legame d’amore e solidarietà fra le persone – quindi ‘non mi toccare, tocca gli altri e occupati di loro nello spirito d’amore’… / Oggi, però, nel pieno dell’epidemia di coronavirus, siamo tutti martellati dai moniti a non toccare gli altri e, anzi, a isolarci, a mantenere una distanza fisica adeguata – rispetto al ‘noli me tangere’, tutto questo cosa comporta? Le mani non possono raggiungere l’altra persona, soltanto dall’interno possiamo avvicinarci gli uni agli altri – e la finestra a cui si affaccia la nostra ‘interiorità’ sono gli occhi. In questi giorni, quando si incontra un conoscente (o persino un estraneo) e si mantiene la giusta distanza, guardare profondamente l’altro negli occhi può rivelare più di un contatto intimo”.

 

     

Siamo quasi in zona Vito Mancuso, di cui ci occuperemo tra un attimo. Ma poco più avanti si torna ai soliti topoi zizekiani, e prima di tutto ai virus come “morti viventi”. Più che da Wuhan, a leggere il filosofo sloveno, il Covid sembrerebbe venire da Jena, dato che addirittura rappresenta “un esempio di quello che Schelling chiamava ‘der nie aufhebbare Rest’: un resto mai superabile, il resto della forma di vita più bassa che si manifesta come prodotto del malfunzionamento di meccanismi di moltiplicazione superiori e continua a tormentarli (infettarli), un resto che non potrà mai essere re-incorporato nel momento subordinato di uno stadio di vita superiore”. “A questo punto” prosegue impassibile Žižek “ci imbattiamo in quello che Hegel chiama giudizio speculativo, l’affermazione dell’identità di infimo e supremo. L’esempio hegeliano più noto al riguardo è la formula ‘l’essere dello Spirito è un osso’ tratta dal commento alla frenologia nella Fenomenologia dello Spirito, e nel nostro caso dovrebbe essere ‘l’essere dello Spirito è un virus’ – non è forse lo spirito umano anche una sorta di virus che parassita l’animale Virus umano, lo sfrutta per riprodursi, e talvolta minaccia di distruggerlo?”.

 
Di qui anche nel discorso zizekiano si fa naturalmente strada un ragionamento – chiamiamolo così – sul potenziale liberatorio della pandemia. Le strade vuote delle megalopoli gli appaiono l’“immagine di un mondo non consumista in pace con sé stesso”, una postapocalissi dolce dove “le mascherine bianche indossate dalle poche persone in giro garantiscono un gradito anonimato e la liberazione dalla pressione sociale per il riconoscimento”, la valorizzazione dei “tempi morti”, eccetera. Ma la parte più rivelatrice del saggio riguarda le proposte. “E’ difficile non cogliere l’ironia del fatto che bisognerà ricorrere a misure comuniste per combattere una malattia che è esplosa in un paese governato da un partito comunista” scrive a un certo punto questo giocoliere della dialettica perennemente eccitato. E accenna alla urgente “riorganizzazione dell’economia globale che non sia più in balia dei meccanismi del mercato”. Qui il lettore si fa più attento. Ci siamo, pensa. Cosa tirerà fuori dal cappello? “Il coronavirus ci costringerà anche a reinventare un comunismo basato sulla fiducia nella gente e nella scienza” afferma Žižek con una formula non troppo promettente. Ma si aspetta ancora; e se non di essere convinti, almeno di assistere a uno spettacolo di prestidigitazione che ci faccia passare un quarto d’ora diverso, un “tempo morto” riempito dal filosofo che s’arrampica sugli specchi di Lacan riflessi da opposti specchi hegeliani. Invece arriva un’altra delusione: “Non ci riferiamo qui al comunismo di una volta, è naturale”, spiega Žižek, “ma a una qualche sorta di organizzazione globale che possa controllare e regolare l’economia, come pure limitare la sovranità degli Stati-nazione quando fosse necessario. I paesi sapevano farlo in tempo di guerra, e tutti noi ci stiamo avvicinando in effetti a una condizione di guerra sanitaria”. 

