Paolo Conte, in concerto a Montreux, in Svizzera, nel 2018 (Ansa)

Diaul Ros

Il Conte di Asti

Marco Ballestracci

Il campione del ciclismo Giovanni Gerbi e l’autore di “Via con me”. La città dove nasce il binomio ciclismo e parole, “come gregari in fuga”

Sono chiacchiere fatte a mezza voce nel paesotto accanto, finanche nel capoluogo di regione, ma che è necessario non si sappiano in giro, perché per nulla al mondo si deve venir meno al proverbiale garbo – o spirito – del luogo. Insomma si sussurra che Asti sia una città in cui Kant si sarebbe ambientato senza affanni, perché l’ora del giorno – soprattutto nei dì di festa – può essere regolata con una certa precisione sulla base dell’affollamento di Piazza San Secondo o, con maggior puntualità, sulla base del senso di marcia della passeggiata degli astigiani. Insomma il paradigma d’una città molto tranquilla e sin troppo prevedibile. Eppure i primi due astigiani che vengono in mente non corrispondono a questo archetipo.

 

Vittorio Alfieri condusse una vita errabonda e pre-romantica e Giovanni Gerbi è considerato tuttora un atleta niente affatto prevedibile, anzi un soggetto che rendeva la vita sportiva altrui alla mercé di rovesci improvvisi e poco piacevoli. Perciò quando, nel 1979, in qualche radio privata – perché la radio pubblica era ancora un poco vischiosa – s’ascoltò la voce di Enzo Jannacci cantare: “Coi francesi che s’incazzano, che le palle ancora gli girano”, tutti immaginarono che fosse farina del cantautore milanese che aveva le phisique du role per prodursi in un simile calcetto sugli stinchi e, se non era sua, era certamente di qualcun altro che stava in una città, magari “col seno sul piano padano e il culo sui colli”. Comunque non certo un piemontese, perché per quanto Buscaglione avesse osato – e musicalmente aveva osato molto – non era mai mancato dell’ancestrale cortesia sabauda. Chi poteva essere stato se Jannacci non c’entrava? Certamente qualcuno a cui non era andata a genio la grandeur francese, magari un parente d’un veneto o d’un siciliano che coi transalpini avevano a che fare per via che, dopo la guerra, c’erano dovuti andare per forza a lavorare, che a casa loro non si batteva chiodo.

 

 

Neanche in questo senso poteva essere un piemontese, perché con la sola eccezione dei vercellesi che erano gli unici che, in qualche modo, avevano condiviso il destino ramingo dei veneti e dei siciliani, il resto della regione importava manodopera e non la esportava. Poi nei confronti dei transalpini non c’era insubordinazione, piuttosto come dicono i romani: “L’unico risentimento che i piemontesi hanno nei confronti dei francesi è che vorrebbero essere francesi, ma non lo sono”. Che si ricordi, l’unico gesto di ribellione del Piemonte nei confronti della Francia risale al 23 luglio del 1956 quando il Tour de France oltrepassò il confine italiano durante la Gap-Torino. Qualche buontempone che attendeva i corridori a Cesana Torinese, alla fine della discesa del Monginevro, diede informazioni sbagliate a tutte le vetture che montavano una targa francese, così si formò una carovana peregrina che invece di proseguire verso il Sestriere insieme alla corsa, puntò nuovamente verso il confine lungo la strada per Oulzio e il Moncenisio. Quando, dopo un po’, i suiveurs s’accorsero dell’inganno erano tutti imbottigliati a Chiomonte e il coro dei nom d’une pipe si sentì chiaramente sino a Modane e oltre. Alcuni raccontano persino che ci siano ancora automobili che cercano disperatamente, dal 1956, gli alberghi a Torino in cui sono ospitate la nazionale francese e le rappresentative regionali (il Tour sino al 1962 è stato disputato per squadre nazionali), anche se ormai Roger Walkowiak e Gilbert Beauvin sono passati a miglior vita.

