La statua di John Harvard nel campus dell’Università americana (foto LaPresse)

Tu che osi parlare

Chi difende la libertà d’espressione spesso difende soltanto la libertà di chi la pensa nel suo stesso modo. Il libro di Suzanne Nossel discute di questa ipocrisia, e di molto altro

Suzanne Nossel, ceo di Pen America, ha pubblicato martedì il suo saggio, “Dare to Speak. Defending Free Speech for All”, una guida per difendere e mantenere il dibattito democratico. Il 23 luglio la Nossel è stata ospite del podcast “So to Speak” di Nico Perrino dove ha discusso di cancel culture, censure, autocensure e del suo libro. Questo podcast è prodotto da Fire, un’associazione che si batte per la libertà d’espressione nei campus universitari. Il ceo di Fire oggi è Greg Lukianoff, autore assieme a Jonathan Haidt di “The coddling of the american mind”, uno dei testi rilevanti per comprendere il “safetysm”, la cultura secondo cui la sicurezza, compresa quella emotiva, è un valore sacro, ogni opinione o frase che vìola questa zona di sicurezza diventa una violenza. Pubblichiamo qui alcuni stralci della conversazione con Suzanne Nossel.

  

  


   

Nico Perrino. Guardando i dati, da decenni esiste un grande e generale consenso per i principi della libertà d’espressione. Ma mi ricordo che a un incontro della Open Society Foundation (…) è stata posta la domanda al pubblico: sostenete la libertà d’espressione? Naturalmente, il sostegno era totale, ma poi si chiese ai partecipanti se sostenevano i neonazi che protestavano davanti a City Hall, e il sostegno crollò. Quindi, questo è un momento particolare che riguarda questa generazione o questo sentimento c’è da sempre? I conflitti sulla giustizia razziale e sociale e sulla libertà d’espressione ci sono da sempre nella storia americana.

Suzanne Nossel. Certo, il concetto c’era già nel vecchio saggio di Nat Hentoff, “Free Speech for me and not for them”. Parlo anche io nel mio libro di questa ipocrisia riguardo la libertà d’espressione – tutti sentono una grande urgenza a difendere i punti di vista e le parole di quelli con cui sono d’accordo, ma non ne hanno altrettanta per i punti di vista e le parole che ritengono orrendi, o addirittura minacciosi. Era vero in passato e lo è ancora oggi. Non penso che questo sia un fenomeno nuovo. Ma penso che di nuovo ci sia questo senso di urgenza per cui la generazione che sta crescendo adesso vuole gli strumenti per cercare una società più equa, più inclusiva e più giusta, e che discriminazione, marginalizzazione, pregiudizi e razzismo strutturale debbano essere spazzati via. C’è l’idea che abbiamo fatto passare troppe di queste cose, che sono rimaste radicate e che in qualche modo le stiamo riportando in vita. E quindi: bisogna fare qualcosa. Credo che da qui nasca l’urgenza nel dibattito sull’hateful speech e che siano necessari rimedi: se questi rimedi poi finiscono per adombrare la libertà di parola, molti pensano che possa comunque valere la pena se l’esito è una società più equa. (…) Io penso che possiamo farlo senza dover introdurre limitazioni robuste alla libertà d’espressione, ma bisogna lavorarci e penso che i giovani facciano bene a denunciare questa urgenza.

  

NP. Guardiamo la situazione nei campus delle università. Il gruppo Turning Point USA non viene riconosciuto perché non riesce a trovare un advisor in una facoltà, perché in posti come Harvard soltanto l’1 per cento dei docenti è conservatore. Anche nei nostri mezzi di informazione c’è poca rappresentazione di punti di vista diversi: abbiamo visto quel che è accaduto con James Bennet al New York Times dopo che ha pubblicato il commento di un senatore eletto degli Stati Uniti. Come la mettiamo con le “voci differenti” da rappresentare?