 
Ohibò. Tutto qui? Dunque quale sarebbe la differenza tra questo comunismo e gli sforzi dei liberali europei o americani che credono nello sviluppo delle istituzioni internazionali? Ancora: “Se migliaia di persone saranno ricoverate in ospedale per problemi respiratori servirà un numero molto superiore di apparecchi per la ventilazione polmonare, e per averli lo Stato dovrebbe intervenire direttamente, come succede in condizioni di guerra quando servono migliaia di fucili, e dovrebbe poter contare sulla collaborazione di altri Stati. Come in una campagna militare, le informazioni dovrebbero essere condivise e i piani perfettamente coordinati. Questo è il ‘comunismo’ che secondo me serve oggi”. Parole di buon senso. Ma se questo è il comunismo, il termine non ha più alcun significato – ed è evidente che l’autore lo usa solo per il bisogno puerile di apparire più antagonista di quanto non sia. 

 
Sempre conciliante è invece Vito Mancuso, che con il suo compendio antipandemico dissolve i concetti più vari nel consueto sincretismo. Anche il Veltroni della teologia c’imbocca subito con i classici, inserendosi perfettamente in un panorama editoriale in cui esiste ormai un vasto settore dedicato alla loro parafrasi in pillole da parte di latinisti, grecisti, vescovi o antropologi. E come loro, mentre c’invita ad appropriarci di antiche saggezze, Mancuso non dà mai l’impressione di essere cosciente del differente significato che l’otium o gli esercizi spirituali possono avere per lettori di diversa provenienza culturale o sociale: il suo sincretismo investe cioè anche un’idea irreale e consolante del pubblico, immaginato come un’uniforme estensione delle platee festivaliere. Mancuso ha fatto uscire Il coraggio e la paura a maggio 2020: anche lui è un velocista. Prima però, ci avvisa, ha dovuto attraversare il travaglio del Dubbio. Nel pieno della fase 1, il suo editore gli aveva chiesto un saggio sulla paura. “Non accettai subito” racconta “perché ero totalmente immerso nel libro sui grandi maestri spirituali dell’umanità (Socrate, Buddha, Confucio e Gesù)  (…) Dopo qualche giorno però, com’è evidente, accettai”. La cedevolezza orientale è migliore dello stoicismo? Non abbiamo il tempo di chiedercelo, o di ridere, che Mancuso ha già steso il tappetino e c’invita a rilassarci: se il respiro ci manca, vorrebbe che tirassimo un profondo “sospiro di sollievo”, quello che si prova “leggendo l’Apologia di Socrate di Platone, i Pensieri di Marco Aurelio, la Consolazione della filosofia di Boezio, i saggi di Montaigne, l’Etica di Spinoza”, e via dilatando verso il sublime di musica e natura. Dopodiché, con un’altra mossa tipica di questa letteratura, Mancuso tenta di risolvere i problemi sociosanitari per via etimologica: “Sollievo ha la medesima radice di sollevare”, spiega condiscendente. Bisogna un po’ tirarsi su dal quotidiano, ci ammonisce. La paura non è sempre negativa. Ma anche qui, non facciamo in tempo a rifletterci che ci troviamo davanti un excursus su Hermes, l’ermeneutica e il coraggio (da “cor, cordis”, latino cuore). Altre due pagine ed ecco l’areté, la guerra, Eraclito: il mondo, insomma, trasformato in un immenso liceo classico alleggerito dal counseling. Occorre liberare la mente, ripete l’autore, “entrare nelle proprie acque interiori”, “imparare a nuotare dentro se stessi”. In fondo pure Mancuso è anni Novanta: un teologo new age.

