Un gruppo di pensionati si riunisce per cantare canzoni rivoluzionarie dell’Armata rossa nella città di Zunyi, nel sud-ovest della Cina (foto Ap/Emily Wang) 

Non solo “1984”

L'altro libro di Orwell. La fattoria degli inutili intellettuali

Alberto Mingardi

Contesta e rifiuta tutti i vezzi, scrive non per compiacere ma per farsi capire. Il sogno di un “socialismo democratico” contro i gulag e Pol Pot. L’elogio della sporcizia sulle mani dei lavoratori

Per gli intellettuali sovietici, leggere 1984 a inizio anni Cinquanta doveva essere una strana esperienza. “Si stupiscono che uno scrittore mai stato in Russia abbia potuto mettere insieme una tale quantità di osservazioni esatte”, scrive Czeslaw Milosz ne La mente prigioniera.

 
Il libro di Duncan White, Cold Warriors, si apre con questa scena: è il 1955, un gruppo “finanziato segretamente dalla Cia” lancia “un’arma segreta” in territorio comunista. Dalla Germania ovest, gonfiano “grossi palloni, li armano con il loro carico bellico, aspettano i venti più favorevoli e li lanciano verso la Polonia”. Il carico è a suo modo esplosivo: sono libri. “Al culmine della Guerra fredda, la Cia faceva piovere copie della Fattoria degli animali di George Orwell dai cieli comunisti”.

  
Quest’anno i diritti d’autore di Orwell sono scaduti e una grandinata di nuove edizioni si è più modestamente abbattuta sulle nostre librerie. Per quanto l’aggettivo “orwelliano” sia usato con una certa generosità sulle pagine dei giornali, soprattutto nei paraggi di articoli che lamentano l’eclissi della privacy e le possibilità di sorveglianza fornite dalle nuove tecnologie, non è immediatamente chiaro perché si debba leggere Orwell, oggi. Per la qualità letteraria? Per Joseph Epstein, “più che un artista, era uno scrittore di professione”. Passando in rassegna le ragioni che portano uno scrittore a scrivere, con spietata onestà Orwell stesso metteva al primo posto l’egocentrismo, il desiderio di “apparire intelligente” e far parlare di sé. Poi lo slancio estetico, il gusto di incastrare bene le parole. La spinta storica: registrare i fatti a uso dei popoli. E infine la militanza politica, il desiderio di contribuire a spingere il mondo in questa o quella direzione. “Ripensando al mio lavoro vedo che le volte in cui non avevo uno scopo politico ho sempre scritto libri senza vita e sono stato indotto a inserire passaggi elaborati, frasi prive di significato, aggettivi decorativi e perlopiù sciocchezze”. Orwell andrebbe letto allora come scrittore politico? Sì, senz’altro, anche: Eric Blair era un editorialista graffiante e molto di quanto ha scritto, se ha perso la patina luccicante dell’attualità, assume il fascino della curiosità storica. 

 
Ma per leggerlo come scrittore politico, bisogna infilarsi nei cunicoli del suo pensiero, mettere a fuoco i contorni del suo “socialismo democratico” che sono più sfumati di quel che sembra. In The Road to Wigan Pier, dice che il socialismo alla fine è “giustizia e la moralità comune”. 

 
Come si arriva, però, di lì a 1984? Si rischia di scivolare in una trappola ideologica. Nei trent’anni che sono trascorsi dal crollo del Muro, la sinistra è passata dalla vergogna alla favola: la vergogna di aver aderito a un sistema di idee che ha coinciso con alcuni dei più terribili regimi del Novecento (da Stalin a Pol Pot) ha ceduto il passo a una narrazione dalle tinte pastello, per cui il socialismo ideale nulla avrebbe da spartire col socialismo reale. I titoli di coda di un film di un paio d’anni fa, il Giovane Marx, per presentare Karl Marx come santo patrono di tutte le ribellioni proponevano le immagini più diverse: fra cui, per paradosso, quelle del muro abbattuto. Il santino di Orwell torna utile: non è forse la prova che si può essere socialisti, considerare l’economia pianificata un progresso (lo strumento per eliminare sovrapproduzione e disoccupazione) e combattere il totalitarismo?

 
Se non fosse interessata, questa lettura parrebbe ingenua. Avrà avuto torto Norman Podhoretz quando, nel 1983, scrisse che se fosse rimasto in vita Orwell avrebbe compiuto lo stesso tragitto intrapreso da lui e da altri compagni trotzkisti: negli anni Ottanta si sarebbe trovato, cioè, al fianco di Ronald Reagan e contro “l’impero del male”. Christopher Hitchens ricordava che Orwell mostrava sì alcune tendenze conservatrici, ma sul piano culturale. In politica, se non amava la leadership di Clement Attlee la contestava però da sinistra, non da destra.