SN. Penso che la diversity ideologica sia estremamente importante e le pressioni in questo ambito sono tante. Sono preoccupata dalle costrizioni imposte al nostro dibattito, soprattutto ora che andiamo verso una specie di assolutismo che rende le persone sinceramente diffidenti anche solo nel porre domande, ancora di più nell’avere opinioni controverse o addirittura a fare resistenza. Adesso il solo porre dei dubbi su alcuni dei precetti del movimento che anima le proteste rischia di metterti in una situazione difficile. Se chiedi quale possa essere il migliore approccio alla riforma della polizia, rischi di sembrare un traditore degli obiettivi di Black Lives Matter. Penso che sia preoccupante per quel che riguarda la profondità del nostro discorso e lo spettro di idee che vogliamo mettere in campo. Quanto ai campus, penso tu abbia ragione. Le voci conservatrici sono molto limitate, sono influenti in alcuni campus e del tutto marginalizzate in altri. Durante i lavori di Pen America sulla libertà d’espressione nei campus, abbiamo visto come questo fatto può avere enormi conseguenze. Siamo andati a Berkeley per parlare di quello che era accaduto quando qualche anno fa era stato impedito a Milo Yiannopoulos di parlare e abbiamo chiesto agli studenti del gruppo dei repubblicani perché avessero deciso di invitare uno come lui. Risposero che, in un campus molto di sinistra come quello, il loro margine di manovra era molto piccolo. Non ci sono tutor nelle facoltà, e senza un dipartimento che sponsorizzi l’evento non puoi nemmeno prenotare un’aula e si erano sentiti messi all’angolo. Anche alcuni studenti progressisti dissero che per i repubblicani a Berkeley la vita era molto difficile. E questo ha portato a una specie di risentimento che poi li ha spinti a invitare Yiannopoulos, come per dimostrare che, volendo, potevano farlo. Naturalmente l’invito finì in un caos, in una pubblicità negativa a partire dagli stessi studenti repubblicani, e fu divisivo e polarizzante. Per questo penso che sia molto importante per le università creare spazio per la diversity ideologica e promuovere discussioni argomentate e anche controverse e aspre (…). Le conversazioni complicate possono e devono continuare nonostante gli ostacoli e il rischio di malinterpretazione.

   

NP. Che cosa pensi della lettera a Harper’s e della cancel culture?

SN. Una delle ragioni per cui ho scritto questo libro e ho cercato di identificare i 20 modi che ci permetteranno di vivere insieme in questa società variegata, digitalizzata e divisa senza mettere dei limiti alla libertà d’espressione è proprio questa: dobbiamo parlare e porre bene tutte le questioni del dibattito. In alcuni capitoli, parlo della necessità di essere coscienziosi con il proprio linguaggio, e sempre attenti. Per esempio, se i tuoi studenti sono molto sensibili all’N-word, penso che tu come professore debba tenerne conto. Ci sono stati parecchi incidenti negli ultimi anni di professori che hanno utilizzato l’N-word in senso pedagogico, senza alcun intento o sfumatura insultante, ma sono stati attaccati dagli studenti. Penso che i professori debbano affrontare questa estrema sensibilità degli studenti e spiegarsi, in modo da non scatenare queste reazioni. Penso che un po’ di scrupolosità sia cruciale. Nel libro affronto anche i danni che certi discorsi possono fare e quanto sia importante comprendere questi danni senza volerli sminuire a tutti i costi: alcuni difensori della libertà d’espressione ogni tanto lo fanno, sulla base di una preoccupazione che è anche genuina, perché se ti prendi sulle spalle questi danni rischi di finire su quel crinale scivoloso che ti porta a legittimare le restrizioni alla libertà d’espressione. Ma io penso che funzioni esattamente al contrario, che se riesci a comprendere i danni di alcuni pensieri allora rafforzi la libertà d’espressione: riconosci che ci sono delle ferite che vanno prese in considerazione e per cui vanno trovati rimedi, se vuoi che la protezione della libertà d’espressione resista. Quanto alla lettera di Harper’s, molti l’hanno presa come un tentativo di scacciare via queste considerazioni – l’obbligo per le persone che parlano da piattaforme potenti di parlare in modo coscienzioso, il fatto che certi discorsi possono a volte aprire ferite per davvero. E pure se quella lettera aveva alcuni punti che sottolineavano proprio queste considerazioni, penso che lo slancio riguardasse in particolare la mentalità di massa, informale, censoria che nasce nel dibattito pubblico e l’effetto raggelante che ha. Penso che sia molto illustrativo del perché sia così difficile parlare di questa questione e di come devi dire tantissime cose in un respiro solo, come, in un certo senso, provo a fare nel libro.

