Ingrid Bergam con il figlio Roberto Rossellini bel 1971 (Olycom)

Una chiacchierata

Il figlio delle stelle. Roberto Rossellini Jr. si racconta

Francesca d'Aloja

La vita tra l’Italia, la Francia e la Svezia. L’esperienza all’Hotel Raphaël accudito da Hemingway e Gregory Peck. E poi la scelta di fuggire dai rumori, su un’isola selvaggia del nord

Quando ho conosciuto Roberto Rossellini, Robertino, avevo tredici anni, e naturalmente me ne innamorai all’istante. Lui aveva il doppio della mia età e naturalmente non mi considerò affatto. Col tempo ci siamo ritrovati, poi di nuovo persi, e infine, complici il lockdown di due inverni fa e i social, diventati i principali veicoli di comunicazione, ritrovati ancora. È grazie a Instagram infatti che ho tentato di mettermi in contatto con lui (con poche aspettative, visto lo scarso utilizzo che Rossellini fa del mezzo). Da tempo scomparso dalle cronache del jet set internazionale, e parco, se non addirittura restìo a fornire notizie di sé, mi stupii non poco quando ricevetti la sua risposta. Da allora ci sentiamo spesso e forse solo adesso abbiamo cominciato a conoscerci.

 

È un uomo speciale Roberto, e speciale è stata la sua infanzia della quale parla come “se fosse appartenuta a qualcun altro”. È da poco rientrato a Parigi, la città dove vive, dalla sua isola sul mare del Nord, il luogo che più di ogni altro desidera e ama. Ha vissuto in Italia, Francia, Inghilterra, America, Egitto. È figlio della svedese più famosa nel mondo, Ingrid Bergman, e di Roberto Rossellini, e non sa bene quali siano le sue radici. Ci parliamo via Skype, una lunga chiacchierata interrotta da tante, tantissime risate. Una delle doti principali del suo carattere è la simpatia, o forse quel non prendersi mai troppo sul serio, in nome della locuzione scandinava lagom, trasmessa da sua madre e perseguita come un dogma. Cosa significa lagom? “È una parola intraducibile. Si tratta di un concetto che riassume l’arte di vivere scandinava, basata sulla semplicità e la moderazione. Cioè il rifiuto dell’ostentazione, del mettersi in mostra. L’eleganza sta nella sobrietà. Mia madre faceva un mestiere esibizionista ma lei, personalmente, non lo era affatto, anzi detestava mettersi in prima fila e diffidava di chi si montava la testa. In questo sono uguale a lei”.

 

Ti senti più italiano o più svedese? “Ti rispondo con un aneddoto, se vogliamo, freudiano. Da piccolo, come tutti i bambini, giocavo con le macchinine. Con due in particolare, una blu, l’altra arancione. Nelle gare fra le due automobiline, da me pilotate, facevo vincere sempre la blu, senza una ragione precisa. Poi ho capito che associavo i due colori ai miei genitori: il blu era mia madre, l’arancione mio padre. Il Nord e il Sud. Ho sempre, in fondo, parteggiato per il Nord, forse perché vedevo mio padre affannarsi, faticare per ottenere qualcosa, mentre mia madre risultava sempre vincente senza fare sforzi. Era una calamita, le arrivavano doni che neanche richiedeva. Non so bene cosa sono io (risate) e non voglio manco saperlo… Sono stato un adolescente romano e sono diventato un vecchio svedese! In Francia e in Svezia mi considerano italiano, quando vengo in Italia mi sento straniero. Non parlo svedese, eppure quando sono in Svezia mi sento a casa. Sono europeo, ecco, felicemente europeo”.