 

Se effettivamente, come le voci bene informate mormorano, l’autore de “Coi francesi che s’incazzano, che le palle ancora gli girano” è davvero astigiano, era certamente uno di quei buontemponi che, così per divertimento, avevano disguidato i francesi, oppure è solo un tizio un poco particolare a cui le biciclette piacciono assai. Tuttavia, alla fine delle considerazioni, se lo sconosciuto fosse davvero di Asti, ha senza dubbio molto più incarnato l’ascendente di Giovanni Gerbi che quello di Vittorio Alfieri. Tolti i mattacchioni del 1956 non è affatto detto che in Piemonte siano proprio tutti quieti e cortesi. Per esempio a Torino ci sono anche le signore e i signori del libro “La Donna della Domenica”, ma d’altro canto Torino è una città in cui è arrivata gente da ogni parte d’Italia. Si possono incontrare persone che, dopo tanti anni, parlano tra di loro ancora pugliese, siciliano e veneto, persino nelle vie più nobili: in Piazza San Carlo o in Via Po. Tuttavia Asti è un’altra cosa. È un Piemonte più riservato e modesto, qualità che insieme si congiungono armoniosamente nella pudicizia.

 

Eppure la copertina più impudica negli scaffali dei negozi di dischi nel 1981, quella con la ragazza a seno scoperto e gli occhiali da sole, che, ringraziando Dio, non fa vedere il pube, si sussurra sia proprio del tizio che aveva scritto “Coi francesi che s’incazzano, che le palle ancora gli girano” ed è proprio la licenziosità dell’immagine a provocare lo squarcio sul consueto sipario di riservatezza che contraddistingue il Piemonte. Perciò adesso il suo nome è noto a tutti: si chiama Paolo Conte ed è davvero di Asti. Le prove schiaccianti che conducono a lui sono dentro a due canzoni, perché, come tutti nella sua città, non riesce proprio a dimenticare la Francia e men che meno la sua capitale. Come i triestini guardano con le lacrime agli occhi a Vienna, così quelli che stanno più a ovest d’Alessandria sospirano per Parigi. Inventarsi un “Dis donc Madeleine…” è proprio da piemontese che, a Montparnasse, vuol confondersi tra i parigini e l’ultima canzone, “Parigi”, sembra un saluto nostalgico e disilluso di chi, da lì a poco, deve salire sul treno alla Gare du Nord, per poi scendere a Porta Susa e prendere il diretto per Genova, che porta in fondo alla campagna.

 

D’altro canto si racconta che codesto Paolo Conte sia pure avvocato e che la laurea l’abbia conseguita, la mela non casca mai troppo lontano dal melo, a Parma, che tutti in Emilia, e più sontuosamente i parmigiani, chiamano la “Piccola Parigi” di Maria Luigia d’Asburgo, la femme de Napoleon. Al contempo, dietro al seno nudo della donna con gli occhiali da sole c’è pure della musica argentina, quella che laggiù chiamano milonga, e forse non è un caso che il papa che c’è adesso, da parte di padre, abbia il nonno e bisnonno di Asti, che dimostra quello che tutti gli appassionati di orchestre sanno bene. Che la musica funziona per “danza e contradanza”: tutto ciò che va, dopo un po’ finisce sempre per tornare. Poi più in fondo c’è del jazz mescolato all’italiano e anche questa volta Parigi deve per forza sbucare nel gioco. Perciò c’è da credere che siano stati Dexter Gordon e Bud Powell – gli spiriti di “Our Man In Paris”– a instillargli il ritmo da locomotiva di “Boogie” e, perché no, pure un cartone animato – l’Isola del Jazz di Silly Simphonies – proiettato tanti anni fa in qualche vecchio cinema di Asti, che ora è certamente diventato un grande magazzino a due piani.

 

Tuttavia ancora nessuno direbbe che questa roba appartiene proprio a un astigiano finché il cantante – anche se chiamarlo “cantante” è un poco esagerato – non fa saltar fuori un verso fatidico. “I sax spingevano a fondo come ciclisti gregari in fuga e la canzone andava avanti sempre più affondata nell’aria”. In mezzo alla protervia del ritmo ecco apparire ancora un quartetto di ciclisti che spingono come forsennati sui pedali. Allora ogni incertezza scompare: o Paolo Conte è uno di quei buontemponi che avevano disguidato i francesi nel luglio del 1956 oppure, la strofa non può mentire, le biciclette devono piacergli davvero. Insomma tutte le nuances contenute nel disco dalla copertina osé confermavano ancora che il suo genius loci era Giovanni Gerbi piuttosto che Vittorio Alfieri e quest’ascendenza, alla fine, l’aveva ammessa davanti a tutti i suoi concittadini, dedicando al ciclista d’antan una canzone. La leggenda di Giovanni Gerbi è pari a quella di Phileas Fogg.