Il mio libro può sembrare uno di questi giganteschi respiri in cui devi condensare tutto, ma ci sono molte cose che bisogna esplicitare per difendere la libertà d’espressione e riuscire comunque a parlare a questa generazione e alle sue preoccupazioni, in modo da lavorare insieme per una maggiore inclusività. Penso che sia giusto occuparsene e penso che questo sia il modo migliore per rafforzare la libertà d’espressione. (…) Molte persone che criticano la lettera dicono che c’è un problema più grande, quello di intere comunità di persone cui è stato sistematicamente negata l’opportunità di impegnarsi in nome della libertà d’espressione, o l’accesso a piattaforme per esprimersi. Questa diseguaglianza è a tratti più importante della cosiddetta cancel culture. Per questo nella lettera di Harper’s c’è una questione importante e legittima, ma per realizzare davvero la libertà d’espressione in questo paese bisogna occuparsi anche dei punti critici. Poi certo, c’è tutta la discussione sui firmatari (…). Se pensi che J.K. Rowling sia transfobica e che le sue idee sono senza fondamento ed eccessive, va bene, ma infangare tutti gli altri che hanno firmato perché c’era il suo nome – la colpa per associazione è un punto molto basso. Credo che i firmatari volessero dire che in mezzo a un ampio spettro di esperienze, professioni, ideologie e orientamenti, c’è qualche elemento in comune. E penso che abbiamo bisogno di molto più di questo elemento in comune. Per questo vorrei invitare tutti ad avere a che fare con compagni di avventure diversi da loro, e di evitare di giudicare le persone sulla base di queste associazioni molto fragili.

   

NP. Abbiamo parlato di cancel culture e molte persone che sono state “cancellate” si sono scusate. Tu scrivi che quando una cosa detta offende in modo profondo, scusarsi può fare la differenza come tra un incontro andato male o un conflitto che può cambiarti la vita. Penso che le scuse siano importanti, ma a volte non rendono le cose peggiori? Uno studio fatto dalla Columbia University (…) sulle frasi che disse Larry Summers sulle donne scienziate rivelava che i liberal e le donne dicevano più spesso che Summers avrebbe dovuto essere punito quando Summers si era scusato per quelle frasi rispetto a quando le scuse non erano state presentate. Che cosa vuol dire questo fenomeno?

SN. Non conosco questo studio, ma credo che sia preoccupante il fatto che stiamo diventando una società in cui le scuse sono soltanto una riaffermazione della percezione altrui riguardo alla tua colpa. Penso che questo sia un percorso pericoloso.

   

NP. Nel 2015, i terroristi entrarono negli uffici di Charlie Hebdo, uccisero 12 persone e ne ferirono altre undici perché il giornale satirico francese aveva ironizzato sulla figura di Maometto. (…) Il giornale continuò con le vignette e le pubblicazioni, cosa coraggiosa che anche tu hai considerato tale assegnando a Charlie Hebdo il Freedom of Expression, Courage Award. Ma alcuni nella tua comunità non erano d’accordo. Puoi raccontarci come hai gestito quelle contrarietà?

SN. (…) Facemmo una serie di cose. Prima di tutto ordinammo i volumi che raccoglievano tutte le edizioni di Charlie Hebdo in modo da vedere com’erano le vignette e la copertura dell’attualità. Pensavamo, e quella verifica ce lo confermò, che Charlie Hebdo se la prendeva davvero con tutti. Ebrei ortodossi, la leadership religiosa dei cattolici, leader politici, chiunque era stato caricaturizzato in quei disegni stilizzati. (…). E’ una rivista satirica che quasi fa pattugliamento lungo i confini esterni della libertà d’espressione e della satira, e la volontà di continuare a farlo anche quando era la vita stessa dei redattori a essere in pericolo era un atto di coraggio che doveva essere premiato. E quando questa decisione è stata attaccata, ci siamo messi a spiegare le ragioni del premio e perché pensavamo che il premio fosse giustificato, non ci siamo sentiti oltraggiati dal fatto che qualcuno non fosse d’accordo con la nostra decisione. Rispettavamo le persone che avevano sollevato la questione. Ci tenevamo. Li consideriamo membri importanti della comunità di Pen. E ora che mi guardo indietro, questo accadeva prima che Twitter occupasse interamente le nostre vite come accade oggi: fu una discussione molto ponderata.