 
Eppure Animal Farm e 1984 sono stati, per anni, libri proibiti a sinistra, non a destra. Come ha ricordato Simonetta Fiori sul Venerdì di Repubblica, per Togliatti Orwell era “un’altra freccia aggiunta all’arco sgangherato della borghesia anticomunista”. Victor Gollancz, il grande editore della sinistra britannica, masticò amaro per la seconda parte di The Road to Wigan Pier e rifiutò Animal Farm. “Ora che hanno dato un premio governativo a Ezra Pound e che George Orwell è diventato un best seller, possiamo dire di aver toccato il fondo”, disse un marxista americano.

 
E la Cia che faceva cadere dal cielo Animal Farm sperando che qualche copia rimanesse in mano ai polacchi e ne nutrisse la diffidenza per il regime, forse non aveva fra i suoi ranghi i più avvertiti biografi di Orwell ma avrà ben avuto un obiettivo, circa l’effetto che intendeva produrre fra i possibili lettori.

 
Il socialismo di Orwell, del resto, è ciò che lo unisce pressoché a tutti gli intellettuali della sua generazione. Ciò che fa uno scrittore di rango non può essere quel che l’accomuna ai suoi contemporanei, ma più probabilmente ciò che lo distingue.

 
Che cosa distingue, allora, Orwell da tanti altri scrittori politici, in che cosa si manifesta la sua differenza dai tanti socialisti, più o meno democratici, che in Urss ci andavano in pellegrinaggio? Che Eric Blair fosse un intellettuale engagé non c’è dubbio. Vale però la pena di chiedersi che razza d’intellettuale fosse. Era un intellettuale anti-intellettuale. 

 
La sua stessa prosa, così artigianale, nel senso di un mobile intagliato da mani esperte e callose, nel senso di un prodotto realizzato seguendo regole antiche, rifiuta tutti i vezzi dell’intellettuale. Il gusto della citazione per la citazione, il periodo lungo e forbito, le circonlocuzioni ariose, nulla di questo ha casa negli articoli e nei libri di Orwell.  Ogni parola è al suo posto non per compiacere chi l’ha scritta ma perché serve a dire qualcosa. Il vero intellettuale (in Italia è vero più che altrove, ma gli esempi non mancano anche nel mondo anglosassone) non scrive per farsi capire: scrive per farsi applaudire. Il suo segreto è anzi l’essere volutamente oscuro, come se si dovesse pagar per un pedaggio, per accedere al pensiero. Che l’oscurità sia sintomo di profondità è una postura che gli intellettuali hanno assunto con una tale convinzione, da persuaderne gli stessi lettori. Sono in molti che, quando si avvicinano a un autore, credono che se riescono a comprenderlo alla prima lettura, questi non può essere davvero più intelligente di loro. 

 
Nel 1916 Orwell fu uno dei quattordici ragazzi che, in tutta l’Inghilterra, riuscirono a vincere una borsa di studio per Eton. Poi scelse però di non andare all’università, né Cambridge né Oxford, per prendere la strada del civil service e arruolarsi nella polizia imperiale in Birmania. Attanagliato dal senso di colpa per essere nato nella “lower-upper-middle-class”, cercava espiazione? E’ difficile non pensarlo, leggendo Orwell, ma prima di mettere le mani nella sua testa giocando allo psicologo dilettante vale la pena di considerare i fatti: dalla Birmania alla Catalogna, egli era un formidabile collezionista d’esperienze. Per provare a capire l’altro, per cercare di mettersi nelle sue scarpe, non si può restare a casa, nel tepore del proprio studio (è per questo che dal lockdown non potevamo uscire migliori). Il desiderio di capire segna tutta l’opera di Orwell. Al quale non mancava certo il gusto della provocazione né quel senso del ritmo che ha sempre il grande scrittore. Ma che scrive in un inglese scabro, con l’obiettivo di farsi capire. 

 
L’anti-intellettualismo di Orwell emerge anche dal suo libro per certi versi più impegnato: The Road to Wigan Pier, una discesa agli inferi della classe operaia, forse la più famosa dopo The Condition of the Working Class in England di Engels. A molti resta impresso quanto Orwell scrive sulla sporcizia, come delle classi lavoratrici un borghese quand’anche decaduto non possa detestarne l’odore. Orwell s’affanna, deve farsi forza, per convincersi che “il prezzo della libertà non è tanto l’eterna vigilanza, quanto la perpetua sporcizia”. Altri ricordano le sferzate al movimento socialista, si nota “la prevalenza di squilibrati ogniqualvolta i socialisti si riuniscono. Talvolta si ha l’impressione che i semplici termini ‘socialismo’ e ‘comunismo’ attraggano con una forza quasi magnetica ogni vegetariano, nudista, portatore di sandali, maniaco sessuale, quacchero, ciarlatano della ‘medicina naturale’, pacifista e femminista d’Inghilterra”. Il socialismo sarebbe pregiudicato dall’essere in realtà una dottrina della classe media, che ne enfatizza i tratti decadenti.

