L'autore americano Philip Roth (LaPresse) 

Un folle gioco di specchi

Io, Philip e lo svedese

Francesco Chiamulera

La vita non va come la letteratura, ci ricorda il biografo di Roth. Le accuse di molestie che hanno bloccato il suo libro, le polemiche sulla misoginia dello scrittore. Chiacchierata con Blake Bailey

"Baciami come baci la m-m-mamma”. “Philip non fece come lo Svedese. Si fermò un attimo prima”. Tutta la biografia di Philip Roth, forse tutta l’opera di Roth, e poi tutta la vicenda mediatica che ha avvolto in questi tre mesi l’uscita della biografia autorizzata di Roth, e alla fine tutta la tempesta che ha infuriato sulla vita dello scrittore della vita di Roth, si gioca su diaframmi sottilissimi come questo. Il crinale tra desiderio e realizzazione del desiderio, tra seduzione e repulsione, peccato e rinuncia, ma anche tra vita e letteratura, così vicine, così intimamente legate e reciprocamente compromesse, eppure infine appartenenti a due mondi distinti, è raffigurato dalla scena conturbante e problematica di “Pastorale americana”, capolavoro di Roth che come ha scritto qualcuno sono quattrocentocinquantotto pagine che si chiudono con un punto interrogativo. Quando Seymour “lo Svedese” Levov, in una torrida giornata al mare con la figlia undicenne Merry, al culmine di una strana, indicibile tensione tra i due, “eccitati dal mare mosso e dal sole cocente”, cede alla richiesta-ricatto emotivo della ragazzina che gli domanda un bacio. “Nel libro Merry è balbuziente, e dice ‘baciami come b-b-baci la mummummamma”, ricorda Blake Bailey.

 

“Lo Svedese è così scioccato dalla richiesta che risponde balbettando a sua volta, quasi imitandola: n-n-no. Ma poi è così sgomento dall’averla presa in giro che perde il controllo, e la bacia. E non se lo perdonerà più: un solo errore, e se ne rimprovererà per il resto della vita. È un’idea geniale”. Così il paradiso ricordato comincia a guastarsi, così Levov inizia la propria caduta; eppure Bailey è qui per ricordare il fatto ovvio che la vita non va come la letteratura e viceversa, perlomeno non è detto che lo faccia. Ce la mette tutta a ricordarlo anche di fronte alle accuse di molestie da parte di donne, tra cui coetanee del mondo editoriale ed ex studentesse, che gli sono piovute addosso con sincronia spettacolare nelle settimane in cui la sua biografia di Roth usciva negli Stati Uniti con Norton. Tutto bloccato, dopo che Bailey ci aveva lavorato per nove anni. Il 29 giugno il libro uscirà con altro editore, Skyhorse (in Italia è atteso con Einaudi), ma intanto il cortocircuito, di quelli che caratterizzano il nostro tempo, c’è tutto. Il sillogismo “Roth sta ai suoi libri come stava alla sua stessa vita, dunque il biografo di Roth deve stare alla propria come Roth stava alla sua, dunque non solo le accuse sono sicuramente fondate, ma Bailey copre le nefandezze di Roth al modo in cui copre le proprie nefandezze. Dunque cancelliamo la sua opera”. Eppure “nessuna di quelle accuse è mai approdata al livello giudiziario”, nota Bailey, “nessuna è mai diventata un’azione legale. Io ho negato tutto, e questo non significa che non abbia commesso errori che hanno provocato sofferenza a mia moglie e mia figlia. Ma non c’è nulla di illegale in quel che ho fatto”.

 

Norton intanto gli ha rescisso il contratto, negato le ristampe del libro e provato a ritirare le copie dal mercato, mentre il suo agente gli voltava le spalle. Il piccolo paradiso di questo affermato biografo – che ha cominciato la sua carriera con una fortunata biografia di Richard Yates, è passato per Charles Jackson e John Cheever e nel 2012 si è fatto audacemente avanti con Philip Roth – è crollato senza che ci fosse uno straccio di prova (ma la domanda come al solito è a monte: e anche ci fosse stata?). Così, al lettore-inquisitore contemporaneo che cerchi in quella scena di “Pastorale americana” un feticcio di evidenza che Roth fosse misogino, paternalista, quando non addirittura abusivo, incestuoso, amante delle minorenni, Bailey, che ha avuto accesso a quintali di documenti riservati di Roth, risponde: “La storia è basata su un aneddoto reale nella vita di Roth, ma nella vita andò diversamente. Si era nei primi anni Sessanta, lo scrittore tornava dalla spiaggia con Helen, la figlia anch’essa undicenne della sua prima moglie Maggie. Lei era nel suo costumino da bagno, lui l’aveva stretta tra le onde tutto il giorno, e, secondo quanto ha riferito la ragazza stessa, lei era molto precoce, consapevole della propria sessualità. Trovava Philip attraente, c’era tensione tra i due. Helen non ricorda quel particolare episodio, ma riconosce apertamente di avere flirtato con Philip quand’era giovanissima. Quanto a Philip, ricordava bene: certo, mi disse, ‘la tensione c’era, ma non l’ho mai baciata come baciavo la sua mamma’. Quando molti anni dopo pensò a come il povero Svedese avrebbe cercato di spiegarsi la disgrazia di Merry, a dove sarebbe andato a cercare il momento in cui le cose avevano cominciato ad andare male, trovò che sarebbe stato naturale per un uomo decente e retto come Levov biasimare sé stesso. Ma ripeto, era finzione letteraria”.