 

È una raccolta di vicende bizzarre che sono il perfetto canovaccio per l’inventore di storie borbottanti come quella dei “francesi che s’incazzano” e dei “sax che spingevano a fondo come ciclisti gregari in fuga”. Un encomiabile bazar di qualità personali da far brillare in una canzone in maggiore, col piano stride e, magari, una musette fabbricata a Stradella, che per un soffio malaugurato si trova in Lombardia piuttosto che in Piemonte. Gerbi era stato un grande corridore, ma anche il mandante di lanciatori di chiodi sui macadam non appena fosse transitato in testa alla corsa. Era stato il trionfatore di gare leggendarie, ma pure pescato qualche volta a salire su (o a scendere da) un treno, lui e la sua bicicletta, per accorciare un poco il percorso. Fu il primo italiano a correre il Tour de France, nel 1904, ma soprattutto è rimasto nella leggenda come il Diavolo Rosso, soprannome guadagnato quando – con la sua divisa scarlatta – s’introdusse all’incontrario, in sella a una Maino, in una processione durante la Coppa Savona del 1906. Quell’irruzione spaventò a morte i fedeli di Castelnuovo Bormida e agitò i portantini della statua della Vergine che, per il turbamento, fecero oscillare pericolosamente la santa immagine. Fu allora che l’arciprete lo battezzò gridando l’invettiva “Diaul Ros!”.

 

Tuttavia, nonostante l’abbondanza di appigli coloriti, nella canzone dedicata a uno dei genius loci di Asti non appare nessun vorticoso scapicollamento, nessun capostazione che osserva sorpreso l’intervento sanzionatorio dei commissari di gara e neppure preti che lanciano imperituri anatemi. Piuttosto s’incontra un Giovanni Gerbi che, alla fine della carriera, asseconda l’invito di alcuni vecchi ammiratori affinché si fermi un poco per sorbire un’aranciata, che tanto la corsa è ormai compromessa e c’è tutto il tempo di raccontare ciò che ha visto in tanti anni pedalati dappertutto. Così dal racconto, che è poi una canzone, appare improvvisamente il Piemonte contadino, come doveva essere all’inizio del Novecento. Un’immagine di donne minute che, pare incredibile a vederle, partoriscono uomini robusti che lavorano con ardore nelle grandi campagne dal vercellese fino ai terreni sotto alle montagne, dove domina la punta solitaria del Monviso. Una vita dura, sferzata dal vento freddo che alza la paglia nelle aie e più a est, nelle risaie, soggiogata dall’umidità che avvolge ogni cosa come una maledizione. Un’esistenza assoggettata a folate di malattie con le quali bisogna fare i conti e che, in mezzo alla campagna, mietono vittime senza curarsi di quanto forti possano essere le persone che intaccano. Una vita spietata, ma che ha i suoi sollievi negli alberghi silenziosi, dove il piacere è assecondato dalla migliore compagna: la discrezione.

 

Alla fine della canzone Giovanni Gerbi, il Diavolo Rosso, che ormai non ha più motivo di risalire in sella perché la gara e anche la sua forma d’un tempo sono perdute, oltre all’aranciata si concede, quando ormai è già sera, due bicchierini di ratafià di Biella e poi si congeda dagli ospiti per cercare un albergo tranquillo in cui trascorrere la notte. Accade così che l’astigiano per raccontare il suo ideale genius loci abbandoni i borbottii e sconfini persino nella pittura, tanto sono forti le immagini che la canzone evoca. Allora si passa da Bruegel Il Vecchio alle prese coll’estate e coll’inverno, all’“Alba sulle Alpi” di Giovanni Segantini. Dalla “Vestizione della Ragazza Morta” di Gustave Courbet, al “Bacio Alla Finestra” di Munch. E così si finisce pure per scoprire che questo benedetto Paolo Conte è pure un pittore – un pittore vero – e che a forza di raccontarne, e non solo ad Asti, è persino diventato, a sua volta, un genius loci. Così che la città si ritrova a possederne persino tre. Tuttavia, una volta stabilito questo, l’onestà intellettuale impone di sconfessare i biasimevoli sussurri dell’incipit. Se questi sono gli spiriti evocati dal luogo – Vittorio Alfieri, Giovanni Gerbi e Paolo Conte – allora il paradigma della città molto tranquilla e sin troppo prevedibile perde di colpo ogni vigore e Kant deve per forza trovare un altro luogo per passeggiare indisturbato. Così tutto ciò che è stato detto a mezza voce all’inizio di quest’avventura finisce per perdere i propri contorni e pian piano muta nell’aria allegra d’una famosa cavatina. “La calunnia è un venticello, un’auretta assai gentile, che insensibile sottile, leggermente dolcemente, incomincia a sussurrar”.

 

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