 

“In effetti, si direbbe che Orwell auspicava il socialismo, ma a patto che non fosse governato dai socialisti”, ha annotato Robert Conquest

 
Ciò che invece più andrebbe ricordato di quel libro è come l’autore si sforzi, magari senza farcela appieno, di mettersi nei panni delle persone che racconta. Per Orwell la classe operaia non ha nulla dell’aggregato statistico, non è una forza storica in attesa del suo momento, è fatta di individui, individui che vivono, mangiano, puzzano come tutti gli altri e che legittimamente conducono la loro vita a proprio modo. La commozione innanzi alle difficoltà non diventa mai vittimismo. Soprattutto, qualsiasi cosa il peculiare socialismo di Orwell possa offrire agli operai, non coincide col dar loro una vita diversa da quella che vorrebbero fare. Lo stesso Orwell che lamenta il fatto che ormai si mangia male, che le persone sono abituate al cibo in scatola e al fish ‘nd chips, comprende come la diffusione di tanti modesti beni voluttuari ha migliorato la vita delle persone. “Le due cose che hanno probabilmente fatto la maggiore differenza sono il cinema e la produzione di massa di bei vestiti a basso prezzo dopo la fine della guerra”.

 
“Evidentemente, l’introduzione di lussi a buon mercato dopo la guerra è stata un gran bene per i nostri potentati. E’ molto probabile che la combinazione di fish-and-chips, calze di nylon, salmone in scatola, cioccolata a basso prezzo, i film, la radio, il buon tè forte e il Totocalcio abbia prevenuto una rivoluzione (…) La cosa è avvenuta, ma in seguito ad un processo inconscio, l’interazione, del tutto naturale, tra il bisogno di un mercato da parte dei produttori e il bisogno di palliativi a buon mercato da parte di una popolazione ridotta quasi alla fame”.

  

Due artisti della Germania ovest si esibiscono davanti al muro di Berlino, il 15 novembre 1989 (foto Ap/Thomas Kienzle) 
   
Un mezzo evviva per il capitalismo? Orwell non si sarebbe mai espresso in questi termini, dal momento che nella parola capitalismo (e nelle parola imperialismo, nella parola nazionalismo, e anche nella parola comunismo) vede solo sfruttamento e prevaricazione. In una recensione a The Road to Serfdom di Friedrich von Hayek, l’autore di 1984 scrive che “un ritorno alla ‘libera’ concorrenza significherebbe per la gran massa della popolazione una tirannide forse peggiore – perché più irresponsabile – di quella dello Stato”.

 
Eppure, nella stessa recensione, riconosce che “il socialismo assegna necessariamente il potere ad una ristretta cerchia di burocrati che, quasi immancabilmente, saranno individui che desiderano il potere fine a se stesso e che non si fermeranno davanti a nulla pur di conservarlo (…) Nella parte negativa della tesi del Professor Hayek vi è molto di vero. Non si dirà mai abbastanza spesso – in ogni caso, non viene affermato abbastanza spesso – che il collettivismo non è intrinsecamente democratico, ma che, al contrario, esso offre ad una minoranza tirannica poteri quali gli inquisitori spagnoli non avrebbero mai sognato”. E aggiunge: “Molto probabilmente, il Professor Hayek ha ragione anche nel dire che in questo paese gli intellettuali hanno una mentalità più totalitaria rispetto alla gente comune”.

 
Con una mezza citazione di The Road to Wigan Pier, Robert Conquest dirà: “In effetti, si direbbe che Orwell auspicava il socialismo, a patto che non fosse governato da socialisti”. 

 
Un importante storico una volta osservò che qualsiasi aumento del reddito disponibile degli operai valeva ben poco, se quegli stessi operai se lo bevevano. Il bravo intellettuale impegnato di solito immagina che l’emancipazione delle classi subalterne le avvicini a una vita diversa: alla vita che fa lui. 

 
George Orwell no e anche in questo sta la sua grandezza. Il suo manifesto per un socialismo “inglese”, The Lion and the Unicorn, è a suo modo un’ode all’uomo comune. Mentre le classi dominanti britanniche sono viste come una sorta di anacronismo dai giorni contati (anche se “considerata nella sua funzione di gruppo dominante – e se la si guarda semplicemente da un punto di vista negativo, liberale – la classe al potere in Gran Bretagna aveva qualche aspetto positivo. Era certamente preferibile ai veri esponenti della modernità, i nazisti e i fascisti”), l’inglese ordinario è fondamentalmente perbene e le sue abitudini sono il retaggio di una storia che non è solo una storia di sopraffazione.