 

Il modo in cui Bailey procede qui è lo stesso che impiega nelle 898 pagine della mastodontica e gustosa biografia: asciutto, antiretorico, lineare. Pieno di rispetto per il mandato che Roth gli diede scommettendo su di lui, sapendo che la propria morte si avvicinava e che dunque non ci sarebbe stato tempo per un incarico a un nuovo biografo, se Bailey, come Ross Miller prima di lui, lo avesse deluso. “Lo incontrai nel suo appartamento nell’Upper West Side. Mi disse: perché un gentile dell’Oklahoma dovrebbe scrivere la mia biografia? Gli risposi: be’, non sono un bisessuale alcolizzato con antenati puritani, ma sono comunque riuscito a scrivere la biografia di John Cheever”. “Non voglio che mi riabiliti”, disse Roth a Bailey all’inizio delle loro conversazioni, “mi basta che mi renda interessante”. Bailey ha eseguito. “Nella scrittura sono un empirista. Mi limito a raccogliere delle prove”. Le prove, in questo caso, sono sterminate, Bailey non lo dice che Roth era un control freak, uno con una nevrosi da controllo leggendaria, ma come definire altrimenti uno che, quando dà in mano a Bailey tutte le carte legali del suo divorzio con Claire Bloom (che di Roth aveva detto peste e corna in “Leaving a Doll’s House”), allega un documento di decine di pagine intitolato “Appunti per il mio biografo”, con le istruzioni su come leggere e interpretare i documenti medesimi? Come definire altrimenti uno che, al momento di conferirgli l’incarico, gli lascia un documento, stavolta di pagine settecento, riguardante il biografo precedente Miller, intitolato “Appunti su un diffamatore”? “Miller aveva terrorizzato Roth. Nel raccontare la sua vita aveva dato, se possibile, troppo spazio al sesso. Roth diceva: ‘quella che voleva scrivere Miller su di me avreste potuto intitolarla: Storia del Mio Pene’”.


Bailey avrà come tutti gli autori i suoi pregi e i suoi difetti, ma gli riesce assai bene una cosa: restituire con stile sobrio e con l’imperativo della fedeltà molta bellezza e civiltà della East Coast del tardo Novecento che Roth incarnò. Tra i sobborghi ebraici allegri e vitali di Weequahic, Newark, il New Jersey innocuo e piccoloborghese coi neighborhood di villette monofamiliari dal prato verde tirato e le serate estive coi vicini che preparano la limonata, e poi la Manhattan di Kips Bay, la disinvoltura ostentata di donne libere, colte e provocanti, l’ascesa di una generazione di intellettuali realmente postbellica che batteva forsennatamente su macchine da scrivere Olivetti, l’intensa frequentazione dell’Europa di qua e di là della cortina di ferro, l’amore per i diritti civili fino alla difesa assoluta del dissenso praghese, il sesso come forza catalizzante e liberatoria finalmente dichiarata in letteratura. E quelle stagioni magiche a Martha’s Vineyard, che negli anni Sessanta grazie a Roth, Saul Bellow e altri si scrollava di dosso la pesantezza e la rigidità wasp, e con lei mezza America. “Bellow era l’eroe e il modello della vita letteraria di Philip, il suo autore americano di riferimento insieme a Faulkner. Bellow gli aveva mostrato che non hai bisogno di tenere sotto il dizionario Fowler’s Modern English quando scrivi, che puoi parlare con la tua voce, fare battute, scrivere senza ossessionarti in anticipo della forma che darai alla storia. Che puoi raccontare semplicemente le cose che sai e risultare divertente e interessante”.

 