 

E Parigi? “Parigi è sempre stata una città di riferimento. Da piccolo ci sono venuto perché mio padre aveva difficoltà a lavorare in Italia, non riusciva a trovare i finanziamenti per i suoi film e si sentiva frustrato. In Francia veniva considerato un maestro, soprattutto dagli autori della Nouvelle Vague, mentre in Italia era famoso più che altro per la sua vita sentimentale, la Magnani, la Bergman, anzi Ingrì Bergam, come la chiamavano a Roma (risate). Quando ci siamo trasferiti a Parigi non avevamo una casa, vivevamo in albergo, all’Hotel Raphaël”. Ecco, se vogliamo rievocare un’epoca scomparsa e irripetibile, dobbiamo raccontare l’incredibile aneddoto che riguarda proprio l’Hotel Raphaël: la storia di un bambino di sette anni che ha vissuto, solo, in quell’albergo per alcuni mesi… “Quel bambino ero io. E ci tengo a dire che l’episodio che mi riguarda non fu affatto traumatico, anzi… Successe che i miei genitori dovettero andare all’estero, papà in India, da cui poi sarebbe tornato con una nuova famiglia… e mamma invece a Londra, per girare un film. Io andavo a scuola, e per non interrompere gli studi decisero di lasciarmi a Parigi, proprio così, in albergo. Le mie sorelle, Isabella e Ingrid, erano troppo piccole e partirono con mia madre. Al Raphaël si incontravano intellettuali, artisti e gente di cinema i quali, a turno, sapendo che mi trovavo lì da solo, si occupavano di me. Sono stato ‘accudito’ da Hemingway, Gregory Peck, Marcello Mastroianni e addirittura da Sandra Milo! (risate) La mattina veniva a prendermi un autista per portarmi a scuola dove restavo fino al pomeriggio. La sera avevo un tavolino tutto per me nella sala ristorante e non mi sentivo mai solo… anzi, era divertente. Io non ho vissuto la mia infanzia come ‘eccezionale’, per me era normale, è solo quando ho fatto il confronto con le vite dei miei compagni di scuola che ho capito di essere ‘diverso’. Ricordo che un mio compagno non poteva capacitarsi del fatto che non avessi mai visto la televisione insieme ai miei genitori, rito familiare per eccellenza…”.

 

Il tuo rapporto con i soldi? “Non mi interessano. Nemmeno da ragazzo mi interessavano. Tutti pensavano che fossi ricco ma in realtà non avevamo una lira! Mio padre soprattutto, mai stato ricco. Facevo una vita da ricco, questo sì. Mi invitavano in posti lussuosi perché ero famoso e anche piuttosto carino, e io accettavo perché era un modo per risparmiare (risate) e fare bella figura con le ragazze che portavo con me”. Sei stato uno scroccone in definitiva… “Direi di sì (risate). Era divertente, e poi il cosiddetto jet set offriva esperienze interessanti: donne bellissime, personaggi incredibili, case fantastiche. Io ho approfittato di ciò che mi veniva offerto senza il minimo senso di colpa, dopotutto si trattava di un’epoca in cui tutto era concesso. Ho avuto la fortuna di avere vent’anni nel periodo in cui i giovani erano diventati una vera e propria classe sociale. Prima del ’68 i giovani non esistevano… e oggi sono costretti a comportarsi da adulti”. E poi… “Poi mi sono stufato. Se c’è una cosa che ho avuto ben chiaro sin dalla più tenera età è che volevo essere libero. Libero di cambiare vita, città, paese, lavoro. E per farlo non dovevo accettare rapporti vincolanti. Non ho avuto figli, non mi sono sposato con donne ricche e famose come avrei potuto. Una scelta forse egoistica ma onesta. Non ho crediti né debiti. Quindi se decido di sparire come un eremita non faccio un torto a nessuno…”.

 

Siamo arrivati al punto cruciale… qualcosa che va oltre il concetto di “lagom”. Il bisogno di solitudine, solitudine estrema direi. “Beh, sì. È un lusso, lo considero tale, che mi sono concesso quattro anni fa. Avevo letto dei libri che parlavano di esperienze di isolamento dal mondo civilizzato, chimere che vengono spesso evocate a parole e raramente in fatti. Io invece ho deciso di sperimentare il distacco dal rumore della civiltà, e soprattutto dalla schiavitù della parola, e allora ho pensato che il posto adatto poteva essere Dannholmen, l’isola di cui era proprietario Lars Schmidt, marito di mia madre. Ci andavamo da piccoli durante l’estate, era un luogo selvaggio e bellissimo affacciato sulla costa occidentale della Svezia, per mia madre un rifugio protetto”. Mentre Roberto parla, guardo le foto che mi ha mandato: l’isola è un grande sasso liscio e nudo in mezzo al mare. Totalmente disabitata, la sola costruzione esistente è una casa di legno.

