Giulio Ferroni (foto LaPresse) 

La scuola di Giulio Ferroni

Il virus, la Dad, il futuro, la responsabilità. Due chiacchiere con il grande italianista

la sospensione della realtà e la realtà non digitale che si riprende il suo spazio

Marianna Rizzini

L'ultimo libro del professore, in uscita per La Nave di Teseo, parte da vuoto del primo lockdown, per arrivare alla scuola di oggi, un oggetto da maneggiare con cura, e, dice Ferroni, da non considerare soltanto "strumento" per la formazione di "capitale umano"

Una scuola per il futuro, quando il futuro prossimo della scuola – tra neanche quindici giorni – è appesantito dai calcoli sul come evitare che il virus si ripresenti a sbarrare le aule e a rispedire in Dad studenti appena emersi dall’esperienza. C’è l’obbligo di green pass per il personale scolastico, ma c’è anche la sensazione impalpabile e persistente che si sia arrivati a un punto di non ritorno culturale e psicologico, e che il post Covid non possa fare a meno di una riflessione sul passaggio pandemico – anche e soprattutto a scuola.

  

  

“Non si può ricominciare come niente fosse”, dice Giulio Ferroni, critico letterario e docente di Letteratura italiana, l’uomo sui cui libri hanno studiato generazioni di studenti. E proprio dalla sensazione di trovarsi al confine tra un prima e un dopo che non permetterà di tornare indietro pedissequamente o seguendo dogmi e automatismi è partito Ferroni nel viaggio ideale di “Una scuola per il futuro” (in uscita in questi giorni per La Nave di Teseo, con presentazione il 13 settembre al Circolo dei lettori di Torino). Durante il primo lockdown Ferroni stava correggendo un’edizione rivista e aggiornata della sua “Storia della Letteratura  italiana”, e in quella “sospensione”, in quel “singolare vuoto del presente”, si era trovato a ripercorrere il suo  inseguimento “del dipanarsi del tempo storico italiano”, quando quel percorso tra passato e presente gli sembrava una scalata, con i suoi tornanti e le sue spianate.

 

Poi il Covid, e quell’“ansia moltiplicata dall’invadenza dei media, dai discorsi infiniti circolanti su reti reali e virtuali”, e Ferroni aveva pensato non soltanto “al destino di una storia della letteratura e ai suoi dati culturali”, ma anche “al destino della scuola, così tanto penalizzata da quei lunghi mesi di chiusura”.

  

Così, dal suo “manuale nella clausura”, il professore è arrivato a interrogarsi su una scuola che, dice al Foglio, “più di ogni altra forma di cultura viene continuamente umiliata, descritta come funzionale alla formazione del cosiddetto ‘capitale umano’. Ma non si può pensare alla scuola soltanto come strumento per un unico modello di sviluppo economico: la scuola è il punto di snodo di una riflessione che riguarda tutto e tutti noi”. Oggi, per esempio, “non si può e non si dovrebbe prescindere”, in aula, “dalle immagini che arrivano dall’Afghanistan”, dice Ferroni, “come in generale io penso sia impossibile non affrontare in prospettiva il dibattito sul cambiamento climatico”. La scuola che passa attraverso il terremoto del Covid, “quella che nei primi tempi della Dad tanto piaceva ai pedagogisti che da anni insistevano sul passaggio al digitale”, pare a Ferroni un oggetto di cui prendersi cura per evitare che “la ‘digitalità’ assurga a valore universale, a veicolo di produttività economica immediata, e che le varie discipline vengano viste come mondi separati.

   

 
Non è così, lo dice uno a cui la matematica pare una disciplina umanistica. Nuovo umanesimo digitale? Mah, io vorrei si parlasse invece di nuovo umanesimo ambientale. La tecnologia è uno strumento, ma per capire il mondo dobbiamo andare oltre uno schermo che non può contenere la realtà materiale. Cito di nuovo l’Afghanistan, con la sua terribile realtà materiale del dolore”. Fosse un professore alla vigilia della ripresa scolastica di oggi, Ferroni non inizierebbe “il primo giorno dal primo punto del programma”, ma rifletterebbe “con le ragazze e i ragazzi sul significato di questo passaggio, di quello che è stato il loro vissuto sotto la pandemia”, e cercherebbe “di incoraggiare una riflessione interdisciplinare sul passato e sul presente, e su come il passato oggi ci consegni una realtà diversa”, cercando di aiutare gli studenti “a uscire dal ruolo di fruitori subalterni del mondo digitale”. E se si parla a Ferroni di competenza, il professore risponde che nessuna conoscenza e competenza possono viaggiare “se non accompagnate dalla responsabilità. Il principio di responsabilità è determinante per il nostro rapporto con il futuro, e la coscienza critica è soltanto un orpello se la responsabilità non la sostiene”. 
 

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.