Roth idolatrava Bellow al punto che quando la vedova di Saul gli donò il cappello che l’autore di “Herzog” e di “Augie March” aveva indossato a Stoccolma per il conferimento del Nobel, Roth lo depose sacralmente sulla cassa di uno stereo nel suo appartamento, rifiutando di indossarlo: “no, sulla mia testa non ci sta. Lui era uno scrittore molto migliore di me”. E non era solo questione di Nobel, quello conquistato da Bellow (che riguardo ai premi amava dire “il bambino che c’è in me è deliziato, l’adulto che c’è in me è scettico”) e negato a Roth. Era che nei primi anni Sessanta Bellow come Roth e altri era stato sul fronte di una nuova, disinibita generazione americana, che per farsi largo, per impiegare la propria voce, aveva dovuto sgomitare. Come si spiegano sennò le accuse che vennero nei primi anni a Roth – a Roth! – di essere un self-hating Jew, un ebreo odiatore di sé? “Bisogna ricordare lo spirito del tempo”, dice Bailey. “Quando i suoi primi racconti, come ‘Defender of the Faith’ contenuto in ‘Goodbye Columbus’ vennero pubblicati, si era nel 1959. ‘Exodus’ di Leon Uris, romanzo a sfondo epico sulla fondazione dello stato d’Israele, era appena uscito, il Diario di Anna Frank debuttava a Broadway, ‘La notte’ di Elie Wiesel usciva nell’edizione inglese. La coscienza e l’orrore dell’Olocausto erano vivi nella gran parte degli ebrei americani. I quali, in un tempo in cui l’antisemitismo era ancora diffuso negli Stati Uniti, erano comprensibilmente sensibili a come l’ebraismo veniva raffigurato nella cultura. Non ci vuole un indovino per capire che ansia potesse provocare in molti di loro il fatto che un narratore già noto come Roth scrivesse di una ragazza ebrea che fa sesso prematrimoniale usando un diaframma, o del soldato Sheldon Grossbart che usa il proprio ebraismo per manipolare sordidamente gli altri”. Gli vennero addosso critiche e reprimende. “Ma quelli che accusavano Roth di antisemitismo ignoravano, o sceglievano di ignorare, che per ogni personaggio ebreo cattivo che si trova nelle sue storie ce n’è uno buono”. Come rispose lo stesso Roth al rabbino Rackman che lo accusava pubblicamente nel 1959: “Il mio personaggio Grossbart non rappresenta tutti gli ebrei, al modo in cui Amleto non rappresenta tutti i danesi, Otello tutti i neri, Raskolnikov tutti i russi”. Roth rimase di queste idee anche molti anni dopo. C’è un episodio fantastico riferito da Bailey nella biografia: un giornalista del Guardian, riferendosi al ‘Complotto contro l’America’, un giorno dice a Roth, “è la sua grande storia ebraica”. Roth risponde: “è il mio libro più americano. Lei direbbe mai a Ralph Ellison che ‘Uomo invisibile’ è il suo libro più negro”? Il giornalista osserva che Roth è “estremamente difficile” da intervistare. Roth scoppia a ridere: “non sono stato messo su questa terra per semplificare la sua vita”.


Dal rapporto con l’ebraismo all’impegno a favore dei praghesi della Primavera, passando per John Updike e William Styron, e poi per i presidenti americani, da Nixon a Obama a Trump (“Philip lo disprezzava, pensava che non fosse neanche umano, lo considerava un opportunista senza scrupoli, un bugiardo, un bullo, un narcisista maligno, peggio perfino di Charles Lindbergh, l’aviatore filonazista, almeno quello aveva dei principi, anche se orribili”), Bailey torna infine alle donne. Le molte donne, non solo le due mogli, non solo le amanti Ann Mudge, Barbara Sproul, Lucy Warner con la sua bellezza esorbitante e le sue chiacchierate su Italo Svevo, Alice Denham che di lui scrisse nel memoir “Sleeping With Bad Boys”: “Philip era un demone del sesso, era fuoco e fiamme”, ma anche quelle con cui Roth si comportò malissimo, anche una certa Louise, per dire: una sua ex studentessa che lo adorava e che Roth non sopportava più, e alla quale, quando la cacciò di casa, lo scrittore disse soltanto: “Puoi lasciare le chiavi accanto alla porta. Grazie”. Ma contro le accuse di misoginia rivolte a Roth, contro il manicheismo bidimensionale, Bailey oppone ancora una volta le sfumature: “Una delle semplificazioni ricorrenti su Roth è che la prova del suo atteggiamento verso le donne sia in certi personaggi femminili terribili dei suoi libri. Ed effettivamente erano terribili Maureen Tarnopol, la moglie di Kepesh, Lucy del romanzo ‘Quando lei era buona’, e così via. Ma ci sono altrettante donne simpatiche nei suoi libri, Brenda Potemkin, Maria Freshfield e tante altre. Lo stesso vale per la sua vita reale. Sì, capitava che Philip oggettificasse le donne, che non fosse loro fedele – non aveva neanche un osso monogamo in corpo – che tendesse ad essere paternalistico con alcune: una su tutte, Mia Farrow, che pure lo adorava. Ma detto questo, ebbe amicizie di una vita, piene di rispetto, con formidabili donne emancipate e intelligenti. C’erano sei o sette o otto ex amanti al suo capezzale quando è morto. Una di loro aveva 86 anni e aveva avuto bisogno di un assistente per arrivare lì. Ma c’era. Se così tante persone che ti hanno amato vengono a dirti arrivederci vuol dire che hai fatto qualcosa di buono nella vita. Philip Roth era una persona per la quale era difficile non provare della tenerezza. Era incapace di dissimulare la propria umanità”.

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