 

“Dopo la morte di mamma e di Lars ci sono tornato, ma sempre in estate. D’inverno non ci va mai nessuno, è considerato un luogo invivibile, le temperature scendono a picco, non c’è il riscaldamento, i tubi dell’acqua esplodono per il gelo, raggiungere la terra ferma per i rifornimenti diventa complicato… Il luogo ideale per il mio “esperimento” esistenziale! Quando sono arrivato il paesaggio era lunare, un inferno di una bellezza incredibile. Anche l’inferno può essere bellissimo. Un freddo indescrivibile e l’isola, sulla quale non cresce un albero ed è priva di vegetazione, era costantemente schiaffeggiata dal vento, il mare spesso in tempesta. La mancanza di riscaldamento è stata la prova più dura ma poco a poco ho cominciato ad abituarmi. Volevo confrontarmi con tre dimensioni che non conoscevo: Silenzio-Solitudine-Spazio, le tre S, ed eccomi servito. Il silenzio, in quel luogo, si manifestava visualmente, io lo vedevo… così come paradossalmente udivo la solitudine. Chi si avventura in luoghi solitari, istintivamente tace. È ciò che andavo cercando: il silenzio del verbo, della parola. Non ho mai guardato la televisione e a un certo punto ho anche smesso di leggere i libri che avevo con me, per annullare i pensieri, fatti anch’essi di parole”.

 

E cosa facevi tutto il giorno? “Facevo la cosa più bella al mondo: assolutamente nulla! (risate fragorose). Osservavo le ore passare piuttosto che tentare di riempirle… Ho provato a vivere di immagini e suoni, come fanno gli animali. Suoni a volte violentissimi, il ghiaccio sibila, urla… Non è facile penetrare il silenzio, non intendo quello delle orecchie, ma quello del nostro cervello, però ho conosciuto la solitudine più profonda, fisica e mentale. Ero il solo essere umano e dovevo confrontarmi con la natura, concentrarmi sull’universo che mi circondava”. Hai mai avuto paura? “No. Mai. Nemmeno quando si era formato il ghiaccio intorno all’isola impedendomi di approdare”. Cioè? “Avevo un piccolo motoscafo che mi consentiva di raggiungere la terraferma, nel villaggio più vicino, per fare rifornimento di cibo e altro. Il guardiacoste ogni tanto arrivava con il suo rompighiaccio per creare un varco che facilitasse l’uscita con la mia barca. Dovevo sbrigarmi e tornare prima che si riformasse la crosta. Un giorno non ho fatto in tempo… la temperatura era scesa a -25°, il ghiaccio si era riformato, impossibile raggiungere l’isola. Ero solo in mezzo al nulla, sotto un cielo plumbeo nella semi oscurità e al gelo, e ho pensato, con serenità, che sarei morto. È fatta, mi sono detto. In fondo non era poi male morire così, meglio che in un letto di ospedale. Me ne sarei andato ‘sans révolte’ come diceva Camus. Quindi sono rimasto in silenzio ad aspettare. C’era una luce stranissima che veniva dal basso per via del riflesso sul ghiaccio, come nel purgatorio di Dante”.

 