 
Tutt’altro che irenico, invece, è stato il 2020 della cancel culture. Anche in questo senso nel 2020 la Natura ha vinto sulla Storia: i libri e le opinioni si decontestualizzano, e prevale una lettura di primo grado, come in tutte le civiltà fondamentaliste. I postmoderni sono tornati premoderni: interpretano i testi come Dante, che a 700 anni dalla morte sale in classifica col ritratto che ne dà Alessandro Barbero. Rispetto al padre della nostra lingua ci troviamo in una strana situazione. Da un certo punto di vista è lontanissimo da noi. Niente è più esotico, nel Duemila, di un poema enciclopedico in terzine dove il significato della vita viene svelato nell’aldilà. Né antico né moderno, l’autore della Commedia fa coincidere poesia, narrativa, filosofia e religione all’interno di un’architettura formale che ai nostri occhi è davvero di un altro mondo. Ci sembra di capire meglio non solo il mondo fuori squadra di Shakespeare, ma anche quello di Omero, altrettanto vario e irriducibile a unità. Eppure, al tempo stesso, se la struttura della Commedia dista molti anni luce dal Ventunesimo secolo, ora che anche il razionalismo moderno si è dissolto i suoi scenari cosmici, mostruosi e mistici si riavvicinano al nostro immaginario. Ma soprattutto, quel che qui interessa è appunto il rapporto con le idee e i testi, con il passato e con “l’Altro”, come direbbero i nostri filosofi. Nel basso Medioevo circolavano pochi codici, che venivano trattati come autorità: vi si cercava direttamente il vero, mettendo sullo stesso piano storia e mito, poesia e filosofia. La lettura di Dante è quindi per molti aspetti opposta a quella critica dei moderni. Oggi però non siamo più molto moderni, in questo senso. Circondati da innumerevoli libri, che sempre più trascuriamo a favore degli schermi, ricominciamo curiosamente a somigliare ai lettori medievali. Scorriamo una pagina, magari a caso, e subito vi cerchiamo una lezione di vita. Abolendo ogni distanza, approviamo o condanniamo ciò che l’autore dice come se il suo fosse un messaggio privo di contesto. Anche Dante è coinvolto in questa ricezione fondamentalista: nel Ventunesimo secolo, ad esempio, è diventato senz’altro più difficile leggere in pubblico il canto su Maometto, o analizzare pacatamente i brani dell’opera dantesca in cui la donna appare un essere inferiore. 

 

Il Nobel è andato alla poetessa americana Louise Glück (LaPresse) 
    

E con l’Alighieri siamo arrivati ai poeti. Mentre i nostri paesologi e le nostre performer tentavano un counseling lirico un po’ indecente, nell’anno del silenzio coatto, della distanza sociale e della natura che si è presa la scena, il Nobel è andato alla poetessa americana Louise Glück: una poetessa per così dire silenziosa, e a suo modo naturalista. Sembra quasi che la Glück veda crescere l’erba. E’, la sua, una poesia dalla musica in sordina. La pronuncia enfatizza la mancanza d’enfasi, l’esattezza rarefatta. Nei versi di Averno e L’iris selvatico, ristampati dal Saggiatore, s’intrecciano mito e quotidianità, quadri a innesco narrativo e accensioni liriche, con un taglio che fa pensare a un Lowell meno diffuso, verrebbe da dire più virile; e l’essenza delle cose risplende fredda come nei poemetti eidetici di Wallace Stevens o come nei racconti di Alice Munro. Perché la natura glückiana, col suo mondo di relazioni, è illuminata da una luce calma ma senza calore. Di qui il senso di un’estraneità profonda, pur nella domesticità della terra e della casa, che diventa estraneità profonda dell’io anche a sé stesso e agli esseri umani con cui divide la vita quotidiana, “the bed” – sia nell’accezione di letto che in quella di aiuola. 

 
Della Glück si è occupato uno dei nostri maggiori poeti, Paolo Febbraro, che ha scritto forse la più memorabile poesia sulla pandemia, Violenza di dio: “Un giorno un dio disse: / ‘Voglio fare violenza a qualcosa, / essere energia brutale dominante, / sentirmi nell’abrasione, nel vincolo / malvagio del fatto’. // Ma non riusciva a scegliere / contro cosa incarnarsi: / pensò a un tifone ma immaginò / sé stesso vano e rotatorio; / il terremoto lo convinse quasi / non fosse per le polveri restanti. / Una belva? Le zanne in un cerbiatto? / Avrebbe dovuto aver fame, prima. / Un uomo, allora, un vicolo e una donna: / violenza panica, ripugnante, / ma perché essere umano, dunque, / lo spreco di piramidi e gioconde? // Il dio indugiava, gonfio d’inesistenza / come un mare che lambisce il deserto: / ‘qual è la violenza di un dio?’. / Fin quando si sparpagliò in lui / la forma inconsapevole d’un virus”.

 
Bella, vero? E’ stata pubblicata nel 2019. La letteratura viene sempre prima o dopo. Per questo il nostro eterno presente si accorge poco di lei, e la scambia con i suoi surrogati.

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