 
Le parole, per Orwell, devono preservare la memoria e difendere la verità. Ma possono anche fare esattamente l’opposto. Confondere, non chiarire. L’inglese marxista, scrive nella sua critica del pamphletese, “è uno stile di scrittura che con l’inglese vero e proprio ha lo stesso tipo di rapporto che esiste fra comporre un puzzle e dipingere un quadro. Si tratta solo di incastrare una serie di pezzi già pronti”. Anziché pensare, il linguaggio politico diventa un surrogato del pensiero. Guai agli eufemismi, che servono a omettere la brutalità del potere. E guai allo stile tronfio, che cerimonializza la politica per edulcorarla. Guai soprattutto all’“invasione del cervello da parte di espressioni già pronte all’uso” che è onnipresente, ai tempi di Orwell e ancor peggio ai nostri, nella lingua dei libri bianchi e in quella degli economisti.

 
Questa attenzione per una “ecologia linguistica” (l’espressione è di Gianni Canova) è una battaglia di retroguardia, ai nostri tempi ancor più che ai suoi: quella per il buon uso delle parole. La sua passione politica è inestricabile dall’ossessione linguistica – e per ottimi motivi. Nato nel 1903, Orwell era come tutti figlio delle sue circostanze. Egli stesso ne dà il più delle volte una rappresentazione a tinte fosche, raccontando il classismo della società inglese. Ma, come ha scritto Jonathan Rose, “è indicativo il fatto che l’autore di 1984 abbia trascorso l’infanzia in una società straordinariamente liberale e rispettosa della legge”. La società inglese,  in The Lion and Unicorn, coltivava “il rispetto per il costituzionalismo e per la legalità, la fede nella ‘legge’ come qualcosa che si eleva al di sopra dello Stato e dell’individuo, qualcosa che è crudele e stupida, ovviamente, ma che comunque rimane incorruttibile”. 

 
La sua grande distopia, 1984, attinge a fonti diverse. Riesce a penetrare la mente sovietica e a raccontarla. Non era però una profezia: accentuava e portava alle logiche conclusioni, semmai, tratti esibiti da tutti gli Stati novecenteschi, inclusa la stessa Inghilterra. E’ stato sottolineato da molti come un’ispirazione fondamentale di Orwell sia la Prima guerra mondiale. Per gli inglesi aveva significato l’introduzione della carta d’identità, della coscrizione, della legge marziale, del “Defence of the Realm Act” che impose il razionamento e i prezzi calmierati, assunse il controllo delle industrie belliche, perseguitò la stampa e limitò gli orari di apertura dei pub. Nel grande e nel piccolo, lo Stato moderno cominciava a mostrare un volto diverso. Stefan Zweig abiura il socialismo per la nostalgia della libertà, ne Il mondo di ieri, Tolkien immagina l’Inghilterra della sua infanzia, la Contea, ghermita da Saruman. 

 
Orwell è un scrittore politico e un uomo dei suoi tempi, si immerge in eventi drammatici, individua nel ricorso alla propaganda un elemento caratteristico di tutti i regimi. Le parole smettono di descrivere la realtà, la ingarbugliano. Esse sono il primo strumento del potere. Non si sa se George Orwell avesse letto David Hume ma anch’egli, come il filosofo scozzese, doveva trovare “sorprendente” la facilità con cui la maggioranza si fa governare da una minoranza e concludere che alla fine ogni governo si fonda sull’opinione: tanto i governi i più “liberi e popolari”, quanto i “più dispotici e bellicosi”.

 
“Perché un sistema totalitario possa funzionare con efficienza non basta che tutti siano obbligati a lavorare per gli stessi fini. E’ essenziale che la gente arrivi a considerarli come fini propri”. Non lo scrive Orwell, ma Hayek, in un capitolo di The Road to Serfdom intitolato: la fine della verità.

 
La propaganda e l’apparente accordo su un “codice etico esaustivo, su un sistema onnicomprensivo di valori” sono la premessa di quel dispotismo totale che il Novecento ha sperimentato. Per imporre quel sistema onnicomprensivo bisogna pensare l’idea che le vite vissute al modo degli altri sono vite sprecate. Questa è la grande hybris degli intellettuali e George Orwell lo sapeva e fece di tutto per diventarne immune. “Perché ci ha insegnato cosa significava il reale”, scriveva Conquest in un poemetto su Orwell, “l’inverno feroce ha meno salda la presa”. Ma “non tutti ringraziano per il suo aiuto, si scopre, / Perché come lo odiavano, lui che aveva sbarazzato / Il conforto di un rapido mito correttivo / Contro il mondo freddo e le loro menti più fredde”.

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