E poi? Cos’è successo? “Poi è passata una barca di pescatori che mi hanno messo in salvo, mannaggia!” (risate). È sorprendente il modo che ha Robertino di sdrammatizzare, di non enfatizzare. Anche quando era più giovane e poteva permetterselo, non si è mai atteggiato, mai “fatto il fico” come direbbero a Roma. Dopo quanto tempo hai deciso di tornare nella civiltà? “Otto mesi dopo. Quando è arrivata l’estate sono venuti a prendermi”. E cosa hai provato? “Vedendo la barca che si avvicinava, ho avuto una strana reazione. Lacrime, tante lacrime mi uscivano dagli occhi senza alcun controllo, provocate dalla gioia per avercela fatta e dal dispiacere per la fine della più bella avventura della mia vita. Quando sono tornato a Parigi ci ho messo un po’ a riabituarmi, soprattutto ai rumori. Alle tre S con cui avevo così intimamente vissuto sull’isola, ne ho aggiunta una quarta: la S di sobrietà. Ecco, quell’esperienza ha rafforzato l’idea di semplicità di cui ti parlavo. Viviamo circondati di cose inutili e superflue purtroppo”. Perché non hai mai lavorato nel cinema? Ti hanno mai offerto di fare un film? “Sì, Zeffirelli, per interpretare Romeo, nel suo Romeo e Giulietta, ma ho rifiutato”. Perché? “Perché, come diceva mio padre, per fare l’attore devi essere vanitoso, e io non lo sono abbastanza. In più non avevo certo bisogno di visibilità, semmai cercavo di evitarla”.

 

Mi è rimasta impressa un’immagine di Robertino bambino, che ho visto in un bel documentario sulla Bergman: inseguiti dai paparazzi, Ingrid Bergman e i suoi figli si rifugiano in un’automobile, gli obbiettivi non li mollano e Robertino si copre il volto tristissimo con le mani, e poi ancora con il gomito come a proteggersi da una violenza. “La mia nascita è stata accolta con titoli cubitali sui giornali, ero il figlio dello scandalo. Da bambino ero sempre scrutato, fotografato. Da ragazzo ancora di più”. Il fatto è che Roberto, oltre a essere “figlio di” era di una bellezza impressionante, e quella era l’epoca dei paparazzi… “Non ho mai avuto un atteggiamento reverenziale nei confronti del cinema, tanto meno del cinema di mio padre… Io amo Fellini, il suo modo di raccontare ogni cosa con leggerezza, ironia… caratteristiche aliene a mio padre che invece, mi pare, fosse più propenso a giudicare, a voler indicare: questo è bene, questo è male… Uno dei primi screzi che ho avuto con lui riguardava La dolce vita, per me un capolavoro. A lui invece non era piaciuto. Era molto, troppo serio nel suo lavoro, mentre nella vita era molto simpatico. Ogni tanto chiedeva a me e a Isabella di guardarlo negli occhi pronunciando questa frase: “A papà, lo sai che sei proprio uno stronzo?”, noi non osavamo, ma lui insisteva: “Su, forza, ditemi che sono uno stronzo!”.

 

Ti manca Roma? Torneresti a viverci? “A Roma sono stato bene, anche se vivevo in un mondo molto ristretto. Divertente, spensierato, ma anche molto limitato. A casa mia transitavano tutte le persone più interessanti dell’epoca, ma non è che me ne rendessi conto più di tanto… Ricordo bene Alberto Sordi che quando veniva si metteva a cantare canzoni svedesi senza conoscere una parola di svedese e mia madre si divertiva moltissimo! Non credo che tornerei a viverci, è troppo distante da me, non solo in senso geografico… A Parigi sto bene, ma io in fondo sto bene ovunque, mi accontento di poco. Ho lavorato (nella finanza) quel tanto che mi consentiva di mettere da parte un po’ di denaro per vivere come volevo. A me piace conoscere, non possedere. Ho amici che mi prendono in giro e continuano a ripetermi da anni: ‘Avresti potuto fare questo o quello, avresti potuto sposare le donne più belle e ricche del mondo, e invece hai râté (sprecato) la tua vita!’. Ma io non credo affatto di aver fallito, se avessi desiderato soldi e successo mi riterrei un fallito, ma dal momento che non mi interessavano direi piuttosto di essere un vincente. Ho fatto ciò che desideravo e ho avuto l’opportunità di scegliere, non capita a tanti, non credi?”. Vogliamo concludere con un bel luogo comune, ovvero che i soldi non fanno la felicità? “Dici che sono banale? (risata esplosiva). Sai chi è il mio filosofo di riferimento?”. No, illuminami. “Karl Lagerfeld. Lo stilista. Diceva sempre che bisogna essere leggeri. Ecco, io cerco di esserlo. Non superficiale, leggero. Nella vita preferisco essere uno spettatore intelligente che un cattivo attore”.

 

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